di Lorenzo Marchese
[Questo articolo è tratto dall’ultimo numero di «Ticontre. Teoria Testo Traduzione» (IX, 2018), e fa parte della sezione monografica I confini del saggio. Per un bilancio sui destini della forma saggistica, a cura di Federico Bertoni, Simona Carretta, Nicolò Rubbi. Tutti gli articoli si possono scaricare gratuitamente qui.]
- Premessa
Il titolo di questo intervento vuole essere, più che una provocazione sulla scia di Montale e della sua Nobel lecture del 1975 È ancora possibile la poesia?, una domanda con una risposta scontata e due implicazioni meno usurate su cui riflettere. A un primo livello, non si può negare che il romanzo-saggio sia ancora possibile. È ancora un tipo di narrazione messo in pratica, come mostrano due esempi italiani di particolare rilevanza degli ultimi anni: La vita in tempo di pace di Francesco Pecoraro e La scuola cattolica di Edoardo Albinati[1]. La coesistenza delle macro-forme polivalenti di romanzo e saggio, o più genericamente di narrazione e riflessione, attraversa la storia letteraria degli ultimi due secoli. Se pure lo si vuole interpretare, sotto una lente storicistica, come la «cristallizzazione morfologica e simbolica del progetto fallito di una modernità che cercava disperatamente di rinnovare la propria utopia emancipatrice nel preciso momento del crollo»[2] e si legge in questa chiave la proliferazione di romanzi-saggio della prima metà del Novecento (dalla Recherche, 1913-1927, di Marcel Proust, all’Uomo senza qualità, 1930-1942, di Robert Musil, passando fra gli altri per i romanzi di Thomas Mann e Huguenau o il realismo di Hermann Broch)[3], non di meno appare chiaro che si tratta di un’opzione praticata e rilevante sul piano simbolico, tanto da essere ancora vitale. Tuttavia, quale tipo di vita sta vivendo il romanzo-saggio? Questa forma letteraria ha subìto un’esplicita mutazione, che s’intende illustrare con alcune considerazioni iniziali e una lettura cursoria di alcuni romanzi-saggio contemporanei (per finire con una focalizzazione su VTP e SC). Il tentativo serve, più che a fornire risposte certe, a porre due domande più circostanziate circa la resilienza del romanzo-saggio nella contemporaneità: in che modo la separazione crescente, nel corso dell’ultimo secolo, fra pratica romanzesca e dibattito filosofico ha influito sulla fisionomia del romanzo-saggio? Cosa divide, al di là della comune compresenza di narrazione e riflessione saggistica, i romanzi-saggio fra Otto e Novecento da quelli contemporanei?
- SAGGIO NARRATIVO E ROMANZO-SAGGIO
Il saggio ha un’identità ancora più sfuggente del romanzo moderno, che si contraddistingue per la propria «anarchia mimetica»[4]. Quella del saggio è una forma di discorso divagante a inflessione autobiografica, che si fonda sull’implicita prescrizione di non inventare un mondo di finzione per veicolare le riflessioni sul mondo. Il saggista sceglie di appoggiarsi alle cose esistenti senza camuffarle, come ricorda opportunamente Berardinelli:
Il presupposto del saggio è che il lettore sta leggendo cose vere, magari paradossali e provocatorie, ma tanto più tali quanto più andrebbero prese alla lettera e da intendere in una dimensione di realtà. Il presupposto del romanzo è invece che, per quanto prelevate verosimilmente dal vero, le cose che si leggono sono da intendersi su un piano di finzione. Si tratta di convenzioni di genere, di un diverso patto fra autore e lettore. Se in un romanzo dico che ieri sono andato al cinema, nessuno è tenuto a crederlo. Se lo dico in un saggio, si deve credere anche se non è vero[5].
Ciò è chiaro sin dall’archetipo di questo genere, i Saggi (1580-1588) di Montaigne. Nell’avvertenza Al lettore, Montaigne sottolinea la distanza della propria opera non solo rispetto alla narrativa d’invenzione, ma anche a scritti di taglio autobiografico e memoriale: «Questo, lettore, è un libro sincero […] Voglio che mi si veda qui nel mio modo d’essere semplice, naturale e consueto, senza affettazione né artificio: perché è me stesso che dipingo»[6]. Facendo del proprio autore uno degli oggetti principali del discorso («Così, lettore, sono io stesso la materia del mio libro»)[7] e della mancanza di struttura una rivendicazione in contrasto con forme più definite come il trattato o il dialogo filosofico, il saggio sin dalla sua nascita si presenta duttile («esperienza della forma che cerca una forma»[8]) e facilmente adattabile entro strutture narrative. Consolidatosi nel Settecento quale strumento di riflessione e d’informazione, con la nascita di un’informazione non legata direttamente alle corti e all’aristocrazia[9], il saggio incarna un discorso del singolo che sia in grado di riflettere in maniera a-sistematica su qualunque tema, senza appellarsi all’autorità dei generi letterari codificati.
Oltrepassando i dati di contesto, Lukács e Adorno nella prima metà del Novecento hanno contribuito a definirne i compiti, i linguaggi, le traiettorie. Il saggio basa la propria ragione d’essere sul «dare nuovo ordine alle cose già esistite»[10], si fonda sulla separazione e sulla singolarità dell’io che scrive, il quale diviene riferimento di ogni valutazione, finendo per rifiutare, secondo il noto giudizio di Adorno, ogni punto di vista che non sia strettamente personale[11]. È proprio Adorno a far discendere da questa libertà individuale concessa all’autore alcune caratteristiche ancora attuali della forma del saggio, legate alla già menzionata fedeltà a un discorso veridico: disinvoltura metodologica[12], capacità autocritica (vale a dire, il saggio può mettere costantemente in discussione il suo stesso andamento e il rapporto che il saggista istituisce con il suo argomento)[13], colloquialità, frammentarietà. Sono tratti che resistono ancora nel saggio contemporaneo, benché riadattate al mutamento del contesto[14].
La somma di saggio e narrativa in una singola opera può dunque produrre nel panorama contemporaneo esiti disparati, fra i quali se ne indicano solo i due più rilevanti: il saggio narrativo e, appunto, il romanzo-saggio. Nel primo caso, si ha una narrazione veridica in prima persona in cui riflessione e racconto si avvicendano continuamente e si confermano a vicenda: l’intento è rendere meno astratto un discorso puramente riflessivo (intervallato da sporadici aneddoti), cercando di trasformare la riflessione filosofica in un discorso coinvolgente fondato su dinamiche di storytelling. Il racconto dei fatti fornisce al saggio una traccia da seguire, gli conferisce un’ipotesi di unità che non ne preclude la natura di testo dalla trama frammentaria e dalla struttura aperta. Lo illustrano testi strettamente imparentati fra loro negli ultimi vent’anni di prosa italiana, come i saggi narrativi di critica letteraria di Emanuele Trevi (da I cani del nulla, 2003, a Qualcosa di scritto, 2012) e di Tommaso Pincio (Hotel a zero stelle, 2011), gli esercizi straniati di esegesi autobiografica delle prose di Valerio Magrelli (almeno Nel condominio di carne, 2003, e Geologia di un padre, 2013); gli anti-romanzi di Antonio Franchini (L’abusivo, 2001, e Signore delle lacrime, 2010), o anche testi che mescolano saggistica e reportage (uno su tutti, Gomorra, 2006, di Roberto Saviano); fuori d’Italia, su tutti, Il regno (2014) di Emmanuel Carrère, i testi a metà fra reportage e saggio di David Foster Wallace (come Una cosa divertente che non farò mai più, 1997, e Considera l’aragosta, 2005)[15]. Se il romanzo-saggio è una narrazione d’invenzione resa “espansa” dalla meditazione e sparpagliata nei suoi spunti speculativi, il saggio narrativo limita le divagazioni perché le pone al servizio del resoconto veridico di alcuni fatti, scongiurando l’eccentricità del romanzo-saggio e negandone la natura finzionale. Il saggista narrativo è inoltre l’attore principale della vicenda e si mostra una personalità dalla coscienza labile ma non disgregata, di modo che lo studio critico incrocia obliquamente l’autobiografia, senza distendersi in essa. Lo spazio maggiore è occupato dalla riflessione e la componente in senso proprio narrativa rimane minoritaria.
