di Pierluigi Pellini
[Dieci giorni fa è morto Gérard Genette, uno dei fondatori della narratologia. Questo tombeau è uscito sulle pagine culturali del “Manifesto”].
C’è tutto Genette, con la sua sferzante (auto-)ironia, nella definizione scherzosa che ha dato, una decina d’anni fa, della narratologia, la disciplina che più di ogni altro ha contribuito a fondare negli anni d’oro della teoria letteraria, intorno al 1970: «una pseudo-scienza perniciosa», il cui «gergo ha indotto disgusto per la letteratura in tutta una generazione di analfabeti». Dove il sarcasmo colpisce in modo equanime le pedisseque applicazioni scolastiche del suo metodo di analisi strutturale del testo narrativo e i pigri pregiudizi di studenti di per sé poco inclini ai piaceri della lettura. L’autore di Figure III, il libro che per almeno tre decenni è stato la bibbia di ogni matricola in lettere (oggi sta scomparendo dai programmi universitari), era il primo a farsi beffe del narratologically correct imposto dalle sue stesse opere e sciaguratamente diffuso, in Francia come in Italia, nelle scuole di ogni ordine e grado: parlando con libertà e passione della Recherche, l’opera su cui più assiduamente ha lavorato, gli capitava di dire Proust e non Marcel, confondendo autore e narratore, e lasciando di stucco interlocutori tanto ottusi da trasformare, come i manuali scolastici, le sue distinzioni teoriche e le sue categorie operative in soggetti di un’ontologia fantasma.
Gérard Genette, scomparso a ottantasette anni lo scorso 11 maggio, è stato innanzitutto un maestro di metodo. In tutta la sua opera, altro non ha fatto che insegnare l’arte del distinguo: proprio per questo sapeva che è più importante evitare di confondere un saggio critico con una conversazione, o un adolescente con un dottorando, piuttosto che una sillessi con una metalessi, o un racconto eterodiegetico con uno omodiegetico. Del resto, il gusto del paradosso, sempre ricondotto, in un lampo d’intelligenza, alla più limpida razionalità, non è peculiare dei soli scritti della vecchiaia: dell’impresa ciclopica che si era proposto, quella di mappare «la totalità del virtuale letterario», conosceva il fascino utopico ma anche la smisurata aleatorietà. Esattezza e ironia: questo il binomio, solo in apparenza ossimorico, che informa la scrittura, svelta e elegante nonostante i tecnicismi, di tutti i suoi libri. Nei quali voleva descrivere non solo i testi storicamente esistenti, ma anche quelli logicamente immaginabili: esattamente come Claude Lévi-Strauss ambiva a censire le forme di tutte le possibili società umane. Insieme al grande antropologo, Genette ha incarnato, dello strutturalismo, l’anima più concreta e razionale; Roland Barthes quella più inquieta e creativa. Forse c’entra il fatto che era figlio di un operaio tessile (l’autore dei Miti d’oggi, invece, di un capitano della marina mercantile); e se è un luogo comune, oggi, ripetere che le opere di Barthes invecchiano meglio, di certo sono gli strumenti di laboratorio messi a punto da Genette a rimanere indispensabili per chi è ancora convinto che la critica, come la letteratura, sia innanzitutto nobile artigianato.
L’officina nomenclatoria di Genette, al tempo stesso pedante e ludica, ha lavorato senza sosta per mezzo secolo, producendo un’inflazione terminologica che accanto a categorie imprescindibili (anacronie, fenomeni di durata e frequenza, modi del racconto, voce narrativa: impensabile farne a meno), ne ha diffuse di inutili o infelici, destinate a precoce obsolescenza: così i suoi «ipertesti», che nel 1981 indicavano testi derivati, in modo più o meno palese, da altri testi, si sono arresi alla fortuna che il termine ha avuto, in altra accezione, nel linguaggio del web. E tuttavia, nel momento in cui la scomparsa di Genette (si può ben dirlo senza retorica) chiude definitivamente la stagione più alta della teoria letteraria novecentesca, l’onestà intellettuale dei posteri impone di riconoscere che la voga attuale della narratologia anglosassone (i nipotini di James, Forster e Booth) e delle sue approssimazioni impressioniste, o di quella austriaca (gli allievi di Stanzel) e della sua duttilità, o peggio di quella cognitivista (la cosiddetta neuronarratologia), risponde a esigenze prettamente accademiche di (vero o presunto) rinnovamento dei metodi, se non di mera produzione di carta da concorsi. Chi vuole capire come funziona un romanzo, usa e continuerà a usare Figure III (1972) e il Nuovo discorso del racconto (1983).
