di Raoul Bruni
[Usciranno nei prossimi giorni, per Nino Aragno Editore, due libri curati e introdotti da Raoul Bruni: Su Leopardi di Giuseppe Rensi e La filosofia di Leopardi e altri scritti leopardiani di Adriano Tilgher. Il primo riunisce per la prima volta in volume gli scritti leopardiani di Rensi; il secondo ripropone il saggio di Tilgher del 1940 e un gruppo di articoli dispersi. Proponiamo in anteprima, con qualche ritocco, alcuni paragrafi tratti dalle introduzioni ai due libri].
Giuseppe Rensi non pubblicò mai, durante la propria vita, un libro su Leopardi; eppure se si dovesse indicare un suo autore d’elezione il nome di Leopardi è senz’altro il primo a cui verrebbe da pensare. Certo per Rensi hanno contato molto anche altri pensatori, da Spinoza a Schopenhauer, da Nietzsche a Pascal, ma forse nessun altro esercitò su di lui un influsso così decisivo e durevole come Leopardi.
Per Rensi Leopardi è «uno dei più grandi filosofi italiani (forse il sommo)»[1]; il «il nostro maggiore poeta e, insieme […] il nostro maggiore filosofo»[2]; «il sommo filosofo d’Italia»[3]; «la più grande figura che la storia del pensiero italiano presenti»[4]; e si potrebbero citare altre affermazioni analoghe. Oggi giudizi del genere sarebbero sottoscritti o accettati da molti[5], ma nel contesto culturale dell’Italia primo-novecentesca, egemonizzato dal neo-idealismo, il solo fatto di considerare Leopardi un filosofo rappresentava di per sé una sovversiva eresia critica. Croce, infatti, non riconobbe a Leopardi nessun valore filosofico, limitando il suo apprezzamento per l’opera leopardiana al solo versante lirico-idillico[6]; quanto a Gentile, pur proponendo una importante lettura filosofica delle Operette morali, negò ogni valore speculativo allo Zibaldone[7]. Leopardi non era considerato un vero filosofo dagli idealisti perché il suo pensiero veniva giudicato troppo rapsodico, contraddittorio, frammentario e, quindi, asistematico. Per Rensi, invece, queste caratteristiche non dovevano considerarsi limiti o difetti, ma erano, al contrario, i sintomi più lampanti della modernità filosofica di Leopardi. Rensi capovolge completamente la concezione idealistica della filosofia, secondo la quale solo chi ha costruito un sistema filosofico coerente e rigoroso può reputarsi un filosofo. Per Rensi il sistema è «soltanto la scoria o il cemento che serve a tener uniti i soli pochi pensieri valevoli», mentre i filosofi più autentici sono i frammentisti, gli autori di pensieri «staccati, come […] Leopardi e Amiel, Pascal, La Rochefoucauld, lo stesso Nietzsche»[8].
La crisi della prima Guerra mondiale sarà decisiva per Rensi. È come se la catastrofe bellica facesse piazza pulita di ogni residua fede nelle magnifiche sorti, portando definitivamente il suo pensiero verso esiti sempre più radicalmente scettici e nichilistici. Dopo la guerra, nel 1919, escono quasi simultaneamente due opere fondamentali di Rensi, Lineamenti di filosofia scettica (da cui è tratta La filosofia del diritto del Leopardi) e La scepsi estetica (in cui è compreso Lo scetticismo estetico del Leopardi), che si pongono, fin dal titolo, sotto il segno di un’implacabile scepsi.