Nel romanzo-saggio, dall’altra parte, si ha una narrazione finzionale soggetta a un’inserzione di discorso astratto che rallenta (o paralizza) il tempo dell’azione, mina la coesione interna e permette aggiunte e libertà che il saggio narrativo, teoricamente costretto da un’aderenza empirica di massima a fatti realmente avvenuti, non può concedersi. Il saggio narrativo si pone così su un altro piano rispetto al romanzo-saggio: sebbene i due elementi dell’operazione siano gli stessi, l’ordine dei fattori è mutato. L’ipotesi preliminare che qui si vuole percorrere è che entrambe le forme, benché speculari sotto vari aspetti, cerchino di reagire a un ripensamento più generale del rapporto fra narrazione e saggio, evidente per esempio nella crescente distanza fra gli ambiti della narrativa e della filosofia. Il saggio narrativo si serve di stratagemmi e dispositivi della fiction per dare forza a un discorso teorico che viene percepito come inerte e distante da un pubblico di massa: lo storytelling e il coinvolgimento mimetico (dato per esempio dalla massiccia inserzione della cronaca e dalla continua sovrapposizione autobiografica) servono a controbilanciare la percepita astrattezza del saggio. Sul romanzo-saggio, invece, vale la pena fare un’osservazione diversa, che può aiutare a capire in che modo esso sia ancora possibile.
- IL MÉNAGE INTERROTTO
Ciò che colpisce quando si esamina la forma del romanzo-saggio è in primo luogo proprio il rapporto strettissimo fra i romanzieri-saggisti e la filosofia coeva nella prima metà del Novecento: l’influenza del Mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer e delle opere di Nietzsche su Thomas Mann è ingente e rivendicata[16]; Proust dovette difendersi dalle considerazioni dei critici circa il peso (tutto sommato notevole) esercitato dalla filosofia di Bergson sulla concezione del tempo e dell’interiorità nella Recherche[17]; pochissimi testi della storia letteraria incorporano riflessione filosofica al pari dell’Uomo senza qualità di Musil[18]. Non cito che en passant le vere e proprie invasioni di campo, come la prima produzione romanzesca di Jean-Paul Sartre (soprattutto la Nausea, 1938). A volte, l’incursione dei romanzieri nel territorio della filosofia divenne una vera e propria collaborazione, come nel caso della stesura del Doktor Faustus di Mann, quando l’autore sottopose il romanzo in corso di scrittura ad Adorno chiedendogli lettura e pareri, senza contare, come è stato notato da Ercolino, che saggi di Adorno come Dialettica dell’illuminismo (scritto in coppia con Horkheimer) e Filosofia della musica moderna ritornano sottotraccia nel saggismo del Doktor Faustus[19]. Ma se ci spostiamo alla narrativa contemporanea, i conti non tornano più: il rapporto fra narrativa e filosofia sembra essersi infranto, non nel senso che romanzieri e saggisti non collaborino e non si scambino occasionalmente i compiti, bensì nel senso che il romanzo-saggio non trae più come prima temi e contenuti dalla coeva produzione filosofica. Il «ménage a quattro» che Pierpaolo Antonello, traendo ispirazione da un articolo di Italo Calvino del 1967 intitolato Filosofia e letteratura, ipotizza fra scienza, tecnica, filosofia e letteratura nella letteratura italiana del Novecento[20], non si dà più se non in absentia, cioè come, a un tempo stesso, ripresa da parte degli scrittori di esperienze filosofiche appartenenti a epoche passate e rifiuto del dialogo interdisciplinare in praesentia con il dibattito filosofico corrente.
Nota Houellebecq in In presenza di Schopenhauer (in realtà steso intorno al 2005, ma pubblicato più di dieci anni dopo): «È irritante dover vivere in un’epoca di mediocri; soprattutto quando ci si sente incapaci di alzare il livello. Di sicuro non produrrò nessuna idea filosofica nuova; alla mia età, penso che ne avrei già dato qualche segno; ma sono altrettanto sicuro che produrrei romanzi migliori se, intorno a me, il pensiero fosse un po’ più ricco»[21]. Resistiamo alla tentazione di prendere solo come una boutade il passaggio, che riflette anche una mutata disposizione verso una disciplina contigua. A ben pensarci, la constatazione citata proviene da uno dei romanzieri-saggisti migliori degli ultimi vent’anni, che affronta temi capitali del pensiero contemporaneo (i limiti della libertà politica, l’evoluzione dei rapporti interpersonali, il peso crescente esercitato da scienza e tecnologia sulla civiltà, la condizione post-umana) e però continua a scrivere i suoi romanzi rifacendosi esplicitamente alla filosofia di Schopenhauer (come Mann ottant’anni prima) e di Auguste Comte (morto nel 1857). Naturalmente esistono anche casi (emblematici) diversi, se pensiamo ad esempio a un altro romanziere-saggista come David Foster Wallace. In romanzi come La scopa del sistema e soprattutto Infinite Jest, il legame fra narrazione e filosofia si dispiega molto diversamente da come avviene in Houellebecq, con una separazione meno netta fra narrazione e riflessione filosofica, con un saggismo più intermittente, breve e calato nelle voci dei diversi personaggi, invece che disincarnato o affidato a una voce unica: non di meno, la pagina di Wallace mostra immediatamente il background analitico del suo autore e paga un debito ampiamente riconosciuto, sia a livello di idee sia a livello di spunti stilistici, non solo con Ludwig Wittgenstein e Bertrand Russell, ma anche con le riflessioni post-analitiche cronologicamente più vicine di Hilary Putnam, Richard Rorty e soprattutto Jacques Derrida[22].
L’impressione complessiva, tuttavia, è che Wallace costituisca un’eccezione. Il ménage fra narrativa e filosofia, nel romanzo-saggio, sembra essersi per lo più interrotto, perché la tenuta delle idee proposte dalla filosofia contemporanea non viene più messa alla prova con la vasta e ricettiva ambizione del romanzo-saggio otto-novecentesco. Difficile (e improprio nello spazio di questo intervento) spiegarne le ragioni, ma è un dato di fatto che questioni cruciali del dibattito filosofico attuale (per citarne solo tre: il rapporto fra intelligenza umana e artificiale, le domande poste dalla bioetica, la percezione della realtà e della temporalità) trovano il loro campo di discussione narrativo non più in romanzi-saggio in cui un protagonista riflette sul «rapporto incompleto fra pensiero scientifico e pensiero filosofico» e formula «ipotesi di totalità della narrazione»[23], bensì, mi pare, nella fantascienza. Genere che si muove con più agio del romanzo-saggio fra media diversi (dal libro al cinema, passando per la televisione e i videogiochi), la fantascienza appare per definizione anti-saggistica: le digressioni filosofiche incarnate nei pensieri di un personaggio, di un narratore o nella mimesi filosofica di un dialogo non sono una scelta vitale. Il portato filosofico delle grandi narrazioni fantascientifiche di Philip K. Dick, Isaac Asimov e Stanislaw Lem, è ingente e, viceversa, le ipotesi di futuro dispiegate nella fantascienza vengono prese in seria considerazione nel dibattito filosofico come spunto su cui lavorare[24]. Ciò nonostante, per alcuni motivi anche materiali (la contaminazione della fantascienza con scritture “di genere” come il noir e la sua frequente confluenza nell’ampio insieme dell’hard-boiled, soggetto a esigenze commerciali e canoni di leggibilità da rivista che mal si conciliano con la contaminazione saggistica), mi sembra che nella fantascienza non si spieghi e si argomenti complessivamente poco. Il dialogo filosofico non è una strada maestra, alla prova dei testi: si preferisce tendere al racconto puro o a sperimentazioni che con la forma saggistica hanno un rapporto labile e non sistematico. La maggior parte dello spazio è solitamente occupata dalla concatenazione di eventi, che formano di per sé ipotesi filosofiche sul mondo, lasciate al lettore da decifrare e scomporre senza che un personaggio (o un narratore) si prenda in prima persona l’autorità di formulare “la verità” sul presente – mascherato, nel contesto fantascientifico, da futuro possibile, appena sfasato rispetto alla realtà e legato a essa da una perturbante familiarità.
