di Riccardo Donati
Le vite potenziali (Mondadori, 2018) è il primo romanzo in prosa di Francesco Targhetta, scrittore trevigiano impostosi in questi anni all’attenzione di lettori e critici per l’originalità e qualità della sua produzione poetica, in ambito sia narrativo (il romanzo in versi Perciò veniamo bene nelle fotografie, ISBN 2012) sia lirico (la raccolta Le cose sono due, “Premio Ciampi Valigie Rosse”, 2014). Il libro è imperniato sulle vite di tre trentacinquenni, Luciano Foresti, Alberto Casagrande e Giorgio De Lazzari, detto GDL, che dopo un’adolescenza da nerd di genio hanno avviato una florida azienda informatica, la Albecom, con sede a Marghera. Ai diversi ruoli che occupano nell’impresa – il primo è un programmatore, il secondo il fondatore della ditta che da lui prende il nome, il terzo un commerciale, anzi un pre-sales – corrispondono caratteri tra loro poco compatibili: schivo e solitario Luciano, razionale e competente Alberto («a lui piaceva ottimizzare»), rapace e self-empowered Giorgio. Non millennials, ma appartenenti alla prima generazione cresciuta nel mondo digitale, in certa misura figli del Bruto Saraccini de Le mosche del capitale di Volponi (1989: colui che confidava nel potere «degli psicofarmacie dei calcolatori»), la loro vita è segnata dall’imperativo della felicità divenuto, si legge nel romanzo, «un obbligo morale», un dovere sociale. Una felicità che però i tre faticano a reperire nella sfera disarmata delle relazioni sentimentali, vuoi per incostanza o vuoi per difetto di attrattive, e che dunque tentano di raggiungere sul piano professionale, riempiendo le loro giornate di sfide e duelli, trame e complotti – il dominio della lotta in perenne estensione di cui già scriveva Michel Houellebecq. Il che spiega anche il loro disprezzo, o almeno quello di Alberto, per i ventenni, impreparati alla vita ma senza sentirsene responsabili. Con gli anziani sullo sfondo – o troppo in alto o fuori dai giochi – e i giovani disorientati, sono dunque loro, i trentacinquenni (beninteso: questi trentacinquenni), ad avere in mano il futuro del mondo produttivo, almeno all’apparenza: così esemplarmente Giorgio, cullato dalla consolante convinzione che ogni aspetto dell’esistente sia conoscibile ovvero catalogabile e dunque controllabile, si sforza di cancellare dalla propria vita imprevisti e anomalie, al contempo coltivando l’illusoria aspirazione all’essere diverso, unico e migliore (sull’orrore di essere uno qualunque, così distintivo dei nostri tempi, Targhetta gioca brillantemente un motivo ritornante, il caso di omonimia che coinvolge Alberto, in bilico tra romanzo russo e commedia all’italiana).
Squadernando davanti al lettore tanto la complessa, intricata interiorità dei personaggi quanto il contesto sociale, economico e geografico in cui questi si muovono, lo scrittore veneto sa creare connessioni tra elementi rivelatori che dicono molto sulla qualità dei tempi che viviamo, restituendo la de-connessione affettiva e intellettuale di questa brigata di uomini perennemente, maniacalmente iper-connessi. Le potenzialità del titolo, ossia le fantomatiche aspettative di guadagnare esperienza (che significa, in una ferrea logica binaria: vendere e/o acquistare) si rivelano infatti, a ogni snodo di trama, o ogni brano descrittivo o introspettivo, occasioni di dispersione e perdita, vortici di solitudine e incertezza, e non le promesse di un futuro di opportunità. Nel progresso scorsoio, si potrebbe dire parafrasando Andrea Zanzotto, della quarta rivoluzione industriale, la truffa dell’immaginario che collassa di continuo nel buco nero di un incolmabile vuoto esistenziale è perfettamente esemplificata dall’illusione di acquisto connessa alle pratiche dell‘e-commerce, tema cui è consacrata un’esemplare pagina del romanzo. Ma più in generale si veda come, su un tappeto ideologico fatto di darwinismo triviale, cultura aziendalistica e mito dell’efficientismo (risultando del tutto anacronistico ogni orizzonte di omeostatica soddisfazione lavorativa), l’autore sappia restituire per bagliori le ultime sopravvivenze di antiche culture (umanesimo, mondo rurale, religiosità popolare), non tanto sacche di resistenza quanto scorie di cui il neoliberismo ipertecnologico non riesce a liberarsi del tutto: meritano ad esempio di essere sottolineati il sapiente intarsio di linguaggio pubblicitario e lingua d’ogni giorno (un italiano standard venato di flessione dialettale); il persistere di un ambiguo retaggio cattolico calato in nuove e mal digerite convenzioni globali; la sfida improba di intrattenere rapporti maturi con la famiglia di origine e di conservare compagne stabili; le difficoltà insormontabili che un profilo psicologico segnato da un’insicurezza schiva e riflessiva incontra in contesti altamente competitivi. Una delle cose in cui Targhetta eccelle, per chiamare ancora in causa il nome del suo conterraneo Zanzotto, è la capacità di restituire al lettore la grana stessa dei paesaggi del Nord-Est, un certo rapporto insensato e febbrile con le attività del costruire e del distruggere, lo squallore dei non-luoghi alla moda e viceversa la straziata, improbabile bellezza di certi scenari negletti:
