di Raoul Bruni
[Questo articolo è uscito su «Alias»].
Chi si è occupato finora di Malaparte ha quasi sempre cercato di etichettarlo politicamente: a seconda della fase storica di riferimento, lo si è potuto definire proto-fascista, fascista, anti-fascista, liberale, filo-comunista. Se da un lato questa alternanza di definizioni ha alimentato il mito camaleontico del personaggio Malaparte, d’altra parte ha finito per metterne un po’ in ombra l’opera. Visto anche il recente revival editoriale, sembra sia venuto il momento giusto per cambiare prospettiva, leggendo non più (o non solo) Malaparte nel quadro della politica del secolo scorso ma, viceversa, la politica del Novecento nell’opera di Malaparte. Con questa modalità di sguardo si potrà forse comprendere meglio il valore intrinseco di Malaparte, anche come scrittore politico. Le tre opere centrali, da questo punto di vista, sono Intelligenza di Lenin, Tecnica del colpo di Stato e Il buonuomo Lenin, appena pubblicato da Adelphi per l’attenta cura di Mariarosa Bricchi («La collana dei casi», pp. 311, € 20,00). Il libro – che insieme agli altri due compone una sorta di trilogia sulla rivoluzione russa – uscì per la prima volta a Parigi, per Grasset, nel 1932, con il titolo Le bonhomme Lénine, mentre la prima edizione italiana, a causa di varie vicissitudini, fu stampata da Vallecchi soltanto nel 1962 (cinque anni dopo la morte dell’autore). Il titolo dell’edizione Vallecchi, Lenin buonanima, fu suggerito dallo stesso Malaparte; tuttavia il significato dell’espressione buonanima («persona defunta») si distacca sensibilmente da quello della parola francese bonhomme, che significa appunto uomo buono o uomo semplice. Nella nota al testo, in cui spiega le ragioni del nuovo titolo, Mariarosa Bricchi ipotizza che Malaparte abbia preferito tradurre bonhomme con il termine più neutro buonanima per evitare di essere considerato troppo filo-russo, in un momento storico (lo scrittore propose questo titolo nel 1939) in cui i rapporti politici tra Italia e Russia erano estremamente tesi (potrebbe essere una modifica «tattica», come quando Malaparte mutò il titolo del suo esordio Viva Caporetto! in La rivolta dei santi maledetti). Ma aldilà di questa ipotesi, rimane il fatto che l’espressione buonanima è in stridente contrasto con l’accezione che in tutto il libro ha la parola bonhomme come epiteto-chiave di Lenin.
Malaparte scrive questa biografia del leader bolscevico per ribaltare i luoghi comuni e spiazzare il lettore: come annuncia programmaticamente in una lettera del 4 settembre 1931 all’amico Daniel Halévy, egli si propone «di mostrare un Lenin del tutto diverso da come appare agli occhi dell’opinione pubblica europea». Malaparte prende contemporaneamente le distanze sia dai biografi russi, che avevano trasformato la vita di Lenin in una agiografia politica, sia dalla maggior parte dei cronisti occidentali, che lo avevano raccontato come un mostruoso Gengis Khan della rivoluzione proletaria. Per Malaparte Lenin è molto più europeo che asiatico: assomiglia di più a Robespierre che a Gengis Khan, e se è «un mostro», lo è «nella maniera nella quale potrebbe esserlo o potrebbe diventarlo, favorito dalle occasioni, qualunque europeo medio dei giorni nostri» (come non pensare alla tesi della banalità del male di Hannah Arendt?). Secondo Malaparte, Lenin non fu un uomo d’azione come Trockij (che nella Tecnica del colpo di Stato era presentato come il vero protagonista della rivoluzione d’ottobre), ma un bonhomme, cioè un uomo ordinario, un piccolo borghese. Stando a Malaparte, l’unico evento veramente degno di nota della gioventù di Lenin non riguardò direttamente lui, ma il fratello Aleksandr, condannato all’impiccagione per aver attentato alla vita dello zar. Fino allo scoppio della rivoluzione, Lenin condusse una esistenza di grigia monotonia, sia in patria sia all’estero; nessuna bohème, neanche negli anni giovanili, ma un tranquillo e rassicurante ménage