La convivenza difficile di letteratura e filosofia si può, tra l’altro, notare in due testi narrativi niente affatto fantascientifici, che mostrano un’evidente implicazione della forma-saggio. Il primo è Estensione del dominio della lotta (1994) di Michel Houellebecq e porta già i segni del romanzo-saggio, sin da una dichiarazione iniziale del testo (il cui inizio effettivo è un’apertura grottesca e frammentaria su una festa aziendale, vista dal protagonista ubriaco). Il protagonista-narratore anonimo, chiaramente autobiografico, dichiara ai lettori:
Le pagine che seguono costituiscono un romanzo; cioè, chiarisco: una successione di aneddoti di cui io sono il protagonista. Questa scelta autobiografica non è effettivamente tale, e comunque non ho alternative. Se non scrivessi ciò che ho visto soffrirei ugualmente – e forse anche un po’ di più. Solo un po’, ripeto. La scrittura è tutt’altro che un sollievo. La scrittura rievoca, precisa. Introduce un sospetto di coerenza, l’idea di un realismo. Si sguazza sempre in una caligine sanguinolenta, ma un po’ si riesce a raccapezzarsi. Il caos è rinviato di qualche metro. Misero successo, in verità[25].
La successione degli eventi nella trama è dettata dalla casualità della vita e sfugge a una struttura palese: a non essere casuale è l’intervento costante del discorso saggistico, che utilizza il materiale narrativo come serbatoio di aneddoti per la riflessione e vuole suggerire una lettura totale del mondo. Ciò che ci viene presentato è un romanzo che però ha poco a che fare con la rappresentazione romanzesca delle psicologie, con la resa tridimensionale dei personaggi, con la verosimiglianza e l’esigenza di un ritmo:
Il mio scopo non è di incantarvi con sottili notazioni psicologiche. Non ho l’ambizione di strapparvi applausi per la mia finezza e il mio spirito. Questo genere di cose le lascio agli scrittori che usano il proprio talento per descrivere i diversi stati d’animo, i tratti del carattere ecc. Io con loro non c’entro niente […] Per raggiungere lo scopo decisamente filosofico che mi propongo, invece, occorre sfrondare. Semplificare. Sterminare uno alla volta dettagli infiniti. Ad aiutarmi ci sarà il semplice gioco del movimento storico[26].
Anzi, la narrazione in prima persona tende a tal punto a «sfrondare» e «semplificare» che a venir meno è la coesione interna (e in parte la verosimiglianza): le riflessioni saggistiche confluiscono in forme eterogenee, come i dialoghi teorici con l’amico prete Jean-Pierre Buvet e con il collega Tisserand, e i frammenti di micro-saggi immaginari[27]. Allo sparpagliamento della forma-saggio, che si riversa in discorsi astratti e tutto sommato anti-narrativi, segue un’evoluzione coerente del protagonista-saggista. Già nel romanzo-saggio primonovecentesco il personaggio pende più dalla parte di una figura tendente all’astrazione, di una pura mente che osserva e valuta il mondo: questo processo in Estensione del dominio della lotta (e in misura ridotta nei romanzi successivi di Houellebecq) viene portato avanti con coerenza fino al «fallimento di una visione antropomorfica del personaggio» in cui l’interiorità è azzerata a favore del dominio di un discorso scientifico sovraindividuale e la psicologia del personaggio si manifesta solo come irritazione di superficie[28]. Il protagonista non è separato dai suoi simili in virtù della sua profondità di pensiero o della sua capacità di decifrare il mondo. La sua individualità viene al contrario messa in dubbio («Alla fine osservo che io sono diverso da loro, senza tuttavia poter precisare la natura di tale diversità»)[29]. Insieme, viene contestato il senso della sua attitudine al pensiero critico, da considerarsi più un ripiegamento passivo slegato dall’azione che una vocazione consapevolmente abbracciata («Ma già da un po’ di tempo il senso delle mie azioni ha smesso di mostrarmisi con chiarezza; diciamo che non mi si mostra più molto spesso. Per il resto del tempo, sono più o meno in posizione di osservatore»)[30]. Concepito come un singolare romanzo a tesi sul presente, scritto in presenza del Mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer[31] tanto da presentare in alcuni incipit dei capitoli, oltre alle ascendenze dirette, citazioni di testi sacri del Buddhismo già tenuti in grande considerazione dal filosofo tedesco quali il Dhammapada e il Sattipathana-Sutta[32], il romanzo testimonia, nonostante le apparenze, una singolare diffidenza nei confronti del pensiero filosofico razionale come codice per decifrare la realtà. La sfera analitica del discorso è tenuta a diffidente distanza, anche perché sospettata di connivenza con l’«inutile ingorgo» delle informazioni supplementari e della pubblicità[33]. Il continuo rimuginare del saggista non porta a niente, è un giro a vuoto che può essere risolto soltanto dalla scissione finale, inspiegata e imprevista, in cui il protagonista comprende in un lampo idiota e sublime che «lo scopo della vita è mancato»[34] e fra soggetto e oggetto sussiste una separazione assoluta della quale è inutile dolersi.
La diffidenza verso la filosofia come strumento costruttivo si acuisce in un testo di qualche anno dopo a metà fra riflessione e racconto: La vita degli animali (1999) di J. M. Coetzee. La sua natura non romanzesca deriva dalla sua genesi particolare: è una silloge di due lectures accademiche (I filosofi e gli animali; I poeti e gli animali) tenute nell’anno accademico 1997/1998 su invito dell’Università di Princeton. I discorsi prendono la forma di due conferenze condotte dalla scrittrice immaginaria Elizabeth Costello, alter ego femminile dell’autore. Coetzee crea una cornice in forma di racconto alle argomentazioni di Elizabeth, che vertono sulla necessità di abbandonare l’industria alimentare della carne in favore di una ridiscussione integrale del rapporto uomo-animale. L’espediente metanarrativo ha un duplice scopo: serve da un lato a produrre nel lettore un’empatia che la fiction ottiene con più facilità della riflessione astratta[35]; dall’altro, contribuisce a scaricare la responsabilità delle proprie affermazioni (anche quelle più discutibili) su un personaggio di finzione[36] e a permettere al lettore una distanza critica da esso. Per questo motivo, non abbiamo accesso all’interiorità di Elizabeth, ma la conosciamo obliquamente attraverso la prospettiva del figlio John. Possiamo essere certi solo della diffidenza della protagonista verso la filosofia, una disciplina che ha portato gli uomini a considerare gli animali macchine da sottomettere e sfruttare per garantirsi la sopravvivenza. Se la filosofia è questo, suggerisce Elizabeth nella prima conferenza, la sua importanza è sopravvalutata:
La ragione e sette decenni di vita mi dicono che la ragione non è l’essenza dell’universo né l’essenza di Dio. Al contrario, mi pare che la ragione assomigli in modo sospetto all’essenza del pensiero umano; peggio ancora, all’essenza di una tendenza del pensiero umano. E se è così, se questo è ciò che credo, perché mai dovrei inchinarmi alla ragione, oggi pomeriggio, e accontentarmi di ricamare sul pensiero dei grandi filosofi del passato?[37]
La posizione animalista di Elizabeth è in primo luogo un rifiuto perentorio del razionalismo cartesiano e della sua concezione meccanicistica degli esseri viventi sprovvisti di pensiero razionale. L’esistenza concreta è preferita al pensiero astratto, alla maniera in cui, più in grande, la fiction è una cornice del pensiero più adeguata del saggio puro:
Cogito ergo sum, ha anche detto Cartesio, e le sue parole sono diventate famose. È una formula che mi ha sempre procurato disagio. Implica che se un essere vivente non si dedica a ciò che chiamiamo pensiero è in qualche modo un essere di seconda categoria. Al pensiero, alla cogitazione, io oppongo la pienezza, l’essere racchiusi in un corpo, la sensazione di essere […][38]
L’attitudine di Elizabeth, pur in un testo che non è a rigore un romanzo, ha una chiara parentela col romanzo-saggio: ne condivide la diffidenza nei confronti della «razionalità differenziante» cartesiana[39], nonché il rigetto di un metodo scientifico[40]. Lo sforzo di avvicinamento della mimesi, con l’annessa condivisione empatica che questa produce, non è solo un piacere della finzione ma una modalità di pensiero più efficace del ragionamento («Se riesco a immaginarmi l’esistenza di un essere che non è mai esistito, allora posso immaginarmi l’esistenza di un pipistrello, di uno scimpanzé o di un’ostrica, di qualsiasi essere con il quale condivido il sostrato della vita»)[41]. Se diamo per avvenuto questo divario crescente fra narrativa e filosofia, bisogna ora provare a individuarne alcune ripercussioni tematiche e di struttura in due romanzi-saggio italiani recenti, per capire quanto grande sia la distanza con i romanzi-saggio del secolo precedente.