Secondo Rensi, con il suo anti-razionalismo e il suo relativismo, Leopardi ha messo in crisi ogni idea costruttiva e rassicurante della società e della politica. L’uomo ha un carattere intrinsecamente «antisociale», recita un famoso passo dello Zibaldone citato da Rensi; e nello stesso Zibaldone si trova una critica tanto acuta quanto spietata della cosiddetta «società stretta», ricostruita puntualmente nella Filosofia del diritto del Leopardi. Leopardi è quindi interpretato come un implacabile demistificatore politico, in quanto mostra come ogni volontà generale, ogni fantomatica volontà della legge sia in realtà una sopraffazione più o meno violenta ai danni dell’individuo. Da qui, come precisa Rensi in un successivo paragrafo dei Lineamenti, l’impossibilità di un «buon governo»: «Il problema di fondare un buon governo, intorno al quale si sono eternamente affaticati e si affaticano politici e filosofi, è insolubile, pensava Leopardi»[9]. Non esistono governi buoni, Stati giusti (anzi paradossalmente, dice Rensi, con Leopardi, la monarchia sarebbe la forma di governo più razionale): ogni volontà politica generale non potrà non schiacciare la libertà del singolo individuo. Dall’interpretazione di Rensi della filosofia politica di Leopardi affiora una sorta di anarchismo[10] senza utopie, che dell’ideologia anarchica accoglie appunto la parte distruttiva (la demistificazione della violenza dello Stato) rifiutandone nello stesso tempo ogni slancio progressivo. La filosofia del diritto del Leopardi è uno scritto importante perché mette in luce per la prima volta, con profondità d’analisi, un ambito tutt’altro che secondario della riflessione leopardiana, che solo di recente è stato più adeguatamente documentato: quello politico (per non parlare della filosofia del diritto, a cui è stato dedicato uno specifico Convegno leopardiano pochissimi anni fa[11]). Oggi Leopardi è addirittura inserito in autorevoli dizionari di filosofia politica, ma considerarlo un grande filosofo politico nei primi decenni del Novecento rappresentava un fatto assolutamente senza precedenti[12]. D’altra parte, se rimane discutibile l’etichetta di Leopardi come filosofo «scettico» in senso troppo univoco, il commento rensiano a certe pagine sociali e politiche dello Zibaldone rimane ancora convincente.
A inizio Novecento altro ambito ancora quasi totalmente inesplorato del pensiero leopardiano era l’estetica (unica eccezione un saggio interessante ma piuttosto impressionistico di Romualdo Giani apparso nel 1904[13]). Tanto che Benedetto Croce, nella sua Estetica, come fa notare Rensi nello Scetticismo estetico, sembrerebbe quasi ignorare Leopardi. Se nella Filosofia del diritto Leopardi è interpretato come distruttore dei dogmi sociali e politici, nello Scetticismo estetico, è presentato come distruttore dei dogmi estetici. Attraverso un’analisi puntuale dei pensieri estetici zibaldoniani, Rensi illustra come Leopardi abbia dimostrato l’infondatezza filosofica di ogni canone assoluto del bello. Se l’idea che abbiamo del bello artistico si basa inevitabilmente sull’esperienza, sarà impossibile trovare un canone estetico condiviso da tutti, che prescinda dalla soggettività delle esperienze individuali. Vanificata ogni astratta sintesi estetica, ogni «idea del bello universale e assoluta»[14], la componente che determina la formazione dei parametri artistici sarà soprattutto l’assuefazione, a cui Leopardi, nello Zibaldone, dedica ampio spazio.
Lo scetticismo estetico del Leopardi e La filosofia del diritto del Leopardi sono gli unici due scritti di non breve respiro che Rensi dedica espressamente al pensiero leopardiano; tuttavia in quasi tutte le sue opere successive i riferimenti a Leopardi, espliciti o impliciti, abbondano, tanto che sarebbe stato impossibile documentarli interamente in questo volume. Tuttavia, c’è almeno un altro nucleo del discorso di Rensi su Leopardi che non poteva assolutamente essere tralasciato: il rapporto poesia-filosofia. Da qui l’idea di arricchire il volume con un’appendice comprendente altri due brani (La filosofia come lirica e Intuizione e concetto. Metafisica e lirica), sempre tratti, rispettivamente, dai Lineamenti di filosofia scettica e da La scepsi estetica. La scelta non mi è sembrata arbitraria in quanto si tratta di testi in cui Leopardi rappresenta un punto di riferimento centrale.
In questi due scritti, più di cinquant’anni prima che si diffondesse nella critica leopardiana la fortunata formula del pensiero poetante[15], si indica Leopardi come archetipo moderno di poeta-filosofo. Ancora una volta, Rensi approda a questo esito teorico liquidando le teorie di Croce e degli idealisti, che contrapponevano rigidamente poesia e filosofia, relegando la prima nel campo soggettivo della pura espressione artistica e la seconda in quello universale della verità. In Filosofia come lirica Rensi sostiene, da un lato, che la filosofia deve rinunciare alla pretesa di trasmettere verità assolute, dall’altro, che l’arte esprime spesso concetti universali, e può quindi avere una funzione filosofica. La distinzione tra arte e filosofia non è dunque così netta come lasciano intendere gli idealisti. Del resto anche la filosofia può esprimersi in forme soggettive, non troppo dissimili da quelle artistiche.
