di Alberto Comparini
[È uscito da poco il saggio di Alberto Comparini, Un genere letterario in diacronia. Forme e metamorfosi del dialogo nel Novecento (Fiorini). Queste sono alcune pagine del capitolo iniziale]
Karl Jaspers, Von der Wahrheit (1947)
«gli assi e le dimensioni di una nuova realtà che s’offre all’intuizione; realtà che s’afferma nell’opera d’arte, ma sfuma ben oltre di essa ad involgere tutta l’esperienza; realtà che è l’incontro pacificato ed armonico in cui l’io e il mondo sembrano aver raggiunto la loro immediata verità».
Antonio Banfi, Filosofia dell’arte (1962)
Nel 1983, sulle pagine di «Poetics Today», Paul De Man pubblica Dialogue and Dialogism, un saggio dove le teorie di Michail Bachtin e dei suoi epigoni contemporanei sono sottoposte a un attento esame (decostruzionista) per analizzare i rapporti tra ‘fact’ e ‘fiction’, tra realtà e mondo finzionale, nel romanzo:[1] «filosofia analitica, semiotica, narratologia, estetica e ricezione della lettura, fenomenologia, esistenzialismo, ontologia critica heideggeriana, discepoli di Leo Strauss»; «uno», prosegue De Mann, «potrebbe facilmente giocare a estendere ulteriormente questa lista»,[2] ad esempio con i più recenti studi ‘mediali’[3] di scuola americana e tedesca,[4] piegati a costruire la teoria del dialogo, oppure con i numerosi tentativi di storicizzazione – dalle origini fino al tardo Ottocento, sulla falsa riga dell’imprescindibile lavoro in due volumi di Rudolf Hirzel (1895)[5] – dell’evoluzione estetico-formale del dialogo filosofico e letterario.
Come ricorda Enzo Paci in Dall’esistenzialismo al relazionismo (1957), «il campo dell’estetica è il campo delle forme simboliche e comprende, quindi, per indicare soltanti i suoi momenti fondamentali, il longuaggio, il mito, l’arte».[6] Questo libro è un tentativo – ein Versuch, come recita il sottotitolo di Theorie des Romans di György Lukács[7] – di studio del dialogo come genere letterario e delle sue principali forme simboliche in Italia, Francia e Germania; tale percorso sovranazionale ha origine nella crisi conoscitiva del 1910, che ha raccolto, storicamente e allegoricamente, la crisi sociale, religiosa ed epistemologica di fine secolo, il fallimento del positivismo e la conseguente indeterminazione della realtà riportata dalle discipline scientifiche, e si estende fino alle esperienze neo-avanguardistiche del secondo Novecento – con una particolare attenzione per le relazioni che intercorrono tra la pratica discorsiva orale e scritta, nonché tra letteratura e radio – e lambisce la produzione letteraria del nuovo millennio. Non saranno oggetto della nostra analisi la presenza del dialogo in poesia e nelle forme narrative – finzionali e/o reali –, così come il suo utilizzo nel dominio della filosofia. Non mancheranno ovviamente riferimenti e analisi comparate tra questi diversi usi della parola dialogica – in particolare a Bachtin e a ciò che la sua teoria del dialogo ha comportato negli studi umanistici[8] –, ma l’oggetto del nostro studio sarà focalizzato esclusivamente sul dialogo come genere letterario autonomo.[9]
Questa restrizione del campo di ingadine non deve essere (necessariamente) ricondotta ai principî rigidi dell’estetica hegeliana, a una «partizione disciplinare di filosofia e letteratura che discende dalla distinzione categoriale di verità e finzione»,[10] bensì all’urgenza di distinguere le diverse modalità di ricerca della verità proprie della filosofia e della letteratura, di studiarne gli «effetti»,[11] come già scriveva Friedrich Nietzsche in Götzen-Dämmerung (1889), e delimitarne i rispettivi campi di indagine. Non condivido la certezza di Sergio Givone nel ritenere che la «filosofia sia anche un genere letterario», ma certamente ha ragione quando subito dopo afferma che essa «incid[e] sulla sostanza stessa del pensiero»;[12] si tratta, tuttavia, di un impatto sulla parola di tipo logico-argomentativo – e programmaticamente estetico – che separa il sistema-forma della filosofia da