- Disgregazione del personaggio e declino dell’utopia
La vita in tempo di pace di Pecoraro e La scuola cattolica di Albinati sussumono la possibilità del romanzo-saggio nella letteratura contemporanea: da un lato, sono opere che si propongono di offrire, attraverso i loro protagonisti, una sintesi conoscitiva del mondo più che una rappresentazione di fatti contaminati; dall’altro lato, evidenziano i limiti della proposta e le rinunce che il romanziere-saggista compie per mantenere vitale questa forma letteraria.
La vita in tempo di pace è il terzo libro di Pecoraro, dopo le brevi prose riflessive Questa e altre preistorie e i racconti di Dove credi di andare. Il passaggio al romanzo segna una compromissione saggistica impossibile da sottovalutare, con il suo protagonista Ivo Brandani, alter ego settantenne dell’autore, che è un «ingegnere e filosofo mancato, personaggio ossessivo e remissivo, gaddianamente attratto/respinto dal caos, dalla visceralità, dal contagio di tutto ciò che consuma e vanifica ogni tentativo di dare senso e ordine al mondo»[42]. Di ritorno da un viaggio di lavoro sul delta del Nilo, Brandani inala un’ameba che, nel giro di dieci ore, lo porterà alla morte senza che lui lo sappia, mentre noi lettori ne veniamo immediatamente a conoscenza (VTP, p. 17). Nel corso del viaggio aereo verso l’Italia, a capitoli costituiti di lunghi e ossessivi monologhi mentali (titolati con una semplice indicazione d’ora) s’intervallano spezzoni di racconto della vita di Brandani svolti in terza persona, che riducono la speculazione nevrotica per procedere a ritroso lungo i decenni dalle ultime esperienze lavorative del protagonista sessantenne all’infanzia postbellica a Roma. Uno sguardo sull’architettura del romanzo, dunque, pone in luce due aspetti non scontati sul rapporto fra narrazione e riflessione. Anzitutto, nel mondo del «Tempo di Pace» l’individuo soggiace soltanto a «una guerra silenziosa di tutti contro tutti» (VTP, p. 226). Se in tempi di conflitto palese il darwinismo che regola i rapporti umani è esplicito e permette, paradossalmente, di cogliere delle verità su di sé e sul mondo[43] impedendo l’effetto devastante dell’immobilità, nell’epoca del benessere di massa e del perseguimento del proprio piacere la competizione resiste, ma diventa surrettizia e senza sbocco. Nel Tempo di Pace, e massimamente per l’ipersensibile Brandani, pensare è una stasi usurante, l’opposto dell’azione e dell’intervento del soggetto nel mondo esterno. Di conseguenza, la riflessione astratta non può che sfociare in un nevrotico rimuginare potenzialmente senza inizio né fine. Contro la vocazione costruttrice di Brandani (sintetizzata nel capitolo Ponte e porta in cui un giovane Brandani abbandona gli studi di filosofia per iscriversi a Ingegneria, VTP, pp. 233-301)[44], nella trasposizione figurale di VTP la riflessione astratta vorrebbe avvicinarsi a un nucleo di senso che sfugge di continuo, ma in concreto non è che un inganno solipsistico in attesa di una catastrofe annunciata, destinata a compiersi non si sa quando. Il pensiero dovrebbe servire, in un mondo basato solo sui rapporti di forza, a rispondere alla prima domanda compiuta che Brandani, da bambino, si pone: «Come essere? Come agire? In che modo poteva evitare di ferire ed essere ferito, con la bilancia che […] da subito pendeva paurosamente dalla parte dell’essere ferito? Come poteva evitare di farsi male e morire?» (VTP, p. 451). A essa, però, non c’è alcuna risposta.
Anche la disposizione biografica “a ritroso” dei capitoli tende allo stesso compito, con strumenti diversi. Avvicinarsi progressivamente al tempo della nascita significa per il narratore cercare di ritrovare un’origine e una motivazione dei comportamenti. Nulla di religioso o metafisico: si tratta di una ricerca ansiogena di cause sempre più all’indietro, per finire sulla narrazione del trauma infantile che inizia Ivo all’esperienza del dolore, della paura e del disordine (la caduta nella buca lasciata da una bomba della Seconda guerra mondiale, VTP, pp. 487-90). La ricerca condotta nella narrazione, parallela all’incessante nevrosi saggistica di Brandani, è ugualmente fallimentare, come illustra il doppio finale del romanzo. Brandani muore sull’aereo dopo aver perso conoscenza, e nulla possiamo sapere circa questo passaggio di soglia che orienta e determina ogni cosa umana («Sull’esperienza umana più spaventevole e curiosa non si sa nulla», VTP, p. 505). La morte rimane ignota al pari della nascita. Nell’Epilogo, il Padre autoritario, biblico e fascista di Brandani, appena tornato dalla guerra in Africa, torna a Roma per riabbracciare la sua famiglia e, s’intuisce, concepire Brandani con la moglie. Il cambio finale di prospettiva con l’adozione dell’ottica del Padre potrebbe, teoricamente, gettare una luce dall’interno sull’enigma minaccioso di questo personaggio rendendolo più umano; o almeno, conferire attraverso il racconto dell’amore dei suoi genitori un barlume di senso retrospettivo all’esistenza compiuta di Brandani. Tuttavia, la fantasia di immedesimazione di Brandani rimane irrelata. Le due parole «Non ancora», pronunciate da non si sa chi, scandiscono l’Epilogo e certificano l’impossibilità di una conoscenza originale. L’impotenza conoscitiva della fiction, che fa il pari con l’inanità della riflessione astratta, è del resto preannunciata da un pensiero di Brandani quando, in un precedente monologo, osserva una foto in bianco e nero dei genitori di poco successiva al segmento temporale dell’Epilogo, e conclude che, al di fuori della meccanica irrazionale di corpi che nascono, si riproducono, lottano per la vita e si estinguono, forse non c’è molto altro:
La felicità da cui sono storditi nella luce invernale della Città di Dio, le ombre che si allungano su quello che sembra il brecciolino di un parco, non è altro che appagamento, nient’altro che la resa alla spinta congestionata della giovinezza, la stessa spinta animalesca, cieca, vitale, post-bellica che l’ha generato … (VTP, p. 307)
Nella Scuola cattolica Albinati si serve del romanzo-saggio portandolo a una dilatazione estrema e combinandolo con inserti di reportage e di autobiografia (anzi, nel testo non ci sono personaggi dichiaratamente inventati, a partire dall’autore che coincide col protagonista): anche lui con una chiara intenzione retrospettiva, nel segno dell’avvicinamento a un evento traumatico (il “delitto del Circeo” del 30 settembre 1975, compiuto ai danni di Donatella Colasanti e Rosaria Lopez da tre ex-studenti della scuola religiosa maschile che anche Albinati ha frequentato negli stessi anni). La crisi che Albinati vuole indagare con le sue riflessioni non è però quella massimalista dei destini di un’umanità avvolta dalla guerra come condizione atmosferica: è la più circostanziata crisi post-sessantottina del «rapporto tra gli uomini e le donne all’epoca della post-borghesia – la fase in cui la tradizione patriarcale si sfalda e nella crisi di quel sistema di valori guadagnano posizioni un ordine simbolico e un immaginario femminili»[45]. L’atto di scrivere SC non è un tentativo di modificare ciò che è successo, non serve a fornire criteri di comportamento o di costruzione di un mondo futuro. Albinati infatti racconta e pensa il passato per rievocare un mondo estinto[46] e, subito, esorcizzarlo[47]. Spesso e volentieri, le digressioni saggistiche di SC danno la sensazione di orbitare intorno a un oggetto inconoscibile (la sessualità, in specifico quella maschile, inscindibile dalla violenza) e il tono dell’autore