Il merito di aver messo in discussione l’idea monolitica di una filosofia-verità e di aver aperto la strada alla filosofia-arte, secondo Rensi, va attribuito a Leopardi: «Profondamente dice il Leopardi che solo è utile la sommità della filosofia perché ci libera e disinganna dalla filosofia. La sommità della filosofia è lo scetticismo che ci libera dall’idolo vano della filosofia-verità: senza privarci però della gioia della filosofia-arte»[16]. Nel caso di Leopardi, e di altri poeti, ogni distinzione netta tra poesia e filosofia sarebbe pretestuosa: «riguardo ad una certa lirica, come quella del Leopardi e del Browning», è «manifestamente del tutto impossibile, non ostante ogni sforzo e sottigliezza, di stabilire dei consistenti e precisi caratteri che la differenzino dalla filosofia»[17] .
L’idea di poesia filosofica elaborata da Rensi sembra aver avuto una qualche influenza sulla poetica di un suo grande lettore, Eugenio Montale, il cui debito con Rensi è stato finora scarsamente indagato[18]. Così recita un famoso passo di un’intervista montaliana del 1960: «C’è stata, però, a partire da Baudelaire e da un certo Browning, e talora dalla loro confluenza, una corrente di poesia non realistica, non romantica e nemmeno strettamente decadente, che molto all’ingrosso si può dire metafisica. Io sono nato in quel solco. Tutta l’arte che non rinunzia alla ragione, ma nasce dal cozzo della ragione con qualcosa che non è ragione può anche dirsi metafisica […]»[19]. Pur senza le oltranze anti-razionalistiche di Rensi, Montale riprende, a suo modo, una certa concezione di poesia filosofica non troppo dissimile da quella proposta in Filosofia come lirica: si noti, tra l’altro, che sia Rensi sia Montale fanno il nome di Browning. Del resto lo stesso Browning viene citato a più riprese come esempio di poeta-filosofo anche in Intuizione e concetto. Metafisica e lirica (nell’intervista citata Montale parla, per l’appunto, di «poesia metafisica»). Un capitolo, quest’ultimo, sicuramente presente a Montale, dato che è contenuto nella Scepsi estetica, ricordato e elogiato in modo esplicito dal poeta come «geniale e paradossale volume»[20].
Oggi quasi completamente rimosso dal mondo culturale e dalla grande editoria[21], Adriano Tilgher è stato – insieme con l’amico e sodale Giuseppe Rensi – il caposcuola di un certo filone minoritario della saggistica italiana novecentesca, che varrebbe la pena riscoprire. Un filone eretico, anti-accademico, spesso in conflitto con i poteri politici e culturali dominanti, che si è propagato nell’opera anch’essa trascurata di un Nicola Chiaromonte, il quale si formò proprio attraverso la lettura delle cronache teatrali tilgheriane, e ha avuto una notevole incidenza sull’apprendistato filosofico di uno scrittore come Leonardo Sciascia, che non ha mai nascosto il suo debito nei riguardi di Tilgher. Nel corso della propria vita, Adriano Tilgher ha pagato certamente lo scotto, da un lato delle sue aspre polemiche anti-crociane e anti-gentiliane, dall’altro delle sue prese di posizione contro il regime fascista[22]. In seguito il clima del secondo dopoguerra non si mostrò molto più favorevole alla fortuna di Tilgher, il quale rimaneva comunque un pensatore troppo irregolare, non certamente in linea con il pensiero progressista e storicista che andava per la maggiore in quegli anni. Tutt’al più Tilgher veniva ricordato come critico di Pirandello (si deve, come è noto, a lui la formulazione della dialettica vita/forma come chiave di lettura dell’opera pirandelliana) o, per l’appunto, come discutibile antipode filosofico di Croce e Gentile (una certa fortuna ha avuto, in particolare, il feroce pamphlet anti-gentiliano Lo spaccio del bestione trionfante[23]). Eppure, e forse anche per le stesse ragioni che ne hanno decretato l’emarginazione nel secolo scorso, oggi il pensiero di Tilgher appare per molti aspetti ancora di estremo interesse. Stiamo parlando di un filosofo che ha lasciato una mole vastissima di scritti, ancora in gran parte da inventariare (non esiste una bibliografia completa delle opere di Tilgher) o addirittura inediti, che toccano gli ambiti più diversi, dall’estetica alla critica letteraria e teatrale, dalla morale alla politica.