Prima di tornare a casa, decise di guidare un po’ per le strade di Marghera. Scelse di fare tutta via della Pila, reimmettersi in via delle Macchine e svoltare poi in via dell’Elettricità, come in un girotondo […]. La sera calava sui camionisti parcheggiati ai bordi delle banchine, pronti per mettersi a cenare su un tavolino ripiegabile in alluminio all’ombra dei loro tir, e sugli operai bengalesi che, dopo aver finito il turno alla Fincantieri a metà pomeriggio, uscivano di casa per bersi una birra all’Autoespresso, e su tutte le altre vite ai margini che lì si radunavano, come per istinto. Solo nei luoghi desolati certe vite possono trovare la loro armonia: i bar decadenti, le panchine lungo la circonvallazione, le piazze di periferia con le fontane disseccate e il cemento dei palazzi a cintura, le strade sporche dietro la stazione. Marghera.
Se, come sosteneva Anna Maria Ortese, la scrittura è «la sola chiave di lettura di un testo, e la traccia di una sua eventuale verità», sono proprio le doti stilistiche di Targhetta, forgiate in anni di pratica poetica, a consentirgli di cogliere la contemporaneità da un punto di vista realmente, complessivamente, umano. Il suo romanzo possiede la qualità netta di una scrittura controllata, precisa e analitica (con ampio ricorso al lessico specialistico dell’informatica) ma non arida, sapientemente nutrita dagli apporti della tradizione letteraria. L’autore è riuscito nell’impresa, non comune nel panorama della narrativa italiana recente, di costruire un discorso esteticamente complesso ed esatto, senza sbavature, divagazioni ammiccanti o concessioni ad astuzie di trama; un discorso che a forza di stile apre squarci sull’interiorità dei personaggi, restituendoci ora l’ottimismo vorace di Guido, ora la pragmatica cecità di Alberto, ora il disagio, il sentirsi fuori posto di Luciano, che è forse il vero protagonista de Le vite potenziali. Cresciuto a fatica in un contesto storico e geografico dominato da cieco calcolo e cupidigia, per non sentirsi un escluso Luciano ha dovuto piegare tutto se stesso – il corpo e l’anima, le idee e le aspirazioni – alle ostili condizioni di un mondo incompatibile con la sua personalità, senza tuttavia mai riuscire ad alienarsi al punto di “smemorarsi” del tutto nel fluire degli eventi. Ricorro qui a un verbo leopardiano perché c’è molto, di Leopardi, nel personaggio di Luciano. Non solo la condizione di solitudine e disperata assenza d’amore che lo caratterizza, ma anche il suo rapporto col tempo e, direi, con l’orizzonte esistenziale che abita, richiamano la figura del poeta recanatese: per l’uno come per l’altro la promessa di “mirabili sorti” non ha attrattive, solo le “ricordanze” di ciò che fu sono «la fonte di tutte le angosce ma, ancor più, di tutte le consolazioni». Perché non immaginare in fondo che, se il “giovane favoloso” fosse vissuto oggi, avrebbe probabilmente affidato all’informatica, e non alla scrittura, l’obolo da pagare all’«obbligo morale» della felicità – magari come Luciano diffidandone e, sotto sotto, disprezzandola?
In un’epoca in cui accelerare il corso del mondo è considerato l’unico modo di renderlo migliore, resistere stando ai margini è sempre più arduo, così come è complicato, persino per chi dalla lotta esce vincitore, tener fermo il baluardo della propria personalità (e dignità) qui e oggi. Difficile è insomma preservarsi dal diktat dell’esistere in potenza, dal miraggio di future celestiali configurazioni identitarie (non più uomini realizzati, ma realizzandi), dal dovere di occultare sconfitte e traumi di ieri, debolezze e tentazioni di oggi. Ma tutto questo non è, non può essere, un alibi per nessuno, neppure per il simpatico e timido Luciano. Le vite potenziali ha soprattutto questo merito: quello di porre personaggi e lettori di fronte allo specchio delle fragilità, delle colpe, delle incoerenze di ciascuno. Ciò che la letteratura di un tempo faceva così bene, e che quella di oggi non dovrebbe smettere di fare.
[Immagine: Pablo Zuleta Zahr, Alexanderplatz]