quello della letteratura. Relativamente al dialogo, ma il discorso può essere esteso al sistema dei generi letterari nella loro totalità e complessità, annullare la distanza tra verità e finzione, come ha fatto la linea aperta dal decostruzionismo – da Jacques Derrida[13] ad Harold Bloom,[14] da Paul de Man[15] a Jonathan Culler[16] –, «decostru[endo] le impalcature ontologiche che la filosofia ha edificato nella sua storia della ragione centrata sul soggetto»,[17] rischierebbe di depotenziare la centralità ermeneutica che l’essere ricopre nella storia delle forme dell’arte, «l’unico dominio umano dove la più esclusiva limitazione permette una perfezione ontologica, un massimo d’essere relativo al mondo dell’uomo».[18]
A livello metodologico, questo libro si inserisce nel solco della riflessione estetica sul rapporto tra essere e forma aperto dalla fenomenologia e dall’esistenzialismo nella prima metà del Novecento – e ripreso poi nel secondo dopoguerra dagli studi di ermeneutica (francese e tedesca) –, e ha in Henri Focillon e Jeanne Hersch i principali referenti teorici, o meglio, trova nella loro opera la propria Weltanschauung;[19] questo Versuch, dunque, non è un libro di teoria, bensì un’indagine comparata che aspira a studiare la metamorfosi novecentesca di un genere letterario (il dialogo) attraverso gli strumenti della filosofia.[20] Mentre quest’ultima aveva provato a risolvere sul piano epistemologico la disgregazione dell’essere (la fine della metafisica occidentale, per Friedrich Nietzsche, dell’intera filosofia, secondo Martin Heidegger),[21] la letteratura, esattamente quando «non [aveva] molto senso dire alcunché senza aver risolto la crisi della conoscenza»,[22] aveva cercato di affrontaare tale questione sul piano estetico, ricercando, o recuperando, l’essere attraverso il dialogo, attraverso quel medium che aveva dato forma alla filosofia di Platone. Come si legge in Vie des formes (1934), «la forma [artistica] esercita una sorta di animazione di sensi diversi o piuttosto si presenta come una specie di stampo, dove l’uomo versa di volta in volta materie molto dissimili che si sottomettono alla curva che le preme, acquistando così un significato inatteso».[23] Rispetto alla poesia e al romanzo,[24] il dialogo, in virtù della sua tensione a definire il linguaggio e il pensiero attraverso la relazione e l’argomentazione, l’intersoggettività e la dialettica, è un fenomeno ontologicamente ermeneutico, fondato intorno alla ricerca di quel significato che anima la conversazione tra due o più enti testuali, che tenta di garantire il processo di riabilitazione ontologica in quanto metafisica dell’ordinario.[25] Inoltre, come scrive Hersch ne L’être et la forme (1946), nell’arte «la forma è, in sé. […] Essa rappresenta un fine, un termine – e questo termine è l’esistenza stessa dell’opera in quanto opera d’arte. L’arte comporta un’ontologia propria, delle condizioni di realtà specifiche»,[26] che la forma iconizza attraverso le nozioni di essere e verità: «qui», prosegue Hersch, «la parola conserva un residuo di senso analogico: l’essere è “vero” perché non è distante da sé, è perfettamente identico a sé»; «[esso] designa un atteggiamento del soggetto, un atteggiamento orientato verso una totale pienezza d’essere, in cui tutte le nozioni, distinte sul piano rappresentativo, finiscono per annullarsi in una freccia unica tesa verso un’esperienza sovrumana».[27]
Diversamente da Hersch,[28] nei capitoli di questo libro non cercheremo di individuare il «carattere trascendente» che la «forma attribuisce all’essere». Il dominio dell’arte che ci interessa sviluppare riguarda precisamente la «realtà [immanente] resa accessibile all’uomo»[29] dal rapporto tra essere e forma – o tra retorica e ontologia, secondo la brillante lettura di Andreas Kablitz[30] –, e che trova nel dialogo letterario un mezzo attraverso il quale verificare le condizioni di possibilità di un’autentica esperienza ermeneutica del linguaggio e del pensiero.