diventa un lamento irrisolto per il bandolo perduto della matassa[48]. Dunque, pur avendo lo sguardo rivolto alle macerie del passato, il narratore non riesce a dar loro una forma comprensibile tramite la riflessione saggistica. Albinati nota che il «disperato bisogno di senso, tipico del romanzo, trionfa nelle conclusioni che noi tiriamo sul nostro passato» (SC, p. 447): ma è, appunto, un bisogno privo di speranza, destinato a non compiersi. Prendiamo i due personaggi più intelligenti del romanzo, l’“amico geniale” e compagno di classe Arbus e il professore di letteratura Cosmo, che sono inizialmente, agli occhi del protagonista, i maggiori indiziati per un’ermeneutica finalmente compiuta dell’esistenza umana. Non è un caso che in entrambi la ricerca di senso finisca per condurli obliquamente al crollo e testimoniare un fallimento della ragione: la furia razionalistica di Arbus, che lo aveva elevato rispetto alla massa dei suoi compagni durante il liceo, si rivolta contro di lui portandolo alla coltivazione privata delle sue perversioni sessuali, al carcere (per la piromania) e a una vita insoddisfacente (SC, pp. 1022-42); Cosmo (che nel nome riassume uno sforzo conoscitivo alla totalità), invece, muore per un cancro, pressoché dimenticato. I suoi quaderni, reperiti da Albinati dopo la sua morte, contengono numerose note apparentemente scollegate dal “delitto del Circeo”. Tuttavia quelle note, in un’interpretazione speranzosa e azzardata del protagonista, potrebbero rimandare a quel gesto criminale[49] conferendogli finalmente un significato univoco. Quel che è certo è che le annotazioni di Cosmo rimandano a una via di lettura possibile di SC come fallimento conoscitivo tanto più clamoroso quanto più è insistito:
164. Al contrario delle storie, le idee non hanno fine. In realtà non ce l’avrebbero neanche le storie, solo che a un certo punto del loro svolgimento si cessa di raccontarle. Dove esattamente? E perché? Perché si pensa che abbiano detto quel che avevano da dire. Ma non è davvero così […] Le idee hanno un termine quando l’ideatore è spossato. (SC, p. 1185)
In effetti, il romanzo-saggio di Albinati non ha tecnicamente inizio né fine. Inoltre ha un andamento concentrico e non lineare, al punto che potrebbe forse anche essere fruito come un ipertesto, senza una lettura ordinata[50]. Raccontare il “delitto del Circeo” come una progressione lineare e intelligibile non è in fondo possibile, e persino le sue «ramificazioni criminali e perverse» (SC, p. 1239) che toccano da vicino il protagonista non ci portano più luce sulla crisi del rapporto fra i sessi al centro di SC. In età matura, Albinati scopre da Arbus che gli autori del delitto del Circeo si sono serviti della sorella di Arbus, la quindicenne Leda, come esca sessuale per un regolamento di conti con un altro criminale, Cassio Majuri (probabilmente l’hanno anche violentata)[51]: la notizia dell’ennesima violenza, compiuta su una ragazza da cui Albinati era sempre stato misteriosamente attratto, non funge da rivelazione di alcunché e provoca solo un profondo scoramento nel protagonista. Speculare al resoconto della violenza su Leda è l’abuso subìto da Albinati bambino, durante una febbre contratta in gita, da parte di un prete, padre Marenzio[52]. In realtà, non potrebbe nemmeno definirsi abuso sessuale (ripetuto, si allude)[53]: è un’esperienza pacifica, distante e mascherata da visione di luce nel delirio della febbre, che non funziona nemmeno da trauma fondativo dell’identità maschile di Albinati. O meglio, è la spia dell’ennesima rinuncia all’idea che il pensiero serva a mettere un punto alla vita, a conferirle un significato retrospettivo. Come per le idee nell’annotazione di Cosmo, La scuola cattolica sembra terminare solo per esaurimento del suo autore, che chiude in minore elencando le filastrocche oscene correnti all’epoca del liceo e poi, durante la messa di Natale, con una brevissima accettazione estatica che sfocia nella presa d’atto, speculare all’abuso più sognato che realmente vissuto: è meglio rinunciare, una volta per tutte, a capire e interpretare il passato (SC, pp. 1290-2), qualunque violenza sia stata compiuta.
Altre due brevi osservazioni sulla traiettoria del romanzo-saggio possono venire da un confronto parallelo di VTP e SC. Pur così diversi, entrambi i testi si smarcano dai loro antenati novecenteschi, mi pare, per due ragioni. La prima riguarda la progressiva disgregazione del personaggio-saggista. Se una certa spersonalizzazione del protagonista “pensante” è implicata dalla massiccia inserzione del discorso saggistico, che introduce un certo grado di astrazione nel racconto, i protagonisti di Pecoraro e Albinati mostrano un’ulteriore semplificazione psicologica che li rende ancor meno tridimensionali, ancor più “uomini senza qualità” degli antecedenti di Ulrich e Hans Castorp. A volte, essi danno l’impressione di essere pensati più che di pensare. Così, Ivo Brandani può concludere:
La verità è che siamo semplici, bi-dimensionali & gregari … […] Il mito farlocco della profondità, della complessità … Ma è solo il mal-funzionamento congenito delle nostre menti, come una rete di strade mal progettate, dove si formano continuamente ingorghi, blocchi, incidenti, dove si scovano tratti miracolosamente liberi, ariosi, su cui si viaggia bene, velocemente … Non so chi l’ha inventata la balla del profondo, del complesso, dell’insondabile … Io mi sono sempre visto superficiale, semplice, vuoto … Cioè, non vuoto in assoluto, ma vuoto di idee endogene, cioè privo della capacità di produrre concetti in proprio: tutto quello che ho pensato e che penso proviene da fuori … (VTP, pp. 497-8)
Seguendo i propri dettami neo-darwiniani e il principio architettonico-ingegneristico per il quale è lo spazio a creare l’uomo e non viceversa, Brandani concepisce ogni individuo (incluso se stesso) come il risultato casuale di influenze ambientali e forze esterne. Nonostante sia praticamente l’unico personaggio del romanzo ad avere il privilegio di condurre il discorso saggistico, egli non ha un primato di qualche tipo, perché l’atto del pensiero è un sintomo più che uno strumento consapevolmente usato. Lo stesso vale per Albinati, che vede nella determinazione ambientale dell’individuo uno dei motivi precipui della crisi del maschio, a fondamento della Scuola cattolica. Ancora una volta, il carattere degli individui è una concrezione fittizia che non corrisponde a un’entità reale e profonda[54]. Il pensiero non incide sulla sostanza delle cose ma si blocca su una (inesauribile) superficie:
Oggi alla vita si va in ordine sparso, nessun segnale (eccettuato, forse, quello del denaro, che sarebbe comunque già qualcosa) indica in partenza cosa si dovrà fare e cosa no, a cosa ambire e da cosa guardarsi. Ognuno va per conto suo cucendosi addosso lungo la strada un patchwork casuale di atteggiamenti e mezze convinzioni raccattate qua e là, per non restare nudo e incomprensibile agli altri, anche se si vede lontano un miglio che è tutto finto, tutto improvvisato o preso in prestito, dai serial o dai dibattiti tv, dalle rubriche di consigli, dalle ondate prescrittive on-line. Non c’è sostanza, non c’è fondamento profondo ma nemmeno una bella ipocrisia a tutto tondo, una superficie ben smaltata, un modello vacuo eppure impeccabile nella sua compiutezza sociale com’era, per esempio, fino a non molto tempo fa, quello borghese. (SC, p. 132)