Con La filosofia di Leopardi Tilgher fornì un contributo fondamentale alla conoscenza del pensiero leopardiano. Eppure questo saggio viene quasi sempre ignorato o trascurato nei manuali di storia letteraria, che attribuiscono il merito di aver scoperto il valore filosofico dell’opera di Leopardi a Cesare Luporini, e al suo fortunatissimo saggio Leopardi progressivo. Senza nulla togliere al grande rilievo storico del saggio in questione, che, insieme con La nuova poetica leopardiana di Walter Binni, segnò la cosiddetta svolta del 1947, non bisogna dimenticare che, ben prima di Luporini, altri studiosi avevano rivendicato l’importanza del Leopardi filosofo (riconosciuto come tale, del resto, già nell’Ottocento, non solo dal maestro e amico Giordani, ma anche, tra gli altri, da Nietzsche). Intanto, all’indomani dell’uscita dello Zibaldone, pubblicato sintomaticamente proprio all’inizio del Novecento, apparve una serie di studi, seppure un po’ approssimativi, sul pensiero di Leopardi; successivamente, in contrasto con il graduale consolidarsi dell’egemonia idealistica, l’intrinseco valore filosofico dell’opera leopardiana venne più persuasivamente messo in risalto da studiosi e saggisti come Giulio Augusto Levi, Lorenzo Giusso, Giovanni Amelotti e, soprattutto, da Giuseppe Rensi, che vide in Leopardi niente meno che il massimo filosofo italiano[24]. Ma tra le pubblicazioni antecedenti a quella di Luporini, il libro di Tilgher, ultimato nel 1939, e pubblicato nel 1940 (dunque sette anni prima dell’uscita del Leopardi progressivo) occupa una posizione di tutto riguardo, come prima, convincente trattazione organicamente consacrata alla filosofia leopardiana.
Tra le osservazioni di Tilgher che avrebbero segnato veri e propri punti fermi per la comprensione del pensiero leopardiano, occorre ricordare almeno la distinzione tra amor proprio ed egoismo («amor proprio non è affatto sinonimo di egoismo»); la dimostrazione del materialismo leopardiano, su cui tornerò; la distinzione tra «barbaro» e «primitivo» («Figlia della decadenza è la barbarie. Leopardi distingue profondamente fra barbaro e primitivo: il primitivo è sano, il barbaro è corrotto […]»); l’individuazione di alcuni fondamentali nuclei tematici dello Zibaldone, come la teoria dell’assuefazione; l’interpretazione dell’Infinito, che, confutando una tesi allora molto autorevole di Karl Vossler, Tilgher definisce non come l’analisi, bensì come «la narrazione (cosa ben diversa) di un processo spirituale»[25]. Altri spunti di Tilgher sarebbero stati adeguatamente sviluppati soltanto dalla critica leopardiana più recente, come ad esempio, le considerazioni sul pensiero storico e politico di Leopardi. Tilgher che, non per nulla, fu il primo ad introdurre in Italia il pensiero di Spengler, si mostra molto attento nei riguardi delle riflessioni leopardiane sulla storia come decadenza e sulla ciclicità storica (a questo proposito, egli insiste giustamente sulle consonanze tra Leopardi e Vico). Come già Rensi, Tilgher vede in Leopardi un esemplare controcanto filosofico al processo di divinizzazione della storia messo in atto, a suo dire, dagli idealisti: «Al contrario dell’Idealismo hegeliano per cui la Storia è lo sviluppo fatale o necessario (e quindi l’unico possibile) di un Dio immanente o Spirito del Mondo (donde l’apoftegma hegeliano: tutta la storia è storia sacra), per Leopardi infinite storie erano possibili oltre quella che è stata e poteva benissimo non esserci, che appunto perciò non ha nulla né di sacro né di divino» (si ricordi che Tilgher fu uno dei primi filosofi a approfondire la questione dell’ucronia).
