di Marco Delogu, con uno scritto di Edoardo Albinati e un’intervista a cura di Giorgio Falco
[È uscito da poco il libro fotografico Asinara, di Marco Delogu (Punctum), Una selezione del lavoro di Delogu è in mostra fino al 31 maggio presso il Warburg Institute di Londra e fino al 1 luglio 2018 presso il Palazzo Fabroni, Museo del Novecento e del Contemporaneo, di Pistoia. Pubblichiamo alcune foto, lo scritto di Edoardo Albinati che fa parte del volume e un’intervista di Giorgio Falco a Marco Delogu. I titoli sono redazionali (LPLC)]
L’esperimento
di Edoardo Albinati
Basta uno stretto braccio d’acqua, attraversato in pochi minuti di gommone, per piombare dal delirio vacanziero in un’oasi che, affascinante quanto le altre meraviglie della costa e dell’entroterra sardo, finisce per non avervi più nulla a che spartire, nulla di nulla, per la semplice ragione che è silenziosa, deserta, distante anche mentre ci metti i piedi sopra, persino in pieno luglio – dunque non più solamente bella, ma, letteralmente, sublime. La differenza tra il bello e il sublime va studiata nei manuali di filosofia e di estetica, però andando all’Asinara la si sperimenta allo stato puro. Ecco, la parola “esperimento” risulta particolarmente adeguata a questo luogo estremo, e chi visita l’isola ha la sensazione di entrare a farne parte. Di venire cioè sottoposto alla tensione del luogo onde misurare l’intensità delle sue reazioni: alla bellezza selvaggia, al vento, al volume di dolore umano irradiato negli anni, ai profumi, alla luce netta, alla potenza della nominazione di famosi banditi e leggendari giudici che qui hanno soggiornato. Alla sparsa popolazione di asinelli bianchi e grigi, dal malinconico sguardo bistrato. Di tutti gli esperimenti che vi sono stati condotti nel corso del tempo restano tracce imponenti o scheletriche. L’Asinara è stata quasi tutto l’immaginabile della derelizione umana: carcere e supercarcere, campo di prigionia, colonia penale e colonia agricola, quarantena. E ora è un parco naturale esemplare. In tutta Italia, forse solo l’ergastolo in cima all’isola di Santo Stefano sprigiona un magnetismo equivalente. Ma l’Asinara vi aggiunge la sua varietà, la movimentazione, le aperture improvvise di visuale, la presenza enigmatica delle bestie. Santo Stefano è un Escorial regale e vuoto, il teatro San Carlo volato sopra uno sperone di roccia; l’Asinara è un’intera Provenza disseminata di ruderi, montagne, radure, valli fiorite, baie e scogliere, porticcioli, fortini e casematte e animali selvatici.
Con le sue fotografie notturne, Marco Delogu raggiunge un punto inedito dove queste tensioni estreme sono sospese. Le figure e i profili si spogliano del loro significato e, se non ci fosse il titolo a ricordare la funzione che rivestivano (“Check point”, “Il bunker”, “Ossario”), diventano meravigliosamente anonime. Misteriose sì, ma non più minacciose. La bellezza e il male, poli assoluti e intransitivi dell’isola, non vengono eliminati, né conciliati tra loro (impossibile) ma messi tra parentesi. Almeno per una notte. L’intensità della vita resta come fantasma. È un sovrappiù, un residuo, lo stesso che permette a quelle forme di splendere miracolosamente nell’oscurità. La storia si è annullata, e con la storia anche la geografia. Dove siamo? Siamo lì, all’Asinara, certo, ma quell’esserci grazie a un tenue e delicato bagliore lunare che disegna appena il profilo delle cose, non corrisponde più alla litania dei nomi dei prigionieri e degli appestati, e nemmeno a quella delle specie botaniche che di giorno quasi accecano con i loro colori straordinari. Il fibrillante azzurro del mare battuto dalla luce, il suo sgargiante ronzio psichedelico, qui, tra queste tinte attenuate e filtrate quasi fino alla monocromia, non arrivano, e dunque non feriscono più. Accade cioè l’esatto opposto di quanto normalmente provocano la luce e il buio: è proprio quest’ultimo a far cessare eccitazione e spavento che sono legati a ogni luogo o evento straordinario. Di notte finalmente si respira dopo aver avuto durante il giorno il fiato mozzato dalla sorpresa. Nelle immagini create da Delogu ciò che dovrebbe essere unheimlich, non-familiare o addirittura angoscioso, perché immerso nella tenebra, si rivela invece come una scenografia poetica da sogno di mezz’estate: dove la vibrazione e il tumulto della vita si sono assottigliati in modo fiabesco, le strade bianche s’intravedono appena, i segnali di pericolo sono stati spenti perché non vi è più alcun pericolo, uomini e animali possono andare liberi e senza paura.
La possibilità di un inizio
Intervista a Marco Delogu, a cura di Giorgio Falco
I tuoi precedenti lavori sono nati anche da un’esigenza biografica. Insomma, stavolta, perché proprio Asinara?