Non è tuttavia il testo, nella sua singolarità, a essere al centro delle preoccupazioni di Genette: che per questo non può essere considerato tout court un formalista, né semplicemente un narratologo, anche se ha indubbiamente contribuito a quello sbilanciamento dei valori che oggi induce il senso comune a identificare la letteratura con i soli generi narrativi. La disciplina cui ha dedicato i suoi sforzi più costanti è la poetica (perciò il titolo della rivista fondata nel 1970 con Hélène Cixous e Tzvetan Todorov, «Poétique»): lo studio, cioè, dell’«insieme delle categorie generali e trascendenti – tipi di discorso, modi d’enunciazione, generi letterari, ecc. – cui appartiene ogni singolo testo». Di qui l’interesse per la riscrittura (parodia, pastiche, imitazione) e per i «dintorni del testo», studiati rispettivamente in due grandi libri come Palinsesti (1982) e Soglie (1987); e la costante riflessione sulla natura stessa del fatto letterario, affrontata con uno scetticismo mai rinunciatario. Esemplare l’incipit di Finzione e dizione (1991): «avrei potuto gratificare questo saggio di un titolo ch’è stato grossolanamente usato: Che cos’è la letteratura?». Dove la stoccata a Sartre si capovolge prontamente in autoironia («a domanda sciocca, nessuna risposta»), mentre il saggio imposta l’analisi di quei rapporti fra fiction e non fiction che diventeranno di attualità, anche militante, nel nuovo secolo. Non a caso, esaurita la stagione strutturalista, Genette scriverà un saggio di estetica in due volumi, L’opera dell’arte (1994 e 1997), fedele al partito preso di un pragmatismo razionalista che lo porta a scegliere come interlocutore privilegiato Nelson Goodman. È la conclusione di un percorso – dalla letteratura alla filosofia analitica – per certi versi speculare a quello seguito dal coetaneo Jacques Derrida, che di Genette era stato collega e sodale nel 1959, quando entrambi insegnavano in un oscuro liceo di provincia, a Le Mans: due ‘vite parallele’ forse solo in apparenza antitetiche (strutturalismo e post-strutturalismo, tecnicismo scientista e decostruzione), emblematiche della cultura europea del secondo Novecento.
Una parabola fin troppo esemplare dell’ascesa e del declino non solo dello strutturalismo, ma della teoria letteraria tout court, è disegnata invece dalla ricezione dell’opera di Genette in Italia: il suo primo libro, Figure, del 1966, è stato tempestivamente tradotto tre anni dopo da Einaudi, che ha più o meno prontamente pubblicato anche i principali volumi degli anni successivi, fino a Soglie. I due libri di estetica, invece, sono usciti per i tipi di un piccolo editore universitario (Clueb di Bologna); le opere più tarde non sono mai state tradotte. Dell’ultima fase di Genette, aperta nel 2006 con Bardadrac – ancora un neologismo, che allude giocosamente alla confusione di oggetti eterocliti buttati alla rinfusa in un sacco –, e proseguita a cadenze quasi regolari con Codicille (2009), Apostille (2012), Epilogue (2014) e Postscript (2016), nulla è pervenuto al lettore italiano: ed è un vero peccato, perché l’understatement dei titoli, che annunciano null’altro che codicilli, postille, epiloghi e poscritti, nasconde la ricchezza e la complessità di un moderno zibaldone, nato sotto il segno di Montaigne e misuratissimo nel mescolare con apparente nonchalance riflessioni filosofiche, ricordi autobiografici, giudizi fulminanti sulla letteratura e sul mondo. Perché Genette è stato, dagli anni Sessanta fino a ieri, non solo un teorico, ma anche un grandissimo critico: la finezza di tante sue osservazioni – su Proust, su Flaubert, su molti altri classici non solo francesi – smentisce ogni sospetto di arido tecnicismo; e come Barthes è stato, sia pure in modi diversissimi, anche uno scrittore: che in Italia quasi nessuno conosce.
[Immagine: Gérard Genette (in basso al centro) in mezzo].
Grazie Pierluigi, glielo dovevamo.
“ 27 gennaio 1991 – Genette scriveva sui Cahiers du cinéma. (La rivelazione) “.
