di Franco Buffoni
[Esce giovedì per Garzanti La linea del cielo, il nuovo libro di poesia di Franco Buffoni. Pubblichiamo sette poesie e la nota finale dell’autore, ringraziandolo per avercele concesse].
Giacenze
Sento che proprio mi fa male questa bassa
Temperatura, che a respirare camminando
Mi brucia la trachea. Non era così
Fino a vent’anni fa,
Con le mie tute e i miei
Maglioni fiato-nebbia
Nei boschi d’inverno sul greto del Ticino
E poi le cioccolate con panna e le Marlboro.
Così oggi la collina sui cui fianchi
Mi immuscolivo ragazzino
Salendo in bicicletta, discendo
Dalla stradina stretta,
Senza le viole tra le crepe
Dei muri vecchi cementati
Fino al cancello intatto
Dai cardini di ferro lavorati.
Ne sentii parlare nel 1983.
Come dell’aidiesse. Si scrive sullo schermo
E si può correggere quello che si vuole
Senza ricopiare, professore.
*
Vogliatemi bene e adoperatemi, se posso servirvi.
Anniversario
Ed ecco qui la soglia che tra poco
Oltrepasserai, questi i tre gradini e poi
L’entrata con la porta a vetri.
Ecco il marciapiede che calpesterai
Uscendo dalla metro.
Non sei mai stato qui
Ma in futuro ci verrai sovente
Quasi tutti i giorni per un anno
Quindi più diradato per altri sette mesi.
Percorrendo a ritroso i tuoi passi nel tempo
Della prima volta
Rivedo l’espressione sulla porta
Timidadecisa, imbarazzata non incerta
E voglio ritrovarmi in quel concerto di giornata
Voglio sistemarmi per oggi in quella data.
*
Maratonina dell’ultimo dell’anno
In questa Roma dalle porte
Sante disertate, la mattina del 31
A Villa Borghese erano in migliaia
A correre appaiati
In pettorina arancione.
E come l’Innominato all’alba
Mi sono interrogato
Su quale forza spingesse così tanti
A convenire nello stesso luogo,
Non richiamati da alcuno scampanìo,
Forse da un twit.
Non ho saputo e non so darmi risposta
Perché la fede qui non c’entra.
O forse sì: quella di Narciso
Riflesso nel laghetto
Moltiplicato per mille narcisismi
Non del volto, ma del giro-vita-petto.
*
L’autobus dei bambini morti
L’autobus dei bambini morti
E’ quello che Christine Koschel
Vide a Berlino nel quarantacinque,
Alcuni ancora vivi, molti infanti
Tutti assolutamente soli
Abbandonati in una fuga dal nulla al nulla
Durante l’avanzata dei sovietici.
Da qui gli occhi per sempre
Che l’orrore hanno visto
Di Christine
Intraducibile se non
Nello strappo sintattico.
*
Confucio con Maometto a San Lorenzo
O voi poeti e critici che all’Esc
Discutete dell’io in partenza da abolire
Per uscire dal lirismo,
Sapete il caso di quell’insegnante
Giovane motivato fresco di dottorato
Che in terza media al corso per stranieri
Spiega i pronomi e infine chiede
Qual è secondo voi la differenza tra egli e lui?
Sguardi interrogativi tra gli allievi in classe
Età media vent’anni,
Consultazione al terzo banco
Tra il magrebino (pizzaiolo) e la cinese (barista),
Ogni giorno in trincea, lavoro e scuola, a produrre un’intesa
In romanesco stanco. E senza ironia
Solo per necessità di definizione:
Folse se dice egli se lui è gay…
*
E azoto calcio ferro carbonio
E azoto calcio ferro carbonio
Così per gradire,
Ne hanno bisogno i nostri denti e il sangue,
Se ne nutre il Dna che ci compone,
Ne approfitta il cielo
Per dirci state buoni
Non è successo niente
Era solo una prova,
La fase degli Orazi e dei Curiazi
E’ finita da un pezzo.
Ma se penso intensamente
Agli inseguimenti a cavallo
Seguiti da duello,
Un giro di giostra in via Albalonga
E via la testa mozza del secondo,
Attendo il terzo e porto a soluzione
Il mondo.