In secondo luogo, correlata alla perdita di incidenza sulla realtà esterna del protagonista-pensante, c’è la fine del romanzo-saggio come forma interessata alla costruzione di un futuro possibile. Nell’Uomo senza qualità si disegna il progetto, sebbene parodiato ed estremamente scettico, del «Regno millenario»[55], e si concepisce l’inclinazione spirituale dell’«utopia del saggismo»[56]; La montagna magica di Mann si chiude, mentre Hans Castorp marcia nel trambusto di un’azione militare, sulla domanda irrisolta se possa un giorno «innalzarsi l’amore»[57] sull’umanità; Huguenau o il realismo, capitolo conclusivo della trilogia dei Sonnambuli di Broch, addirittura si conclude con un’attesa messianica del passaggio a un nuovo sistema di valori ancora ignoto, attesa del tutto priva di ironia[58]. Nei testi esaminati in questo intervento, invece, non c’è più segno di alcuna ipotesi utopica. Il saggio è uno strumento che serve a ripensare solo ciò che si è già verificato: può conferire all’esistente una nuova forma (o provarci) ma non è suo compito tracciare dei modelli costruttivi, nell’intima convinzione che un altro mondo non sia davvero pensabile. Le uniche tracce non regressive del romanzo-saggio contemporaneo si trovano perciò, senza stupore, nelle speculazioni che mettono «in crisi una concezione autonoma e autarchica dell’umanità», magari con una nuova «contaminazione con l’animalità»[59] che investa anche la sfera del pensiero (come in Coetzee). L’unica utopia immaginabile è quella che non contempla al suo interno l’uomo, ormai destinato a un esaurimento progressivo. Alla conclusione è arrivato fra i primi un romanziere-saggista come Houellebecq, che nelle Particelle elementari consegna il racconto della vicenda dei fratelli Michel e Bruno a degli indifferenziati narratori post-umani, frutto di una selezione genetica avviata proprio da Michel[60]. I narratori post-umani raccontano la storia delle Particelle elementari proprio alternando lunghe sezioni di saggismo astratto e racconto particolare delle vite di Michel e Bruno, suggerendo che le loro parabole individuali non facciano che prefigurare la scomparsa inevitabile, persino accettata con una certa rassegnazione, dell’umanità intera[61]. In VTP, il discorso è analogo. Il fallimento dell’utopia politica, nel caso di Pecoraro incarnata dalle proteste sessantottine a cui Brandani partecipa in prima persona, prefigura l’esaurimento della fiducia in un progetto di futuro[62]. Forse l’unica alternativa sarà data dal progresso scientifico che porterà «pochi esseri umani finti-veri» a regnare su «un mondo finto-vero» (VTP, p. 146): ma è un’immaginazione residua, laterale, quasi nemmeno formalizzabile. Anche in SC (che dichiara di non inventare nulla per restare fedele alla cronaca), pur senza panorami fantascientifici, il ripiegamento sul passato esclude qualsiasi congettura su cosa sarà dell’uomo e della società.
Il romanzo-saggio si è incaricato, durante la crisi della modernità, anche di ripensare la realtà presente e scommettere su un’utopia. Oggi sembra lentamente trasformarsi nella forma narrativa ideale per trarre bilanci sulla propria epoca, per congetturare su un mondo che non può essere diverso da quello che appare, per ridefinire i rapporti esistenti fra le cose, con un progressivo scollamento fra narrazione e riflessione, fra concretezza e astrazione. Se per i lettori il romanzo-saggio è ancora possibile, la sensazione è che, per gli scrittori che si sono cimentati in questa forma letteraria, la risposta alla domanda posta all’inizio del mio intervento potrebbe essere incerta.
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[1] Per non appesantire il testo, i rimandi a questi due libri d’ora in poi sono fatti a testo: Francesco Pecoraro, La vita in tempo di pace, Milano, Ponte alle Grazie, 2013 = VTP; Edoardo Albinati, La scuola cattolica, Milano, Rizzoli, 2016 = SC.
[2] Stefano Ercolino, Il romanzo-saggio 1884-1947, Milano, Bompiani, 2017, p. 265. Corsivo del testo originale.
[3] L’opera di Proust, vista l’altissima percentuale di passaggi saggistici si può considerare appartenente a pieno diritto al genere del romanzo-saggio, contrariamente alla posizione di S. Ercolino, Il romanzo-saggio, cit., pp. 182-3.
[4] Guido Mazzoni, Teoria del romanzo, Bologna, Il Mulino, 2011, p. 73. Più in esteso: «Per come lo conosciamo oggi, il genere nasce al termine di una metamorfosi che si compie fra la metà del Cinquecento e la fine del Settecento. Intorno al 1550, la parola “romanzo” indica per lo più una forma letteraria precisa e ristretta; intorno al 1800, indica ciò che designa oggi – uno spazio polimorfo dove trovano posto i racconti di una certa lunghezza che non rientrano nei confini dei generi narrativi più rigidamente codificati (l’epos, le opere storiografiche, la chanson de geste)», Ivi, p. 79. Cfr. anche, per una lettura alternativa che conserva il criterio dell’anarchia mimetica come distintivo del romanzo, anche Thomas Pavel, Le vite del romanzo. Una storia, Milano-Udine, Mimesis, 2015.
[5] Conversazione con Alfonso Berardinelli, a cura di Matteo Di Gesù, in Il saggio critico. Spunti, proposte, riletture, a cura di Michela Sacco Messineo, Palermo, duepunti, 2007, pp. 20-1.
[6] Michel de Montaigne, Saggi, a cura di Fausta Garavini e André Tournon, Milano, Bompiani, 2014, p. 3.
[7] Ibidem.
[8] Raffaele Manica, Exit Novecento, Roma, Gaffi, 2007, p. 34.
[9] «La nascita del giornalismo e dell’“opinione pubblica”, i compiti politico-pedagogici della filosofia e delle scienze, la curiosità enciclopedica e il nomadismo più o meno forzato dei philosophes in conflitto con i centri di potere tradizionali rappresentati dall’aristocrazia cortigiana e dal clero: tutto questo favorisce il genere saggistico sopra tutti gli altri per la sua efficacia, mobilità e duttilità», Alfonso Berardinelli, La forma del saggio, Venezia, Marsilio, 2008, p. 22.
[10] «Il saggio parla sempre di qualcosa che è già formato o almeno di qualcosa che è già esistito una volta, è proprio della sua essenza non ricavare novità dal nulla ma dare nuovo ordine alle cose già esistite. Proprio perché le mette in un ordine nuovo esso non plasma qualcosa di nuovo dall’informe, è legato ad esse e deve sempre dire “la verità” sul loro conto, trovare un’espressione per la loro essenza», György Lukács, L’anima e le forme. Teoria del romanzo, Milano, Sugarco, 1963, p. 34.
[11] «Al saggio si rimprovera mancanza di ubi consistam e relativismo perché esso non accetta alcun punto di vista esterno», Theodor W. Adorno, Il saggio come forma in Note per la letteratura 1943-1961, Torino, Einaudi, 1979, p. 24.
[12] Ivi, pp. 27-28.
[13] Ivi, p. 29.
[14] Per un sunto aggiornato, v. almeno Marielle Macé, L’essai littéraire devant les temps in «Cahiers de Narratologie» (27 febbraio 2008): http://journals.openedition.org/narratologie/499; John D’Agata (a cura di), The Making of the American Essay, Minneapolis, Graywolf Press, 2016.
[15] La lista è per forza di cose molto parziale. Per approfondimenti, si rimanda almeno a Gianluigi Simonetti, I nuovi assetti della narrativa italiana (1996-2006), in «Allegoria», 57 (2008), pp. 95-136; Raffaele Donnarumma, Ipermodernità. Dove va la narrativa contemporanea, Bologna, Il Mulino, 2014, pp. 165-224; Raffaello Palumbo Mosca, L’invenzione del vero. Romanzi ibridi e discorso etico nell’Italia contemporanea, Roma, Gaffi, 2014, pp. 187-248.
[16] Thomas Mann, Nobiltà dello spirito e altri saggi, a cura di Andrea Landolfi, con un saggio di Claudio Magris, Milano, Mondadori, 2015, in particolare i saggi Schopenhauer (pp. 1235-92) e La filosofia di Nietzsche alla luce della nostra esperienza (pp. 1298-1338).