“…per chi è ancora convinto che la critica, come la letteratura, sia innanzitutto nobile artigianato”
Une pente dangereuse.
“ Giovedì 15 aprile 2010 – « Al galoppo di quattro cavalli, essa era portata via da otto giorni verso un paese nuovo, da cui non sarebbero ritornati mai più. Andavano, andavano, avvinti, senza parlare. » (Gérard Genette, Silenzi di Flaubert, in Figure / Retorica e strutturalismo, 1969 [1966]) “.
Grazie a Pierluigi Pellini per questo bel (e utile per le indicazioni finali) tombeau.
Mi pare che la storia di come le categorie di Genette sono state accolte dalla manualistica, quindi dagli insegnanti delle scuole superiori, quindi dagli studenti, sia però un capitolo ancora tutto da esplorare. Ci direbbe molto dei rapporti tra università e scuola (e insegnanti universitari e medi), delle difficoltà e aporie della democratizzazione/divulgazione della cultura (su questo mi pare che l’ironia di Genette sia snobbignaccola anzi che no, pur essendo autoironica), del bisogno umano troppo umano di possedere strumenti e chiavi che possano aprirti il mondo.
Soprattutto ci direbbe molto di quello che succede quando le categorie di un mondo culturale ristretto entrano nel vasto mondo dove si è uomini senza altri titoli: diventano immediatamente slogan e vengono caricati di una forza politica unilaterale che si pretende capace di rigenerare il mondo stesso.
Non credo che “lo strutturalismo cambierà il mondo” sia una frase che sia mai stata pronunciata effettivamente. Però coglie uno spirito. E’ quello che succede oggi con altri strumenti e chiavi salvifici: le “otto competenze europee per la cittadinanza”, che stanno (o almeno vorrebbero) mutare faccia alla scuola (con le migliori intenzioni, ovviamente). Le competenze sono un concetto anche serio, limato e rilimato in chiusissimi uffici europei dove non ci sono pedagogisti e disciplinaristi, ma policy makers, esperti di assessment, tecnocrati. Provate ad applicare il concetto di competenza al vasto mondo fatto di carne e spiriti vitali, e diventa un'”ontologia fantasma” (bellissima definizione!). Oggi siamo punto e a capo, la dinamica è la stessa e non abbiamo imparato nulla dal passato (è normale, l’historia non è magistra di niente che ci riguardi).
Tuttavia non nego che l’impressione di volontà di dominio totale dei fatti letterari che ho ricavato da quei libri di Genette che ho letto (pochissimi, anzi due: mi si conceda il beneficio d’inventario) è stata fortissima. Forse la radice della trasformazione di categorie teoriche e strumenti operativi in soggetti di un’ontologia fantasma era una possibilità insita nel modo stesso di intendere lo studio della letteratura di Genette.
Forse, chissà, anche questo spiega perché lo storicismo anch’esso non meno banalizzato dei trienni è però sempre apparso agli studenti meno astratto e cerebrale del formalismo banalizzato dei bienni. Storia contro virtualità.
“ 11 giugno 1985 – « A questa storia delle suddivisioni interne del campo letterario, il cui programma è ora vastissimo (si pensi solo a quella che sarebbe una storia universale dell’opposizione fra prosa e poesia: opposizione originaria, fondamentale, permanente, immutabile nelle funzioni e continuamente rinnovata nei mezzi) bisognerebbe aggiungere quella, molto più generale, tra ciò che è letteratura e ciò che non lo è: e il problema non sarebbe più la storia letteraria ma la storia dei rapporti tra la letteratura e la totalità della vita sociale, la storia della funzione letteraria. I formalisti russi hanno insistito sul carattere differenziale del fatto letterario. La “ letterarietà “ è anche funzione della non letterarietà, non se ne può quindi dare nessuna definizione stabile: resta solo la coscienza di un limite. Si sa che la nascita del cinema ha modificato lo statuto della letteratura appropriandosi di certe sue funzioni ma anche prestandole alcuni dei suoi mezzi. Una trasformazione che evidentemente è soltanto agli inizi. Come sopravviverà la letteratura allo sviluppo degli altri mezzi di comunicazione? Noi non crediamo più, come si è fatto da Aristotele a La Harpe, che l’arte sia un’imitazione della natura, e là dove i classici vedevano innanzitutto una bella somiglianza noi cerchiamo invece una originalità radicale e una creazione assoluta. Il giorno che il libro avrà cessato di essere il principale veicolo del sapere, la letteratura avrà forse di nuovo cambiato di significato. Può darsi che noi stiamo semplicemente vivendo gli ultimi giorni del libro. Questa avventura in via di svolgimento dovrebbe renderci più attenti agli episodi passati: non possiamo continuare a parlare all’infinito della letteratura come se la sua esistenza fosse scontata, come se i suoi rapporti col mondo e con gli uomini non fossero mai mutati. Ci manca ad esempio una storia della lettura. Storia intellettuale, sociale e persino fisica. Se crediamo a Sant’Agostino, il suo maestro Ambrogio sarebbe stato il primo uomo dell’antichità a leggere con gli occhi, senza articolare il testo ad alta voce. La vera storia è fatta di questi grandi momenti silenziosi. E il valore di un metodo sta forse nella sua attitudine a scoprire, sotto ogni silenzio, un interrogativo. » (Gerard Genette, Strutturalismo e critica letteraria in Situations I, 1966) “.