Tutt’altro che trascurabili sono anche i rilievi di Tilgher sul platonismo sui generis di Leopardi – altra questione che la critica leopardiana avrebbe ripreso e sviscerato solo negli ultimi decenni[26]: «Per quanto riguarda l’illusione di amore, nulla di più naturale che Leopardi riecheggiasse la teoria di Platone […], ma facendole subire un cambiamento radicale». L’aver colto le componenti platoniche presenti in Leopardi ha permesso a Tilgher di prospettare una teoria del materialismo leopardiano molto meno monolitica di quella proposta sia dagli studiosi precedenti, sia dai leopardisti di orientamento marxista del secondo dopoguerra. Per Tilgher, «Leopardi fu materialista. Ma il suo materialismo fu più sottile, articolato e profondo di quanto dai più si crede», giacché finisce per «sbocca[re] nel mistero», cioè in una forma singolare di religiosità (non certamente confessionale), che un numero sempre crescente di studiosi ha ravvisato in Leopardi.
Anche da questo punto di vista, le osservazioni di Tilgher possono considerarsi pionieristiche. Scrive pagine di notevole acume sulla «teologia negativa» leopardiana e giunge a scorgere in Leopardi quegli accenti gnostici, su cui decenni più tardi avrebbe particolarmente insistito uno studioso come Cesare Galimberti: «Era psicologicamente, se non logicamente, inevitabile che a Leopardi il Dio della Teologia negativa, il quale non si sa perché, ha dato vita a un mondo di individui che non possono vivere che a patto di soffrire, si trasformasse in un Dio malvagio [Arimane] che crea per tormentare e distruggere». Ma, a proposito della religiosità leopardiana, risultano ancor più convincenti le pagine del capitolo Esperienze numinose, che chiude l’appendice del volume (ma le pagine dell’appendice sono in realtà altrettanto importanti di quelle dei capitoli precedenti). Qui Tilgher applica a L’infinito, La vita solitaria e il coro di morti del Ruysch, la categoria del numinoso, mutuata dallo studioso del sacro Rudolf Otto, ravvisando, in particolare nel primo componimento, «l’esperienza di un ineffabile che è oltre il piano ordinario della vita […]; esperienza non religiosa (mancando qui ogni personificazione mitica) ma numinosa». Quanto al coro del Ruysch, Tilgher lo considera «non solo una delle più belle poesie di Leopardi e, in senso assoluto, un capolavoro poetico, ma la più bella senz’altro delle poesie leopardiane, il vertice della sua produzione»: giudizio di valore assolutamente significativo per quegli anni. Così come significativo è il rinvio a Heidegger (che prima di allora solo un critico semisconosciuto, e forse ignoto allo stesso Tilgher, come Giovanni Amelotti, aveva citato a proposito di Leopardi): «i morti ricordano senza veramente ricordarsene il tempo in cui furono vivi. Il mistero che è ora per loro la vita mortale, la vita che è l’essere per la morte (come dice Heidegger) e la ripugnanza che essa loro ispira formano il tessuto emozionale del canto».
La valorizzazione di un testo come il «coro di morti» ci mostra come il canone leopardiano di Tilgher fosse ben più ampio di quello accreditato dalla linea critica De Sanctis-Croce, che salvava quasi esclusivamente i componimenti del periodo idillico (Tilgher tiene invece ampiamente in considerazione, tra l’altro, anche i testi dell’ultimo Leopardi, quali La ginestra e i Paralipomeni). Inoltre, Tilgher è tra i primi a cogliere, per così dire, la poesia della prosa leopardiana, tanto che un pensiero zibaldoniano del marzo 1827 («Io veggo corpi che pensano e che sentono…») è definito «una pagina capitale dello Zibaldone, così letterariamente bella, che non so resistere alla tentazione di citarla largamente». Tilgher, infatti, fu tra i primi a leggere lo Zibaldone non come opera di servizio, con valore meramente vicario rispetto alle poesie e prose canoniche, bensì come testo filosofico e letterario autonomo. Certamente, per altri aspetti, La filosofia di Leopardi mostra i limiti inevitabilmente legati al contesto storico in cui fu scritta. Come già Rensi, Tilgher si presenta come un continuatore di Leopardi e questo fa sì che troppo spesso egli sovrapponga arbitrariamente il suo proprio pensiero a quello del poeta. Lasciano molte perplessità quei passi in cui l’autore, con troppa disinvoltura storica e filologica pretende di sostituirsi a Leopardi, o addirittura di correggerlo.