[17] Su Bergson in Proust la bibliografia è sterminata. Cfr. almeno Stefano Poggi, Gli istanti del ricordo. Memoria e afasia in Proust e Bergson, Bologna, Il Mulino, 1991; Miguel de Beistegui, Proust e la gioia. Per un’estetica della metafora, Pisa, ETS, 2013.
[18] Cfr. almeno Mark M. Freed, Robert Musil and the NonModern, New York, Continuum, 2011.
[19] Su questo si rimanda a S. Ercolino, Il romanzo-saggio, cit., pp. 240-62, e relativa bibliografia in nota.
[20] Cfr. Pierpaolo Antonello, Il ménage a quattro. Scienza, filosofia, tecnica nella letteratura italiana del Novecento, Firenze, Le Monnier, 2005, pp. 1-21.
[21] Michel Houellebecq, In presenza di Schopenhauer, Milano, La nave di Teseo, 2017, p. 23.
[22] Sull’importanza del pensiero post-strutturalista per la generazione di scrittori esordienti negli anni Ottanta, cfr. David Foster Wallace, Futuri narrativi e i Vistosamente Giovani in Di carne e nulla, Torino, Einaudi, 2013, pp. 90-121. Sul sostrato filosofico della narrativa di Wallace, c’è una cospicua bibliografia in lingua inglese: si rimanda, per un primo orientamento, almeno a Robert K. Bolger, Scott Korb (a cura di), Gesturing Toward Reality. David Foster Wallace and Philosophy, Londra, Bloomsbury, 2014.
[23] «[…] l’arbitrio da cui prende le mosse il romanzo-saggio è sempre un rapporto incompleto tra pensiero scientifico e filosofico. Questa incompletezza non è conoscitivamente neutrale […] Ma l’ipotesi di totalità della narrazione, proprio in virtù del confronto con la conoscenza, è disillusa in partenza, e affrancata da qualsiasi ingenuità di completamento», Valentina De Angelis, La forma dell’improbabile. Teoria del romanzo-saggio, Roma, Bulzoni, 1990, p. 18.
[24] Non mi pare un caso che sul rapporto fra fantascienza e filosofia sia nata una cospicua bibliografia, nella quale si segnalano solo pochi saggi per un primo orientamento: Philosophy and Science Fiction, a cura di Michael Philips, Londra, Prometheus, 1984; Science Fiction and Philosophy. From Time Travel to Superintelligence, a cura di Susan Schneider, Oxford, Blackwell, 2007; Philosophy and Science Fiction, a cura di Peter A. French, Howard K. Wettstein, Erich Schwitzgebel, Oxford, Blackwell, 2015. Sull’influenza (ingente) esercitata dalla fantascienza sul dibattito filosofico contemporaneo, ci si limita a citare l’evidente peso esercitato dal genere nella scelta dei campioni e nel metodo di lavoro di, per fare solo due nomi: Slavoj Žižek, Benvenuti nel deserto del reale. Cinque saggi sull’11 settembre e date simili, Roma, Meltemi, 2003; Fredric Jameson, Postmodernism, or The Cultural Logic of Late Capitalism, Duke, Duke University Press, 1991, pp. 279-96 (Nostalgia for the Present) e passim.
[25] Michel Houellebecq, Estensione del dominio della lotta [1994], in Opere (1991-2000), vol. I, Milano, Bompiani, 2016, p. 230.
[26] Ivi, p. 231.
[27] Ad esempio gli stralci dei Dialoghi tra un bassotto tedesco e un barboncino, il finto romanzo animalistico, vicino alla forma dell’“operetta morale”, che il narratore ci annuncia di stare scrivendo (Ivi, pp. 289-98).
[28] «Il fallimento di una visione antropomorfica del personaggio, dell’idea di homo fictus come di un essere dotato di una psicologia nella quale rientrano sentimenti e emozioni, memoria e pensieri, in qualche modo un’intera ideologia, conduce a un fatale ripensamento di tutta la forma romanzesca […] Quello che può semmai apparire inedito, in Houellebecq, è la perentorietà del nesso che egli stabilisce, proprio per mezzo di Lovecraft, fra il declino del personaggio tradizionale, dotato di “profondità psicologica”, e l’affermarsi inevitabile di una visione scientifica del mondo […]», Arrigo Stara, Il personaggio nell’età di Turing. Sulla narrativa di Houellebecq in La tentazione di capire e altri saggi, Firenze, Le Monnier, 2006, p. 147.
[29] M. Houellebecq, Estensione del dominio della lotta, cit., p. 276.
[30] Ivi, p. 350. Corsivo nel testo originale.
[31] Il peso esercitato da Schopenhauer nell’opera di Houellebecq è impossibile da sottovalutare se si nota nel testo la concezione del mondo come «sofferenza dispiegata», la considerazione distruttiva del desiderio sessuale come motore dell’umanità progredita e il resoconto fallimentare dell’integrazione dell’individuo nella società. Cfr. Michel Houellebecq, Restare vivi. Un metodo, in Opere, cit., pp. 93-116.
[32] M. Houellebecq, Estensione del dominio della lotta, cit., pp. 283, 350.
[33] «Questo mondo non mi piace. Decisamente non lo amo. La società in cui vivo mi disgusta; la pubblicità mi nausea; l’informazione mi fa vomitare. Tutto il mio lavoro di informatico consiste nel moltiplicare i riferimenti, le verifiche, i criteri di decisione razionale. Il che non ha alcun senso. A dirla tutta, è anche alquanto negativo: un inutile ingorgo di neuroni», Ivi, p. 287.
[34] Ivi, p. 353.
[35] «La filosofia, sostiene la scrittrice, è relativamente incapace di svolgere un ruolo guida, perché blocca la nostra empatia. Il compito ricade quindi su qualcosa di diverso dalle nostre facoltà razionali, alle quali solitamente si rivolge la filosofia. La nostra immaginazione ed empatia […] dovrebbe estendersi ad altri animali. La forma narrativa, nelle mani di Coetzee, ha dunque un’evidente finalità etica: estendere la nostra empatia agli animali», Amy Gutmann, Introduzione a J. M. Coetzee, La vita degli animali, a cura di Amy Gutmann, Milano, Adelphi, 2009, p. 13.
[36] «L’effetto è complesso: da un lato, il lettore non può fare a meno di riconoscere la presenza di un legame molto forte tra le vicende biografiche di Coetzee e l’impianto narrativo di The Lives of Animals; dall’altro, il fatto di avere affidato a una voce diversa dalla propria i temi trattati ha permesso all’autore di demandare alla protagonista (così come a tutti i personaggi che con lei interagiscono ed esprimono opinioni a riguardo) la responsabilità delle affermazioni che compaiono nel testo», Giuliana Iannaccaro, J. M. Coetzee, Firenze, Le Lettere, 2009, p. 171.
[37] Ivi, p. 32.
[38] Ivi, p. 44.
[39] «Il saggio è la forma del pensiero asistematico […] una forma anti-cartesiana. Esso sfida il modello della razionalità differenziante teorizzato da Cartesio nel Discorso sul metodo […]», S. Ercolino, Il romanzo-saggio, cit., p. 64. Sul concetto di razionalità differenziante, v. anzitutto Niklas Luhmann, Osservazioni sul moderno, Roma, Armando, 1995, p. 34.
[40] «Non sono una studiosa di Kafka. A dire il vero non sono una studiosa di niente. La mia posizione nel mondo non si basa sull’avere ragione o torto nel sostenere che Kafka ha letto il libro di Köhler», J. M. Coetzee, La vita degli animali, cit., p. 37.
[41] Ivi, p. 47.
[42] Carlo Mazza Galanti, Su “La vita in tempo di pace” di Francesco Pecoraro, in «Minima&Moralia» (10 gennaio 2014): http://www.minimaetmoralia.it/wp/recensione-la-vita-in-tempo-di-pace-francesco-pecoraro/.