“ Martedì 8 gennaio 2008 – « “ Che mania di scrivere – disse tra sé ridendo -, quando c’è modo di parlarsi tanto comodamente! “ » (Stendhal, Il rosso e il nero, in Gérard Genette, « Stendhal », in Figure II, 1969) “.
“ Giovedì 5 luglio 2007 – C’è anche da dire che l’altro giorno il comico spaventato Citati ha borbottato qualcosa contro Genette che merita di essere ricordato: « L’influenza rovinosa di alcuni libri di testo compilati da professori universitari di tendenze strutturaliste, i quali imposero ai ragazzi di imparare a memoria gli attanti e le diegesi di Gerard Genette invece di aiutarli a comprendere la bellezza e il significato della letteratura. ». “.
“ Martedì 3 maggio 2005 – Ho cominciato a (pre)occuparmi della letteratura quando era già finita. Mi sono girato indietro pensando: dio mio, cos’è successo! Nel frattempo gli altri se n’erano fatta una ragione, avevano elaborato il lutto – gli anni Sessanta, Settanta, la critica, la « scienza della letteratura » come terapia, come tecniche del distacco. In mezzo ai « camici bianchi », c’erano poi tanti che della malattia, della morte della letteratura in realtà se ne fregavano altamente – cioè bassamente. Tanto per fare un esempio: quel gran paratesto del professor Genette. “.
“ Giovedì 24 gennaio 2002 – « Paratesto [8] [8] Da intendersi nel senso ambiguo, se non addirittura ipocrita, presente in aggettivi come parafiscale o paramilitare » (Gerard Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, 1997 [1982]) “.
“ Domenica 20 febbraio 2000 – Leggo questo Marrou del ‘38 – ripubblicato nell’’86 – Sant’Agostino e la fine della cultura antica mi viene in mente Genette. C’è anche la storiella di Sant’Ambrogio che leggeva in silenzio – Marrou veramente dice « a voce bassa ». Credo di capire perché Genette parla di silenzio – « grandi momenti silenziosi » – ripensando al fatto che Genette cominciò scrivendo sui «Cahiers du cinéma». Penso che quello che è accaduto negli ultimi trent’anni è stato appunto il silenzio – « Degli innocenti? » Sì, delle facce, dei corpi, del cinema, insomma. “.
Il neretto era, ovviamente, ” silenzio “.
I need to signal the American simpler–and often more useful–reframing of “Figures III”: Seymour Chatman’s “Story and Discourse” (Cornell UP, 1978). Oddly enough, Genette (1930-2018) and Chatman (1928-2015) led two parallel lives.
Ringrazio tutti per i commenti. In particolare Daniele Lo Vetere, che solleva un problema molto importante, e che ovviamente chiederebbe assai più di un post. Verissimo che lo strutturalismo degli anni d’oro aveva mire di egemonia culturale e velleità totalizzanti; però è vero anche che mentre Genette elaborava le sue categorie, non solo un Derrida esplicitamente, ma anche un Barthes ne deostruiva senza parere i presupposti (fin da S/Z, primissimi anni Settanta). La scuola ha mutuato, di tutta la stagione teorica, solo la parte più facilmente riconducibile a formule operative e schemi replicabili. Era forse inevitabile, forse no. Più sorprendente che oggi poco o niente penetri nella scuola delle ‘svolte’ recenti (metto fra virgolette il termine ‘svolta’, abusato ovunque e in questo blog particolarmente, al pari di ‘mutazione’ e simili: sarebbe tempo di tornare a ragionare piuttosto di longue durée – chiusa parentesi), e in particolare la cosiddetta svolta etica, che suggerisce un approccio alla letteratura molto più consono a un pubblico di adolescenti (e che non esclude, peraltro, anche una infarinatura tecnico-formale fin dalle medie – ma un’infarinatura funzionale al piacere del testo, all’identificazione, all’esperienza della lettura; non fine a se stessa).
