di Agota Kristof

[È appena uscito per Casagrande Chiodi, un libro che raccoglie le poesie in ungherese e in francese di Agota Kristof. In relazione ai tragici avvenimenti vissuti dall’autrice nell’infanzia («Non ho ancora trovato la parola per qualificare ciò che è capitato. Potrei dire dramma, tragedia, catastrofe, ma nella mia mente chiamo tutto questo semplicemente “la cosa” per la quale non c’è parola»), così scrive Fabio Pusterla nella postfazione: «le poesie di Chiodi non aggiungono dettagli narrativi, né ci consentono di sapere molto di più; eppure, leggendole, abbiamo la sensazione di avvicinarci considerevolmente alla “cosa per la quale non c’è parola”, e questo avviene per una ragione molto semplice: a farsi garante della voce che parla in questi versi è un io, non ancora un vero e proprio personaggio “altro”, come invece avverrà nei romanzi; un io che ha già versato tutte le lacrime, che si è già ritratto in un dolore inesprimibile, un fortilizio di dolore che tiene chiuse in sé quasi tutte le emozioni, che concede poco o nulla al patetismo e che non di rado lascia uscire piuttosto la cavalleria del sarcasmo e del cinismo; ma un io, comunque, che imprime alle parole, anche senza volerlo, un’intonazione profondamente affettiva, profondamente sofferta e non di rado tendenzialmente lirica».
Le tre poesie che seguono, che l’editore Casagrande ci ha gentilmente concesso, sono state tradotte dall’ungherese da Vera Gheno. La traduzione delle otto poesie in francese comprese nel libro si deve invece a Fabio Pusterla].

Chiodi

Sopra le case e la vita
nebbia grigia lieve

con le foglie a venire
degli alberi nei miei occhi
aspettavo l’estate

più di tutto
dell’estate amavo la polvere la bianca
calda polvere
insetti e rane vi morivano soffocati
se non cadeva la pioggia
per settimane

un prato e piume viola sul prato
crescono
gli uccelli il collo dei pozzi
il vento stende sotto una sega

chiodi
puntuti e smussati
chiudono porte montano grate
tutt’attorno sulle finestre
così si edificano gli anni così si edifica
la morte

*

Qualche parola

Sono tornati i monti della primavera ma ormai
non assomigliano più a nulla in fondo
al lago non c’è altro che melma

vengono uomini dietro di loro non c’è nulla
guardano si avvicinano e fanno ritorno
a loro stessi

le città lentamente strangolano i loro
gracili giardini squarciano il corpo dei paesaggi
le strade

un uccello prova ancora a sollevarsi
risuona qualche parola qualche campana d’allarme
e cadono le pietre

*

Ti aspettavo

Ti aspettavo in fondo alla strada nella pioggia
andavo a capo chino ti vedevo lo stesso
ma non riuscivo a sfiorarti la mano

Ti aspettavo su una panchina le ombre degli alberi
cadevano sulla ghiaia fresca
come anche la tua ombra mentre ti avvicinavi

Ti aspettavo una volta di notte sul monte
crepitavano i rami quando li hai scostati
dal tuo viso e mi hai detto che non potevi restare

Ti aspettavo a riva con l’orecchio incollato
a terra sentivo il tonfo dei tuoi passi
sulla sabbia morbida poi si fece silenzio

Ti aspettavo quando arrivavano i treni lontani
e le persone tornavano tutte a casa
mi hai fatto un cenno da un finestrino il treno non si è fermato

 

[Immagine: Agota Kristof].