Negli studi contemporanei il genere letterario del dialogo ha subito una damnatio memoriae o è stato relegato a una forma isolata (per non dire minore) del corpus dei rispettivi autori. Licenziando queste pagine non si vuole certo riabilitare un genere che effettivamente ha perso, in particolare dagli anni Sessanta, la propria funzione conoscitiva e la possibilità di ritrovare la verità attraverso l’arte della parola. Come si cercherà di mostrare attraverso un attento esame dei testi e un confronto costante con la storia della critica e gli studi di teoria della letteratura, il dialogo riveste ancora un ruolo centrale nell’estetica delle forme e nella produzione letteraria del Novecento. Ricostruendone la storia attraverso casi e forme significativi, osservandone l’evoluzione da una prospettiva filosofica e diacronica, si verificherà come, in realtà, il dialogo letterario rappresenti un’imprescindibile forma di lunga durata che attraversa senza soluzione di continuità il secolo ventesimo, il cui moto dialettico tra essere e forma ci offre uno sguardo privilegiato per osservare lo sviluppo (o il recupero) del pensiero metafisico, la metamorfosi delle forme simboliche dell’arte e le modalità di interazione tra dialogismo e dialettica sul piano estetico.
[1] Paul De Man, Dialogue and Dialogism, in «Poetics Today», IV, 1, Spring 1983, pp. 99-107, ora in The Resistance to Theory, Foreword by Wlad Godzich, Minneapolis and London, University of Minnesota Press, 1986, pp. 106-114, p. 109.
[2] Ibid., p. 110.
[3] Cfr. almeno i seguenti lavori: Irina Rajewsky, Intermedialität, Tübingen, Francke, 2002; Changing Borders. Contemporary Positions in Intermediality, edited by Jens Arvidson, Mikael Askander, Jørgen Bruhn, and Heidrun Führer, Lund,
Intermedia Studies Press, 2007; Pietro Montani, L’immaginazione intermediale. Perlustrare, rifigurare, testimoniare il mondo visibile, Roma-Bari, Laterza, 2010; Intermediality and Storytelling, edited by Marina Grishakova and Marie-Laure Ryan, Berlin, De Gryter, 2010; Marcel Cornis-Pope, New Literary Hybrids in the Age of Multimedia Expression. Crossing Borders, Crossing Genres, Amsterdam, John Benjamins
Publishing Company, 2014.
[4] Imaginary Dialogues in English. Exploration of a Literary Form, edited by Till Kinzel and Jarmila Mildorf, Heidelberg, Winter Verlag, 2011; Imaginary Dialogues in American Literature and Philosophy. Beyond the Mainstream, edited by Till Kinzel and Jarmila Mildorf, Heidelberg, Winter Verlag, 2014; Dialogue across Media, edited by Jarmila Mildorf and Bronwen Thomas, Amsterdam, John Benjamins Publishing Company, 2017.
[5] Rudolf Hirzel, Der Dialog. Ein literarhistorischer Versuch, Leipzig, Verlag von S. Hirzel, 1895, 2 vols, ristampato nel 1963 in edizione anastatica per i tipi tedeschi di Olms.
[6] Enzo Paci, Orientamento estetico relazionistico, in Dall’esistenzialismo al relazionismo, Firenze-Messina, D’Anna, 1957, pp. 281-298, p. 289.
[7] Si veda, a riguardo, il recente intervento di Franco Moretti, Lukács’s «The Theory of the Novel», in «New Left Review», XCI, 1, January-February 2015, pp. 39-42.
[8] Cfr. Augusto Ponzio, Tra semiotica e letteratura. Introduzione a Michail Bachtin, Milano, Bompiani, 2003; Stefania Sini, Michail Bachtin. Una critica del pensiero dialogico, Roma, Carocci, 2011; Susan Petrilli, Altrove e altrimenti. Filosofia del linguaggio, critica letteraria e teoria della traduzione in, con e a partire da Bachtin, Milano-Udine, Mimesis, 2012; Daniela Manno, L’autorialità dialogica. Formazione e insegnamento in Bachtin, Lecce, Pensa Multimedia, 2016; Bachtin alla prova del tempo grande, Atti del XIV ‘Bakhtin Conference’ (Bertinoro, 4-8 luglio 2011), in «L’immagine riflessa», a cura di Massimo Bonafin e Giovanni Bottiroli, n.s., XXV, 1-2, gennaio-dicembre 2016.
[9] Nel corso del libro affronteremo anche forme ibride, come il rapporto tra dialogo e teatro in Edward Gordon Craig e Bertolt Brecht, oppure tra dialogo e scrittura saggistica in Maurice Blanchot. Tuttavia, in questi casi (e anche in altri, come avremo modo di osservare, in particolare nell’area francese), ci troviamo di fronte a un uso consapevole del dialogo come genere letterario e non a una forma simbolica utilizzata in chiave strumentale all’interno di un altro dominio epistemologico, come possono essere il teatro e il saggio di critica letteraria.