(Beninteso, non vorrei passare per un paladino del Citati citato da un Adriano Barra oggi particolarmente ispirato, che pure ringrazio. Al contrario, credo che questo potrebbe essere un metro di misura approssimativamente esatto della cialtroneria intellettuale della critica degli ultimi decenni: cialtroneria direttamente proporzionale, direi, alla virulenza dell’attacco portato contro il feticcio-Genette; perché anche questo è stato, Genette: la testa di turco di una reazione neo-impressionista, neo-orfica, vetero-reazionaria, che ha avuto vita ancora più effimera delle più effimere fra le categorie narratologiche).
Quanto a Chatman, certo la sua è vita parallela a quella di Genette; ma, a mio parere – e proprio per l’assenza di una visione teorica più ampia -, assai meno rilevante (anche se, è vero, in alcuni casi operativamente di più immediato utilizzo).
Infine, non comprendo l’obiezione di Elena Grammann (seria? ironica?): dove si rischia di scivolare, sul declivio sdrucciolevole e pericoloso di un’idea ‘artigianale’ della letteratura?
“ 18 ottobre 1987 – Refusi: in Genette (Figure III, Einaudi, 1973) « introibo » è diventato « introito ». “.
Grazie, LPLC, e scusate l’incontinenza.
Le me rephrase my thoughts. Genette and Chatman lived parallel lives, at least chronologically, precisely because they kept at a constant distance from each other. For instance, for what I know, Genette had no interest in film (but I may be wrong). Conversely, Chatman wrote two whole books on Antonioni. His empirical reframing aimed at producing a clear analytical model, not at contending with Genette’s theory. They work at two different (parallel) levels.
@ Pierluigi Pellini
Diciamo un’obiezione semiseria.
Ex parte obiecti, dalla parte di ciò che viene prodotto, si rischia di scivolare, lo dice lei, nel prodotto artigianale ben fatto, ben confezionato, da diversi punti di vista ineccepibile; che però, chissà perché, rimane alla superficie delle cose come una macchia d’olio sull’acqua (e con lo stesso effetto di inestetismo). Che è il caso di molta produzione italiana contemporanea (non che voglia far carico al grande Genette dello stato attuale delle patrie lettere…). Per me, ai tempi, lo strutturalismo è stata una scoperta che mi ha aperto il mondo e per molti versi continua a rendermelo comprensibile; il problema è che il prodotto ben confezionato (attuale) non ha alla base una percezione strutturale autonoma della realtà, ma lavora su elementi, interpretazioni e concetti pre-eleborati e pre-definiti. Lavora col prefabbricato e produce prefabbricati. Mi dispiacerebbe essere confusa con “una reazione neo-impressionista, neo-orfica, vetero-reazionaria”, dalla quale preferirei mantenere le distanze, però credo che una percezione autonoma della realtà (che poi si struttura) – quello che, mutatis mutandis, era il “genio” dei romantici – sia necessaria alla produzione di letteratura, e che invece l’idea di “nobile artigianato” già nel concetto la escluda, o almeno ne prescinda disinvoltamente (con schifato scetticismo).
Ex parte subiecti, cioè dalla parte della critica, gli strumenti messi a disposizione sono naturalmente ottimi (soprattutto se utilizzati in modo non bolscevico), ma anche lì la deriva (lontana) è pericolosa. Qui il discorso si avvicina più al punto sollevato da Lo Vetere. Insegno francese in un liceo con corso Esabac. Posso assicurare per esperienza che – non solo da parte degli studenti, ma anche da parte dei docenti francesi – è possibilissimo analizzare correttamente un testo con gli strumenti (scolasticamente) mutuati da Genette senza nemmeno capire il significato letterale del testo.
Deconstructed Harry@
“ 13 giugno 1984 – « Scandalon significa trappola. » (Gerard Genette, Stendhal in Situations II, 1969) “.
About Genette and the film you are wrong, I suppose.