Sì, in effetti anche i miei precedenti lavori sono sempre partiti da un aspetto biografico. Per esempio, i ritratti dei cardinali. Pensa che alcuni credevano mi fossero stati commissionati dal Vaticano, invece tutto è nato fotografando uno zio di mio padre, Enea, che aveva sposato i miei genitori nel 1956. Peraltro, all’inizio degli anni Settanta, i miei genitori sarebbero diventati atei. E allora dopo quel ritratto, ho iniziato a fotografare i cardinali in pensione o alla fine della loro vita, come appunto Enea.
E così è nato pure questo lavoro all’Asinara. Premetto che non ero mai stato all’Asinara. Sono di origine sarda, e sono stato molte volte in Sardegna, mai però all’Asinara, avevo guardato l’Asinara soltanto da Stintino. Ho deciso di fotografare l’isola, di notte. Ho chiesto le autorizzazioni per soggiornare – visto che è un parco nazionale – nei giorni tra il 5 e l’11 agosto 2017, durante una settimana di luna piena. Non appena sono arrivato, mi ha impressionato la scritta su un edificio: Alto commissariato per l’igiene e la sanità pubblica. Mio padre, nella sua carriera politica, si è occupato soprattutto di igiene e sanità pubblica, di piani sanitari nazionali e regionali, di prevenzione; e la scritta che mi è apparsa sul primo edificio, nella luce di mezzogiorno, evidenziava proprio quello di cui mio padre si era occupato in vita. Le prime due fotografie sono le uniche scattate di giorno.
Sì, sono le uniche immagini diurne. Lì si nota la presenza degli asinelli. L’asinello è un animale che mi dà sempre una sensazione di antichità, un animale fuori dal tempo, sopravvissuto ai secoli, ma di una vitalità sospesa. Ecco, poiché tutto entra in qualche modo nell’immagine, soprattutto ciò che non si vede, vorrei sapere quale influenza hanno avuto i suoni notturni nel tuo lavoro. Cosa ascoltavi mentre fotografavi di notte? Te lo chiedo perché le fotografie, pur essendo notturne, non danno una sensazione di minaccia, ma al contrario di equilibrio, di pausa, di pace dalla luce.
Noi viviamo per lo più immersi in un inquinamento visivo, circondati dalla luce, la luce dei lampioni, delle case. Però l’occhio si abitua velocemente alla notte. E poi, grazie alla luce lunare, non era completamente buio, infatti nelle immagini ci sono le ombre. Fotografare in quelle condizioni toglie il superfluo, vedi le cose senza sentire nulla, senza sentire le voci delle persone, solo un po’ il mare, gli uccelli notturni, e ascolti soprattutto il vento. Poi, l’ultima notte, è arrivata la pioggia.
Se penso alla parola Asinara, la associo, più che all’isola, al supercarcere. Supercarcere, parola piuttosto brutta, mi fa venire in mente l’epoca di transizione tra gli anni Settanta e Ottanta. Supercarcere appartiene al vissuto mediatico. Ma Asinara è stata molto altro, prima che il supercarcere fagocitasse la storia precedente, a cui tu, in qualche modo, hai ridato vita.
Certo, l’Asinara prima di essere adibito a supercarcere – per banditi sardi, terroristi di destra e di sinistra, mafiosi – è stato un carcere; tra l’altro è diventato supercarcere non per le particolarità dell’edificio…
Un supercarcere naturale, l’isola di un’isola.
Infatti, tant’è che è stato, in precedenza, campo di prigionia, colonia penale, e ancor prima colonia agricola, lazzaretto. Ma pur conoscendo la storia dell’isola – un secolo fa lì sono morti, alla fine della Prima Guerra Mondiale, 7200 ungheresi – ho cercato di sgombrare la testa dal passato. Gli asinelli, gli animali, mi hanno aiutato. Gli animali purificano i luoghi. I seicento asini presenti sull’isola sono nati lì, mentre i cavalli sono stati portati nel corso degli anni. Dopo la chiusura del supercarcere, dopo la dismissione in generale di ogni attività, li hanno lasciati lì e si sono riprodotti. Le pecore e le capre, invece, le hanno portate via.
E ora Asinara è un parco nazionale. Altra locuzione ambigua, che anestetizza, che ci conduce lontano dal luogo. Eppure tu fotografando di notte, rendi abitabile Asinara. Anche perché fotografi il checkpoint del carcere, il bunker; ma ormai, spogliati dalla loro funzione originaria, non sembrano più nulla; il vecchio checkpoint del carcere, sotto quella luna, fa tenerezza, gli si vuol bene. È il destino delle rovine, riportarci alla vita. Sarà a causa dell’ambientazione notturna, ma queste rovine pare conservino, più che la vita passata, la possibilità di un inizio.
Sì, alla fine fotografare è soprattutto questo. Cerco di trovare un linguaggio che aderisca alla mia esistenza, di usare la luce della luna che cambia. Il colore della luce lunare è più forte dei nostri tentativi di personalizzazione. Io sono arrivato sull’isola con mio figlio di un anno e con la mia compagna. Non consideravo l’isola un luogo di dolore né un approdo. Ignoravo cosa avrei fotografato. Ho evitato di vedere immagini dell’isola tratte dalla Rete. Sono andato lì per fotografare in piena libertà, cercando di sedare la mia ansia. Non ho usato il cavalletto, ho lavorato a mano libera, il tremolio della mano è il mio.
[Immagine: Marco Delogu, Asinara]
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