D’altra parte, si potrebbe dire, parafrasando un celebre verso di Caproni riferito a Montale, che ciascuno ha il suo Leopardi. Ciò vale anche per i grandi lettori, e il Leopardi di questo libro è senza dubbio il Leopardi di Tilgher, con tutti i limiti che ciò può comportare. Tuttavia, eliminati i residui della polvere del tempo, questo volume rimane ancora assai più utile di molti saggi su Leopardi in chiave filosofica apparsi successivamente. La critica leopardiana, infatti, troppo spesso ha voluto ridurre l’inafferrabile complessità dell’opera leopardiana ad una etichetta: nel corso dei decenni si è parlato di un Leopardi «progressivo», di un Leopardi «reazionario», di un Leopardi «cristiano», di un Leopardi «nichilista», solo per ricordare alcune delle formule più fortunate. Il Leopardi di Tilgher, se certamente non è «progressivo», non è neanche un reazionario. Anzi, in un passo piuttosto sorprendente del libro, si sottolinea il fatto che Leopardi «applaud[a] “allo spirito di energia che ora domina in gran parte di Europa agli sforzi diretti a far progredire la civilizzazione in modo da render le nazioni e gli uomini sempre più attivi e più occupati” […] e perciò meno attenti al desiderio di felicità che geme in fondo all’animo. Perciò» – aggiunge – «la comune opinione che Leopardi, se oggi vivesse, sarebbe sfavorevole alla nostra civiltà del lavoro incessante, dell’attività febbrile, del moto perpetuo, della velocità crescente, è del tutto fuori strada». Anche la tesi di un Leopardi a suo modo cristiano è nettamente rifiutata da Tilgher («non ci fu mai anima più radicalmente negata al Cristianesimo della sua. Persino in Nietzsche ci sono nostalgie e rimpianti cristiani; in Leopardi no»), che pure, come si è ricordato, era stato tra i primi a rilevare una possibile religiosità leopardiana. La questione del nichilismo, invece, seppure venga sfiorata a più riprese nel libro[27], non viene mai evocata esplicitamente: Tilgher preferisce parlare, appunto, di «teologia negativa», oppure, come già Rensi, di scetticismo, o di presagi di relativismo e di contingentismo.
Insomma, nella Filosofia di Leopardi, così come negli altri scritti leopardiani di Tilgher che qui si raccolgono per la prima volta in volume, non troveremo quelle viete formule schematiche di cui la critica continua ancora ad abusare: bensì approssimazioni concettuali, in gran parte ancora feconde, all’irriducibile complessità dell’universo filosofico leopardiano. Questo libro offre quindi al lettore una duplice occasione: riscoprire, attraverso il suo più pregnante testamento filosofico (La filosofia di Leopardi esce un anno prima della morte di Tilgher), un pensatore trascurato ma importante della cultura italiana novecentesca; e riconfrontarsi con l’opera leopardiana senza lo sgradevole filtro delle etichettature che ne hanno condizionato la ricezione fino a oggi.
[1] G. Rensi, Lineamenti di filosofia scettica, seconda edizione rielaborata ed ampliata, Zanichelli, Bologna 1921, p. 114.
[2] G. Rensi, Lo scetticismo estetico di Leopardi [1919], in Id., Su Leopardi, a cura di R. Bruni, Nino Aragno Editore, Torino 2018, p. 37.
[3] G. Rensi, Apologia dello scetticismo, introduzione di A. Torno, La Vita Felice, Milano 2011, p. 85.
[4] G. Rensi, La mia filosofia, in Id., Autobiografia intellettuale – La mia filosofia – Testamento filosofico, Dall’Oglio, Milano 1989, p. 202.
[5] Basterà ricordare il giudizio di un filosofo contemporaneo tra i più noti, Emanuele Severino (che ha dedicato a Leopardi ben tre volumi), il quale ha affermato che «l’autentica filosofia dell’Occidente, nella sua essenza e nel suo più rigoroso e potente sviluppo, è la filosofia di Leopardi» (E. Severino, Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, Rizzoli, Milano 1990, p. 21).