 

1 thought on “Chiodi

  1. Ágota Kristóf, Chiodi, Edizioni Casagrande, Bellinzona, 2018, pp.112, Eu 16,00
    Prefazione di Fabio Pusterla. Traduzione di Vera Gheno e Fabio Pusterla

    Recensione di Gino Rago

    Goffredo Fofi commentando Chiodi di Ágota Kristóf sul domenicale del Sole 24 ore segnalava che i “chiodi” della raccolta poetica della Kristóf non possono che essere i chiodi di Cristo sulla Croce:«I “chiodi” che danno il titolo a questa raccolta di poesie evocano irresistibilmente quelli della Croce».
    L’evocazione deriva sia dai temi trattati (lo smarrimento, la perdita della lingua madre, il distacco, lo straniamento, la condizione dell’esilio, l’amore nel ricordo dell’amore, l’attesa, il desiderio di una patria linguistica, le sconfitte, le emarginazioni, il sentimento della povertà da vivere in una terra ricca), sia dallo stile asciutto dell’autrice.
    Nel 1956, poco più che ventenne, Ágota Kristóf fugge dall’Ungheria con la sua bambina di quattro mesi, fugge dal paese dell’infanzia ed è costretta a separarsi dai quaderni con le sue prime poesie. Una perdita crudele. E’ il dolore per la perdita di quei versi a spingere l’autrice a riscriverli sul filo della memoria, così come è in grado di ricordarli, e forse a reinventarli. Negli anni, Ágota Kristóf scrive altre poesie sia in ungherese sia in francese, la sua nuova lingua. E come ricorda Fabio Pusterla:«Poco prima di morire la Kristóf esprime il desiderio di vedere raccolte tutte queste poesie in un libro. Il desiderio si avvera nel 2017, quando le Éditions Zoé le pubblicano in un’edizione bilingue ungherese-francese[…]».

    E ora si avvera il desiderio della Kristóf anche in Italia, per le Edizioni Casagrande di Bellinzona.
    «Qui le persone sono così felici
    che nemmeno amano
    sono realizzate non hanno bisogno
    l’uno dell’altro nemmeno di dio
    la mattina si siedono davanti alle loro case inondate di luce
    e fino a sera aspettano la morte».
    Quasi in un rimprovero severo verso l’indifferenza delle società opulenti che gioiscono per le diseguaglianze sociali, ma anche in un rimprovero verso il lettore, la Kristóf in questi versi parla dei privilegiati che ce l’hanno fatta mentre per i più che poi sono i tantissimi «la vita non è un regalo» ma una condanna senza nessun conforto.
    La questione linguistica è centrale per la Kristóf anche in poesia e ha una ben precisa origine suggellata in queste parole:
    «Non ho ancora trovato la parola per qualificare ciò che è capitato. Potrei dire dramma, tragedia, catastrofe, ma nella mia mente chiamo tutto questo semplicemente “la cosa” per la quale non c’è parola».
    E’ un caso emblematico e fortissimo di poesia del translinguismo l’esperienza poetica di Chiodi della Kristóf, questione che in una ermeneutica a lei rivolta su una pagina de L’Ombra delle Parole Giorgio Linguaglossa ricondusse a «zona spaesante» della poesia.
    Scriveva Linguaglossa:«[…]Per Ágota Kristóf quella «zona spaesante» del mondo è stata l’Ungheria del comunismo sovietico, quel regime dispotico e capillare di controllo e di educazione delle coscienze, l’ideologia della felicità dispotica promulgata per decreto poliziesco, l’abbandono da parte della poetessa del suo paese e della sua lingua, il dover imparare un’altra lingua, il francese, come propria lingua madre, l’esperienza del trovarsi senza lingua, o meglio, spodestata «tra» due lingue, in quella «zona» oscura inospitale, spaesante… La poesia della Kristóf nasce da qui, da questa «zona» inospitale e spaesante, priva di lingua, dalla ricerca spasmodica di una lingua di significati stabili[…]».

    Emblematici sotto questo aspetto di zona spaesante nel vasto tema del Grande Gelo linguistico e delle parole congelate appaiono questi versi di
    Ágota Kristóf
    Tre anni fa mi sono persa in una città dove
    Non avevo nessuno quindi non importava dove fossi
    Pubblicità saltellavano si dondolavano come scimmie
    Tram correvano a casaccio sulle rotaie
    Avrei potuto essere perfettamente libera e felice allora
    Se avessi trovato almeno un po’ di soldi
    Stavo sulla riva ferita da luci di un lago blu scuro
    Un’ombra mi passò accanto mi diede un’occhiata…
    Gino Rago

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