*
Il mare aperto
Il mondo… il mondo no,
Lui continua e continua
Col suo sorriso da dinosauro
Dipinto sul viso
E un ego grande
Come un monumento funebre
Vòlto al mare aperto.
E con i suoi operai a darsi il turno,
Dentro a muoverlo
O a calmarlo
Solerti alle sollecitazioni
Del fisioterapista.
*
Nota dell’autore
La mia genealogia “tematica” è più appenninica che lombarda, o meglio, è giuliano-friulana con Saba e il primo Pasolini, poi bolognese, quindi passa per la Perugia di Penna per giungere alla Roma di Bertolucci e Bellezza. Con sintesi efferata potrei forse schematizzare in questo modo: Saba-Pasolini-Penna-Bertolucci-Bellezza vs Sereni-Erba-Risi-Giudici-Raboni? Tentando però una conciliazione, grazie a una definizione che proprio il codificatore di Linea lombarda, Luciano Anceschi, ci ha lasciato: “La riflessione che gli artisti e i poeti compiono sul proprio fare, indicandone i sistemi tecnici e le norme operative, le moralità e gli ideali” è la poetica. Se dunque le mie moralità e i miei ideali si trovano maggiormente a loro agio nella linea appenninica, i miei sistemi tecnici e le mie norme operative – la mia officina, insomma – rimane saldamente legata a “quella faccenda di laghi e di discorsi in un gran parco verdissimo” che è la poesia in re, prosciugata e scabra, dei miei maestri lombardi, Sereni in primis. Non a caso, forse, anche logisticamente, oggi io sono un lombardo che vive a Roma.
Se il risultato più evidente della fusione delle due linee in poesia è costituito da testi quali Il terzino anziano (“Erano invecchiati / Anche quelli della sua età, / Con l’erba verde tra i piedi / E l’odore di maglia a righe. / Ma lui restava, in difesa, / Pesante / A sentirsi i figli / Crescergli contro / E vendicarsi”), questo libro costituisce un più organico tentativo di convogliare le poesie “lombarde” e le poesie “romane” su un unico binario, che vorrei definire di una personale linea “lombardo-appenninica”, secondo un criterio etico – le mie moralità, i miei ideali – e secondo un criterio di confezione testuale: i miei sistemi tecnici, le mie norme operative. La Lombardia dei ricordi e dei continui ritorni; e la Roma dei pensieri. Come se dal Buffoni lombardo di una giovinezza che non trova scampo, in dialogo col Buffoni romano che concepisce la poesia come attività sapienziale (“rivelazione di parole espressa in parole” diceva Wallace Stevens), fuoriuscisse un poeta che non miscela ma fonde, cercando di evitare il rischio di pensarla in modo diverso sullo stesso argomento, a seconda che ne scriva da Roma o da Milano. “Egli” a Roma, “lui” a Milano: un po’ come la barista cinese della poesia Confucio con Maometto a San Lorenzo. E forse un po’ anche come la sintesi della lettera di Sereni a Pasolini del 27 gennaio 1954 sul poemetto Canto popolare, poi entrato nelle Ceneri di Gramsci: “… oltre al tuo solito coraggio, c’è anche quello, non so quanto raro in te ma abbastanza raro al di sopra di un certo livello, di correre il rischio di fare dei versi brutti pur di dire una certa cosa che preme e che se non fosse detta toglierebbe buona parte del significato ai versi più belli”. Con bene in vista la stilettata audeniana: “Due poesie mi chiedevano oggi di essere scritte: ho dovuto rifiutarle. Mi dispiace, mia cara, troppo tardi. Mi dispiace, tesoro, non ancora.” E la sorniona grazia zanzottiana: “Nessun diritto è riservato: / magari da me si copiasse / tanto quanto dagli altri ho copiato”.
[Foto: Gabriele Basilico, Panorama di Roma (1980)].
I passi rileggo
ma senza più occhi per correggerli,
solo,
come quel giorno che mi riconobbi
prima di perdermi
sdraiato
dentro i vuoti
pieni di voci cavernose, spesse,
a tre passi dal mio nome.
la poesia non si vive, non si commenta