[6] Cfr., in particolare, B. Croce, Leopardi, in Id., Poesia e non poesia, Laterza, Bari 1935, pp. 103-119.
[7] Gli scritti leopardiani di Gentile sono raccolti in G. Gentile, Manzoni e Leopardi, seconda edizione riveduta e accresciuta, Sansoni, Firenze 1960.
[8] G. Rensi, Lineamenti di filosofia scettica, cit., pp. 341-342.
[9] G. Rensi, Lineamenti di filosofia scettica, cit., 149.
[10] Non è un caso che uno dei primi tentativi di documentare il pensiero politico di Leopardi abbia avuto come esito una interessante, seppure tendenziosa, antologia di Pensieri anarchici estratti e scelti dallo Zibaldone, a cura di F. Biondolillo, Tariffi, Pistoia 1945, ristampata recentemente, a cura di A. Di Grado, Ad est dell’Equatore, Napoli 2017).
[11] Cfr. Ius Leopardi: legge, natura, civiltà, Atti del seminario di studi (Macerata, 16 ottobre 2015), a cura di L. Melosi, Olschki, Firenze 2016.
[12] Importante per la riscoperta del pensiero politico di Leopardi fu soprattutto l’uscita dell’antologia, curata da Mario Andrea Rigoni, La strage delle illusioni, Adelphi, Milano 1992. Sulla filosofia politica di Leopardi bisogna ricordare anche il giudizio di un critico come Luigi Baldacci, secondo il quale Leopardi è da considerarsi un «filosofo politico tra i più grandi del nostro Ottocento» (L. Baldacci, Due utopie [1982], in Id., Il male nell’ordine. Scritti leopardiani, Rizzoli, Milano 1998, p. 71).
[13] R. Giani, L’estetica nei Pensieri di Giacomo Leopardi, Fratelli Bocca, Torino 1904.
[14] G. Rensi, Lo scetticismo estetico del Leopardi, cit., p. 49.
[15] Cfr. A. Prete, Il pensiero poetante. Saggio su Leopardi. Edizione ampliata, Milano, Feltrinelli, 2006 (1° ed. 1980).
[16] G. Rensi, Lineamenti di filosofia scettica, seconda, cit., p. 364.
[17] G. Rensi, Su Leopardi, cit., p. 68.
[18] L’unico contributo specifico sull’argomento è quello di C. Scarpati, Montale e Rensi, «Sigma», XIII, 1, gennaio-giugno 1980, pp. 77-108 (poi ripubblicato, con qualche variazione, sotto il titolo Scepsi e ascesi all’epoca degli «Ossi», in Id., Sulla cultura di Montale, Vita e Pensiero, Milano, 1997, pp. 7-32).
[19] E. Montale, Sulla poesia, a cura di G. Zampa, Mondadori, Milano 1976, p. 581.
[20] E. Montale, Auto da fé, in Id., Arte, musica, società, a cura di G. Zampa, Mondadori, Milano 1996, p. 105.
[21] Da segnalare, invece, i meritevoli recuperi della piccola casa editrice romana Atlantide che, per impulso di Simone Caltabellota, ha fatto recentemente ristampare il volume Filosofi antichi (2015) e ha poi pubblicato la ricca silloge Filosofi moderni (2017).
[22] Per un profilo complessivo del filosofo campano, cfr. innanzitutto G. F. Lami, Introduzione a Adriano Tilgher, Giuffré, Milano 1990 e R. Faraone, Adriano Tilgher: tra idealismo e filosofie della vita, Rubbettino, Soveria Mannelli 2015.
[23] Ristampato anche ultimamente, con una prefazione di G. Turi, dalle Edizioni di Storia e Letteratura (Roma, 2017).
[24] Numerosi sono i punti di contatto tra La filosofia di Leopardi e le pagine leopardiane di Rensi, anche se, d’altra parte, l’interpretazione di Tilgher si discosta da quella del filosofo veneto per alcuni aspetti non del tutto marginali (il Leopardi di Rensi è più radicalmente pessimista di quello di Tilgher). Inoltre a differenza di Rensi, che aveva affidato la sua riflessione su Leopardi a una serie di saggi e frammenti sparsi, Tilgher fornisce con il suo volume un contributo più compatto e organico. Tant’è che lo stesso Rensi in un suo intervento su Schopenhauer avrebbe riconosciuto i meriti di Tilgher, definendo La filosofia di Leopardi un «bel libro […], dove essa filosofia è messa in luce in una linea limpidissima» (G. Rensi, Modernità di Schopenhauer, «Minerva», 28 febbraio 1941, p. 74).
