di Giovanna Cristina Vivinetto

[È uscito da poco, nella collana “Lyra giovani” di Interlinea, Dolore minimo, il libro di esordio di Giovanna Cristina Vivinetto (1994). Racconta la condizione transessuale, la metamorfosi che l’io deve affrontare per trovare la propria identità. Queste sono sei delle poesie che lo compongono]

Al mio paese esiste una parola
nitida come un chiodo
un motivo che scongiura il male.

«Scansatini» è una preghiera,
un inno altissimo alla preservazione
di se stessi. «Fa’ che non accada»,
sentivo bisbigliare spesso
«Fa’ che non diventi così», e poi
all’improvviso le labbra si serravano
e le parole assumevano un accento
arcano, quasi inviolabile.

Eppure gli «Scansatini, Signuri»
tornarono uno ad uno: il male
da scansare fu concepito tutto
nel mio grembo – ma non ci furono nuovi
spergiuri da formulare, parole
che annullassero parole, mani
da alzare al cielo per fingersi
inutilmente sorpresi, feriti.

Allora ci fu solo da sbrogliare
gli anni subìti, mettere a posto
le parole e liberare all’aperto
quello che a mani giunte si temeva.
E quel mostro che in tanti anni
avevo allontanato, fu assai più
docile quando, abolite le catene,
lo presi infine per mano.

 


«Transessuale è una parola terribile.
Mi inganni» dici. «È così –
rispondo – è sempre stato così».
Distogli i tuoi occhi dai miei,
li volgi alle mani, alla tazzina
di caffè piena per metà, al piede
destro del tavolo, all’insegna del bar
dove mi hai dato appuntamento,
all’auto che ti sfreccia accanto
in strada. Queste cose a cui ti appigli
non ti daranno alcuna salvezza.
«È solo che non si capisce – esiti –
a vederti sembri una normale».
Può bastare: mi alzo e mi prendo
il sacrosanto diritto di sembrarti
diversa da tutte le altre.

Mentre mi allontano s’insinua
un’amara soddisfazione:
Essere normali – sorrido – come
suonano vuote queste parole.


Ho sempre orinato in piedi.
Ho imparato ad espellere i fluidi
in piedi e per diciannove anni
ho sempre orinato così.

A vent’anni non ho più orinato
in piedi: mi sono seduta.
Non che fossi operata, non che fossi
già evirata: l’organo non era
mutilato. Intatto, orinava
come aveva sempre orinato.
Questa volta seduto, accovacciato.
Dopo vent’anni rifunzionalizzato.

Credono che la conquista di un corpo
transessuale sia l’alterazione del visibile.
Un corpo gonfiato, manipolato
che appaia quasi irriconoscibile.

Sedersi senza deformare è in verità
l’atto più sincero. Più rivoluzionario.
La manovra più difficile.
Sedersi e scoprire che il corpo
non si mortifica se cambia approccio
alla normalità – la sessualità
è tutto un groviglio da districare
nella mente – che non serve a niente
dilaniarsi pezzo dopo pezzo il corpo
per renderlo accessibile
se non si riesce a sedersi
con se stessi. Se non si è in grado
di consolare quell’intima diversità
che ci ha costruiti macchine perfette
benché contro la nostra piccola volontà.


Tutto iniziò con l’avere confidenza.
Eravamo solo noi due e il corpo.
Dapprima c’ero io soltanto,
lei venne poi con l’urgenza piccola
del vento, della pioggia, delle radici
– di tutto ciò, insomma, che non si può
controllare ma semplicemente accade.
Riposava nell’ordine inviolato
della natura. Forse da secoli
era iscritta in una qualche cellula
tramandata col tempo fino a me.
Perciò non seppi, non potei scacciarla.
Dovetti, come ogni destino, prenderne
atto. Forse era qui per salvarmi.
Era me più di quanto io stesso
potessi appartenermi. Mi fidai.
Così iniziai a darle spazio.


Gli altri parenti ebbero reazioni
contrastanti. C’era chi l’aveva
sempre saputo, chi sempre dubitato,
qualcuno lo considerava un capriccio,
qualcun altro non ci credeva affatto.
Si disse persino ch’era tutto un gioco,
desiderio vano di travestimento.
Perché, ci giuravano, a nessun’altra
famiglia di loro conoscenza
era capitata una simile sorte.
Non sapevano in che modo affrontarla.
Così il resto della famiglia tramava
una soluzione alle spalle del dolore.
Come se niente fosse mai successo.
Come se la distanza, il silenzio o l’attesa
fossero di per sé sufficienti
a chiarire le cose. A esorcizzarle.
E nessuno che venisse qui
a domandarmi davvero
chi ero.


Tutto si chiude su te per celebrarti.
Ma quel che sento non è l’ardore
della festa, il riso sproporzionato
dei bambini. È l’angoscia composta
del funerale che si scioglie.
Il sollievo triste di un malanno
che si è consunto sotto terra – e non può
più ferire. Questa minuscola vita
che pareva non esigere nulla
da te, sappi, ti deve tutto.
Quante volte, già da bambini,
l’idiozia del crescere ti rinnegava.
L’ansia di dovercela fare da soli.
E ora che ho imparato ad amarti,
tu, sofferta mia consolazione, tu ora
hai deciso di non esserci più.
Ora che una grande paura mi prende.
Ora che so di dover andare sola.

 

[Immagine: Nan Goldin, Valèrie in the Taxi]

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