Sono anni che ho espulso la narratologia (scolastica) dal mio insegnamento al biennio, rifiutandomi pervicacemente di adottare qualunque antologia (scolastica).
Si può fare. Molto lietamente.
Anche perché ciò che conosce il tecnico (il professore) non deve necessariamente arrivare tale e quale allo studente, per di più così giovane. Il retroscena non è lo spettacolo.
Grazie all’amico Pellini.
@ Adriano Barra: a) I what do you mean by your quote from 13 June 1984? I am a dull American and do not get it; but I can read Italian, so please do not give up on me; b) I am glad to be wrong about Genette and film: any titles I should read, please?
@ Mariangela Caprara (let me try in Italian): capisco bene il problema e quindi preferisco sistemi più elementari, altrimenti gli studenti non leggono.
Grazie anche a chi è intervenuto oggi. Di là dai (pochi) meriti del mio pezzo d’occasione, è bello constatare che ci si può ancora appassionare a una discussione sui metodi e sui critici. (In quasi tutte le università è scomparso l’insegnamento di “Storia della critica letteraria”, a vantaggio di cose più ‘appetibili’ come le letterature comparate; di queste ultime ovviamente non parlerei mai male, praticandole volentieri; ma forse abbandonare la storia della critica è una simbolica dichiarazione di irrilevanza che i dipartimenti letterari potrebbero ripensare – come spesso capita, siamo attivamente complici della nostra stessa marginalizzazione).
Nella sostanza sono d’accordo con quanto scrive Elena Grammann. Preciserei solo un dettaglio: c’è artigianato e artigianato, e il nobile artigianato di cui parlo non ha nulla a che spartire (se non l’aggettivo) con il “nobile intrattenimento” di cui discute Gianluigi Simonetti (in un libro molto bello presentato su questo blog), citando senza citarlo Antonio Franchini. Quello è sinonimo di midcult, appunto di romanzo ben fatto e superficiale. L’artigianato che aveva in mente Genette era legato alla stagione sperimentale (nouveau roman, Oulipo, ecc.): l’esatto contrario, insomma (che piaccia o no, intendiamoci; anche questo aspetto militante di molti strutturalisti pare oggi in parte datato).
Deconstructed Harry@
I was thinking to Scandalo al sole (A Summer Place), Delmer Daves, 1959, with Sandra Dee etc.)
Excuse me for the bad English of a dull old Italian.
Un po’ di Cases sui vostri maccheroni:
«1. Fai leggere più testi possibile e trai più significativi, purché non troppo ardui per un determinato livello […] 1.1. Non pretendere nulla che non sia fondato su un minimo di lettura. […] 1.1.1. C’è sempre più verità attuale nella parola di Dante che in tutta l’industria culturale. […] 2. Parti sempre dal testo. Se gli studenti strillano come bambini buttati in acqua senza saper nuotare, lasciali strillare.[…] 2.1. Rifiuta quindi sia a) l’invito dei vecchi docenti a cominciare *ab ovo* rimandando alle calende greche l’approccio al testo, sia b) quello dei logotecnoncrati a espirre prima la metodologia […] 2.2. La lettura è il momento della filologia (in senso stretto e in senso lato)[…]. 2.2.1. Se si tratta di liriche o di passi di prosa, che fai leggere per intero, lascia che gli studenti arrivino da soli a interpretare il più possibile e intervieni là dove non hanno i mezzi […] £. Appena gli studenti hanno preso abbastanza confidenza con il testo, escine quando e come vuoi.[…]. 3.1. A questo punto si urta contro il problema dei metodi non strettamente immanenti dell’indagine letteraria. […] Se parli di Propp […] a proposito delle fiabe dei Grimm, o di Marx a proposito di Balzac, o di Freud a proposito di E. T. A. Hoffmann, questo deve dare un’idea della presenza di questi astri in certe porzioni del cielo della “scienza della storia” in cui i testi vanno opportunamente assunti: astri che puoi esortare a leggere indipendentemente dalla loro funzione ermeneutica perché splendono di luce propria […]
(C. Cases, Il poeta e la figlia del macellaio, in «Il boom di Roscellino», pagg. 210 – 216, Einaudi, Torino 1990)
@ adriano barra: come on, you are not dull at all! I have been reading your journal snippets: I like them a lot. Thanks for the tip on “Figures II”; I will get a hold of it.
Un link, fresco di giornata: https://www.en-attendant-nadeau.fr/