[43] «Pace, pace, pace, per noi organismi filtratori, che non sapremo mai nulla di noi stessi, perché la pace ti fa proprio questo, non ti mette alla prova se non nella parte peggiore di te, ti cuoce per tutta la vita, lentamente, e quando arrivi alla fine – non manca molto – ti stai ancora ponendo le domande che ti facevi all’inizio, quando ti chiedevi se anche tu saresti stato capace di pilotare in guerra un Sacro Spitfire, di non fuggire a rotta di collo vedendoti arrivare addosso un Me 109 … », VTP, p. 229.
[44] Tracce della vocazione di Brandani, che è il riflesso finzionale dell’esperienza da architetto dello stesso Pecoraro, sono inoltre palesi nel capitolo La Città di Dio (VTP, pp. 390-451), incentrato quasi per intero su una riflessione critico-urbanistica di Roma che ha una fonte possibile non nel romanzo-saggio novecentesco, ma piuttosto in testi più tecnici di architettura. Si prenda un brano di un saggio di Quaroni, professore di Urbanistica alla Sapienza (dove Pecoraro ha studiato) dal 1965 al 1981: «In un secolo abbiamo potuto vedere l’Italia sbracarsi “alla romana” e romanescamente via via concentrare le forze dell’intelligenza nella sola demolizione d’ogni fede rispettabile e d’ogni energia di rinnovamento o nell’organizzazione del sottobosco degli intrallazzi, dei traffici illeciti, della sistematica corruzione», Ludovico Quaroni, Immagine di Roma, fotografie di Ludovico e Livio Quaroni, Bari, Laterza, 1969, p. 383. Cfr. in esteso le pp. 375-417.
[45] Gianluigi Simonetti, L’isola dell’adulterio, in «Il Sole 24 Ore» (12 giugno 2017): http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2017-06-12/l-isola-dell-adulterio-105805.shtml?uuid=AEFiDSaB.
[46] «Ma forse il principale interesse dei romanzi, la loro fondamentale o forse unica ragione di esistenza è che in essi vivono mondi che sono stati spazzati via …», SC, p. 447.
[47] «Scrivo infatti non per ricordarla, questa storia, ma perché sia sigillata e dimenticata per sempre. Almeno da me. La chiudo dentro questo libro come se la seppellissi. Amen», SC, p. 1117. Corsivo del testo originale.
[48] «Potrei dire di aver avuto sin qui una vita piena e fortunata, e infatti lo dico, comparativamente, quantomeno. Allora di che mi sto a lamentare? Di niente. Qual è il guaio? Nessuno. Io non mi lamento, io sono un lamento», SC, p. 176.
[49] «Nel capitolo seguente non posso, per ragioni di spazio, pubblicarle tutte, ma comunque un buon numero tra quelle che mi hanno più colpito o che potrebbero significare qualcosa per queste storie: anche se non ne parla mai, Cosmo dà l’impressione di farvi, talvolta, riferimento», SC, p. 1153.
[50] «Volete poggiare il libro e dormire, restituirlo a chi ve l’ha regalato, farvi ridare i soldi indietro dal libraio? Be’, mi spiace. È troppo tardi per me, ma non per voi. Posso suggerirvi di saltare qualche capitolo e andare alla Quinta Parte, che s’intitola Collettivo M», SC, p. 520.
[51] V. SC, pp. 1250-8.
[52] «”Aspetta” disse ansimando, “aspetta!” e quando riprese a carezzarmi il viso e il collo sentii la sua grande mano bagnata», SC, p. 1289.
[53] «Credo che fosse ormai notte fonda. E che fino a giorno andò avanti così», Ibidem.
[54] Cfr. le osservazioni sulla narrazione che plasma e fissa «la labile e sciocca maschera del carattere, il “mio” carattere, ammasso di banalità tenute insieme in una cronologia», SC, p. 447.
[55] Robert Musil, L’uomo senza qualità, nuova edizione italiana a cura di Adolf Frisé, introduzione di Bianca Cetti Marinoni, Torino, Einaudi, 1996, pp. 759-1180. Ma cfr. anche il concetto dell’«altro stato» in Robert Musil, L’uomo tedesco come sintomo, a cura e con un saggio introduttivo di Francesco Valagussa, Bologna, Pendragon, 2014, pp. 100-1.
[56] R. Musil, L’uomo senza qualità, cit., p. 278.
[57] Thomas Mann, La montagna magica, a cura e con un saggio introduttivo di Luca Crescenzi, e un saggio di Michael Neumann, Milano, Mondadori, 2010, p. 1069.
[58] Hermann Broch, Huguenau o il realismo, a cura di Massimo Rizzante, prefazione di Milan Kundera, postfazione di Carlos Fuentes, con in Appendice alcuni frammenti dalle Lettere di Hermann Broch, Milano-Udine, Mimesis, 2010, pp. 687-90.
[59] Massimo Fusillo, Estetica della letteratura, Bologna, Il Mulino, 2009, p. 103; sulla nozione di post-umano v. l’approfondito studio di Roberto Marchesini, Il tramonto dell’uomo. La prospettiva post-umanista, Bari, Dedalo, 2009.
[60] «Avendo rotto il legame filiale che ci avvinceva all’umanità, noi viviamo. Secondo il metro degli uomini, noi viviamo felici; vero è che abbiamo saputo sconfiggere il per loro insormontabile potere dell’egoismo, della crudeltà e della collera; comunque sia viviamo una vita differente», Michel Houellebecq, Le particelle elementari, in Opere, cit., p. 775.
[61] «Contrariamente a tutte le previsioni pessimistiche, tale estinzione avviene con serenità, a parte isolati atti di violenza, il cui numero complessivo va peraltro diminuendo. Addirittura si resta sorpresi nel vedere con quale dolcezza, quale rassegnazione, e forse quale segreto sollievo, gli umani abbiano accettato la propria scomparsa», Ibidem.
[62] «Il futuro si è deteriorato, sembra che non ci attenda niente di buono, su questo sono tutti d’accordo, quando ero piccolo non era così: il futuro aveva qualche problema, ma complessivamente era radioso, lucente, interplanetario, interstellare, intergalattico, trans-spazio-temporale … Ora i film di fantascienza li girano nelle fabbriche abbandonate, è tutto uno sfasciume post-atomico & inselvatichito, in attesa dei germi di una rinascita che immancabilmente si intravede alla fine del film …», VTP, p. 147.
[Immagine: Sol LeWitt, Complex Form with Black (particolare)]
“ Domenica 27 giugno 2005 – « La poetica della prosa »: si intitolava così il bellissimo saggio che però non avevo scritto io, ma quel mio collega che non fa niente, però studia tanto, accidenti anche a lui. Era stupefacente vedere come quel libro era venuto su, lungo molti anni di paziente lavoro, come un’architettura splendida e perfetta, nell’equilibrio, nell’armonia assolutamente sensata delle sue parti. Come aveva lavorato bene, pensavo, quel fottuto secchione, che il diavolo se lo porti. (Un sogno) “.
Una riflessione: esiste tutta una tradizione di pensiero filosofico contemporaneo (potremmo riassumerla con l’etichetta di “pensiero dell’altro”: Levinas, l’ultimo Derrida, certi pensatori religiosi come Martin Buber) che nessuno sembra prendere in considerazione, forse perché non intonata a quel nichilismo parascientifico che va per la maggiore da più di un secolo. La tua analisi mette bene in luce questa chiusura prospettica: i personaggi sono ridotti a ipostasi discorsanti, evangelisti della totalità scientifico-nichilistica. Di polifonia,mi sembra, si potrebbe parlare solo in quanto variazione su uno stesso discorso, non come incontro di alterità irriducibili, come in Dostoevskij. Virare verso un certo tipo di letture potrebbe forse restituire linfa (vitale più che stilistica, di cui abbonda) a una narrativa prigioniera del discorso della totalità scientifico-nichilistica, aprirla a una prospettiva non totalitaria, forse anche religiosa, che per sua natura include la dimensione del futuro. Ma ovviamente non si possono prescrivere le letture come fossero medicine.
Non solo è possibile, è stato anche specificamente innovato, si veda ad es. “Muro di casse” di Vanni Santoni e almeno un paio degli altri Solaris di Laterza.