[10] Carlo Gentili, La filosofia come genere letterario, in La filosofia come genere letterario, prefazione di Sergio Givone, con scritti di Giulia Antinucci, Pierpaolo Ascari, Ivano Gorzanelli e Andrea Spreafico, Bologna, Pendragon, 2003, pp. 13-29, p. 18.
[11] Friedrich Nietzsche, Götzen-Dämmerung oder Wie man mit dem Hammer
philosophiert [1889], in Werke. Kritische Gesamtausgabe, herausgegeben von Giorgio Colli und Mazzino Montinari, Bd. 6, Berlin, De Gruyter, 1969, pp. 55-162, p. 75.
[12] Sergio Givone, Prefazione, in Carlo Gentili, La filosofia come genere letterario, cit., pp. 9-11, p. 9. Il corsivo è nostro.
[13] Jacques Derrida, L’écriture et la différance, Paris, Seuil, 1967; Jacques
Derrida, De la grammatologie, Paris, Minuit, 1967.
[14] Harold Bloom, The Anxiety of Influence. A Theory of Poetry, New York,
Oxford University Press, 1973; Harold Bloom, A Map of Misreading, New York, Oxford University Press, 1975.
[15] Paul de Man, Blindness and Insight. Essays in the Rhetoric of Contemporary Criticism, New York, Oxford University Press, 1971; Paul de Man, Allegories of Reading. Figural Language in Rousseau, Nietzsche, Rilke, and Proust, New Haven, Yale University Press, 1979; Paul de Man, The Rhetoric of Romanticism, New York, Columbia University Press, 1984.
[16] Jonathan Culler, Structuralist Poetics. Structuralism, Linguistics and the Study of Literature, London, Routledge & Kegan, 1975; Jonathan Culler, On Deconstruction. Theory and Criticism after Structuralism, Ithaca, Cornell University Press, 1982; Jonathan Culler, Theory of the Lyric, Cambridge, Harvard University Press, 2015.
[17] Carlo Gentili, La filosofia come genere letterario, cit., p. 23.
[18] Jeanne Hersch, Conclusion, in L’être et la forme, Neuchâtel, Édition de la Bacconière, 1946, pp. 241-243, pp. 242-243.
[19] Sui problemi relativi ai rapporti tra teoria della letteratura (la Theory della scuola americana) e filosofia, si rimanda all’articolo di Barbara Carnevali, Contro la ‘Theory’. Una provocazione, uscito il 19 settembre 2016 sul portale «Le parole e le cose»: «La “filosofia”, come la intendo, non è una disciplina accademica, non richiede diplomi e nemmeno una formazione specifica, ma è un modo di pensare non scolastico e anticonvenzionale. La letteratura e l’arte ne sono parte integrante» (https://www.leparoleelecose.it/?p=24320).
[20] Come nota Paul Ernst in Bemerkungen über mich selbst, per recuperare la centralità dei valori dell’esistenza era necessario coniungare le «forme» dell’arte» e la molteplicità delle «Weltanschauungen» (Paul Ernst, Bemerkungen über mich selbst [1904], in Gesammelte Werke, Bd. 1, Der Weg zur Form, Abt. 2, Theoretische Schriften, München, Müller, 1928, pp. 11-29, p. 20).
[21] «Il pensiero scende nella povertà della sua essenza provvisoria. Il pensiero afferra il linguaggio nelle cose semplici. Il linguaggio è così il linguaggio dell’essere, come le nuvole sono le nuvole del cielo. Con il suo dire, il pensiero traccia solchi poco appariscenti nel linguaggio. Questi sono ancora più inconsistenti dei solchi che il contadino traccia lentamente nel campo» (Martin Heidegger, Brief über den «Humanismus» [1946], in Gesamtausgabe, Bd. 9, Wegmarken (1919-1961), herausgegeben von Friedrich-Wilhelm von Herrmann, Frankfurt am Main, Vittorio Klostermann, 1976, pp. 313-364, p. 364).
[22] Thomas Harrison, An Ontology of Opposition, in 1910. The Emancipation of Dissonance, Berkeley, University of California Press, 1996, pp. 66-77, p. 67.
[23] Henri Focillon, Le monde des formes, in Vie des formes [1934], suive de Éloge de la main, Paris, Press Universitaires de France, 2013, pp. 3-26, p. 8.