[25] Tesi sottoscritta anche da Luigi Blasucci, Leopardi e i segnali dell’infinito, Il Mulino, Bologna 1985, p. 112.
[26] Tra gli ultimi saggi usciti sull’argomento, cfr. almeno F. D’Intino, L’immagine della voce: Leopardi, Platone e il libro morale, Marsilio, Venezia 2009, e M. Natale, Il canto delle idee. Leopardi tra «Pensiero dominante» e «Aspasia», presentazione di A. Folin, con una nota di G. Lonardi, Marsilio, Venezia 2009.
[27] Gli studi su Leopardi in chiave nichilistica non possono infatti prescindere da un confronto con Tilgher (si veda ora l’ampia ricognizione di L. Capitano, Leopardi. L’alba del nichilismo, Orthotes Editrice, Napoli-Salerno 2016, in cui il nome di Tilgher ricorre varie volte).
[Immagine: La biblioteca di Casa Leopardi a Recanati]
“ Giovedì 9 giugno 2005 – Questo che segue, non è un pensiero, ma un racconto, ch’io pongo qui per isvagamento del lettore. Un mio amico, anzi compagno della mia vita, Antonio Ranieri, giovane che, se vive, e se gli uomini non vengono a capo di rendere inutili i doni ch’egli ha dalla natura, presto sarà significato abbastanza dal solo nome, abitava meco nel 1831 in Firenze. Una sera di state, passando per Via buia, trovò in sul canto, presso alla piazza del Duomo, sotto una finestra terrena del palazzo che ora è de’ Riccardi, fermata molta gente, che diceva tutta spaventata: ih, la fantasima! E guardando per la finestra nella stanza, dove non era altro lume che quello che vi batteva dentro da una delle lanterne della città, vide egli stesso come un’ombra di donna, che scagliava le braccia di qua e di là, e nel resto immobile. Ma avendo pel capo altri pensieri, passò oltre, e per quella sera né per tutto il giorno vegnente non si ricordò di quell’incontro. L’altra sera, alla stessa ora, abbattendosi a ripassare dallo stesso luogo, vi trovò raccolta più moltitudine che la sera innanzi, e udì che ripetevano collo stesso terrore: ih, la fantasima! E riguardando per entro la finestra, rivide quella stessa ombra, che pure, senza fare altro moto, scoteva le braccia. Era la finestra non molto più alta da terra che una statura d’uomo, e uno tra la moltitudine che pareva un birro, disse: s’i’ avessi qualcuno che mi sostenessi ‘n sulle spalle, i’ vi monterei, per guardare che v’è là drento. Al che soggiunse il Ranieri: se voi mi sostenete, monterò io. E dettogli da quello, montate, montò su, ponendogli i piedi in su gli omeri, e trovò presso all’inferriata della finestra, disteso in sulla spalliera di una seggiola, un grembiale nero, che agitato dal vento, faceva quell’apparenza di braccia che si scagliassero; e sopra la seggiola, appoggiata alla medesima spalliera, una rocca da filare, che pareva il capo dell’ombra: la quale rocca il Ranieri presa in mano, mostrò al popolo adunato, che con molto riso si disperse. A che questa storiella? Per ricreazione, come ho detto, de’ lettori, e inoltre per un sospetto ch’io ho, che ancora possa essere non inutile alla critica storica ed alla filosofia sapere che nel secolo decimonono, nel bel mezzo di Firenze, che è la città più culta d’Italia, e dove il popolo in particolare è più intendente e più civile, si veggono fantasmi, che sono creduti spiriti, e sono rocche da filare. E gli stranieri si tengano qui di sorridere, come fanno volentieri delle cose nostre; perché troppo è noto che nessuna delle tre grandi nazioni che, come dicono i giornali, marchent à la tête de la civilisation, crede agli spiriti meno dell’italiana. » (Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri) “.
Articolo molto interessante. Si dimentica
però di citare uno dei più rigorosi studiosi di Leopardi, Sebastiano Timpanaro.