[24] «Le forme, nei loro diversi stati, non sono certo sospese in una zona astratta, al di sopra della terra, al di sopra dell’uomo. Esse si mescolano alla vita, dalla quale provengono, traducendo nello spazio certi movimenti dello spirito» (ibid., p. 23).
[25] «Nel momento in cui Aristotele definisce la poesia come più universale della storia, giacché quest’ultima descrive il particolare e il contingente, mentre la prima coglie l’universale e il necessario, implica esattamente questa medietà, e la teoria dell’arte come imitazione non fa che rafforzare l’impostazione descrittivistica di un’ontologia dell’arte» (Maurizio Ferraris, Ontologia dell’arte come metafisica dell’ordinario, in «Itinera. Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura», II, 4, 2004, in rete: http://www.filosofia.unimi.it/itinera/mat/saggi/ferrarism_ontologia.pdf, pp. 1-5, p. 4).
[26] Jeanne Hersch, La condition humaine, in L’être et la forme, cit., pp. 21-84, p. 68. Il corsivo è nostro. Cfr. anche quanto Hersch afferma in una serie di interviste pubblicate nel 1986: «l’arte è la sola realtà nella quale si realizza, in una cosa davanti a noi, l’uno. L’Essere uno realizzato in un’opera d’arte mi ha sempre affascinato» (Jeanne Hersch, Une philosophie de la condition humaine. Les premières œuvres, in Eclairer l’obscur. Entretiens avec Gabrielle et Alfred Dufour, Paris, L’âge d’homme, 1986, pp. 33-59, p. 57).
[27] Jeanne Hersch, La forme pour l’homme, in L’être et la forme, cit., pp. 85-132, p. 103.
[28] Sul pensiero di Hersch, cfr. Roberta Guccinelli, La forma del fare. Estetica e ontologia in Jeanne Hersch, Milano, Bruno Mondadori, 2007.
[29] Jeanne Hersch, L’être et la forme, cit., p. 242.
[30] Andreas Kablitz, Zwischen Rhetorik und Ontologie. Struktur und Geschichte der Allegorie im Spiegel der jüngeren Literaturwissenschaft, Heidelberg, Winter Verlag, 2016.
[Immagine: Giulio Paolini e Giorgio De Chirico]
“ 7 giugno 1988 – Che cosa non è la letteratura: non è la « conversazione » né la « sincerità » né il « dialogo ». Ti parlo ma non parlo a te. (La letteratura è sempre intransitiva?) Inoltre non guardarmi perché non c’è niente da vedere. (E se ti guardo non credere che ti veda) “.
“ Mercoledì 28 aprile 2004 – Ripenso al dialogo. Ma davvero somiglia a un contratto? Non più di quanto un coltello somigli a un mestolo. Mah. Boh. E, mentre penso così, gli occhi mi cadono su un librettino di colore giallo: Giacomo Noventa, Hyde Park (L’unificazione socialista o L’innocenza della cultura), Milano, All’Insegna del Pesce d’oro, 1972. Apro e leggo: « Le conversazioni possono essere divine, demoniache, tragiche e comiche. Questi mi sembrano i tipi principali, da cui tutti gli altri tipi o sottotipi derivano. La conversazione divina è quella che avviene fra gente che si conosce, si stima e si ama, e vuole conoscersi, stimarsi e amarsi di più. La conversazione demoniaca è quella che avviene fra gente che si conosce, si disprezza e si odia, e vuole conoscersi, disprezzarsi e odiarsi di più. La conversazione tragica è quella che risulta dall’intersecarsi della conversazione divina con la conversazione demoniaca: quando cioè due individui, o due gruppi di individui, conversano e da parte di uno, o di un gruppo, si usa il primo tipo, e da parte dell’altro, o dell’altro gruppo, il secondo. La conversazione comica risulta anch’essa dall’intersecarsi della conversazione divina con quella demoniaca: ma da un intersecarsi nell’intimo di ognuno dei due individui o dei due gruppi che conversano: e cioè quella che avviene tra gente che non si conosce abbastanza, non sa fino a che punto si disprezza e si odia, e vuole conoscersi di più, senza sapere se questo conoscersi di più significherà stimarsi e amarsi di più, o tutto il contrario. » [*] [*] Penso che andrebbe aggiunto un quarto tipo di conversazione: quello nel quale uno dei due che conversano sa benissimo di parlare una lingua che l’altro non capisce, ma non per questo cessa di parlarla, perché quello che vuole non è essere capito ma fare male. Chiamerò questo quarto tipo la « conversazione sadica ». “.