familiare con la vigile moglie Nadežda Konstantinovna e l’amata suocera. Quando non era a casa, Lenin trascorreva la maggior parte del suo tempo in biblioteca a compulsare o a redigere aride statistiche sul capitalismo; a quanto sostiene Malaparte, la sua ribellione si espresse tutt’al più in qualche articolo polemico, senza esorbitare dalla pagina scritta. D’altronde Malaparte stronca impietosamente anche il Lenin filosofo e scrittore: soltanto il celebre Che fare? si salva dalla «mediocrità décevante di tutta la sua opera». Tutto in Lenin è mentale, astratto, teorico: anche l’«odio contro la Santa Russia, contro la società borghese, contro i nemici del popolo, non è feroce. La parola “distruggere” non ha per lui ciò che si potrebbe chiamare un cattivo significato. L’odio non è in lui un sentimento: non è nemmeno un calcolo. È un’idea. Il suo odio è teorico, astratto, direi anche disinteressato». Insomma, Malaparte elimina totalmente l’aura romantica che circondava la figura di Lenin, esattamente come, nella Tecnica del colpo di Stato, aveva ridotto i giorni solenni della rivoluzione d’ottobre a un mero golpe, nel senso più tecnico della parola. Così Malaparte torna sull’argomento nel Buonuomo Lenin: «Trockij non si è preoccupato di rovesciare il Governo: si è impadronito dello Stato. In quella situazione paradossale è il segreto della tecnica insurrezionale di Trockij. Le operazioni si sono svolte con una rapidità e una regolarità sorprendenti. Nessun avvenimento sanguinoso marca la prima giornata dell’insurrezione: alcuni colpi di fucile soltanto, nel sobborgo di Poutilow». Parecchi anni più tardi, in Fuga da Bisanzio, Iosif Brodskij (chissà se aveva letto Malaparte?) parlerà della rivoluzione bolscevica in termini sorprendentemente simili: «Quella che nei libri di storia è presentata come la Grande Rivoluzione Socialista d’Ottobre non fu in realtà che un semplice golpe, e incruento per giunta. Al segnale un colpo a salve sparato dal cannone di prua dell’incrociatore Aurora un plotone delle neonate Guardie Rosse entrò nel Palazzo d’Inverno e arrestò un pugno di ministri del governo provvisorio che stavano lì a perder tempo, a cercare vanamente di provvedere alla Russia dopo l’abdicazione dello Zar».
In ogni caso per Malaparte la vera anima della rivoluzione rimane Trockij, mentre Lenin «al momento decisivo dell’insurrezione, […] si metterà una parrucca, si taglierà i baffi e la barba, si travestirà da operaio, arriverà perfino a compromettere l’esito del colpo di Stato, preferendo nascondersi e tenersi in disparte piuttosto che arrischiarsi sul terreno dell’azione e della violenza». Per Malaparte in questo aneddoto c’è tutto Lenin, tutta la sua indole piccolo-borgese da «rivoluzionario in parrucca».
Il buonuomo Lenin è sicuramente una biografia a tesi, che, come accade sempre in Malaparte, mescola fiction e non-fiction a scapito dell’attendibilità storica e piega il resoconto dei fatti all’effetto da raggiungere. Eppure (e lo stesso discorso vale anche per Kaputt e a La pelle) Malaparte coglie spesso verità profonde, e ciò che racconta, se non è vero, appare quasi sempre verisimile. In questo caso si rimane colpiti dal fatto che lo scrittore abbia intuito molti decenni prima del crollo dell’Unione Sovietica i primi sintomi dell’involuzione autoritaria e burocratica del bolscevismo. Che sembra annunciarsi nell’implacabile ideologia piccolo-borghese di Lenin: nel suo «fanatismo di burocrate, che non ha alcun rapporto con la realtà, i fatti, le circostanze, le occasioni, gli uomini, che agisce unicamente sulle idee, nel dominio delle idee».
[Immagine: L’abbattimento della statua di Lenin a Kharkiv in Ucraina].
” 12 marzo 1984 – Maledetti toscani a rileggerlo oggi si dimostra un bellissimo libro. Una lingua ricchissima come non si parla più nemmeno in Toscana. Fra il libro e la sua ristampa c’è tuttavia il pubblico educato sul regionalismo dei filmetti post-pasoliniani etc. (Credo di averlo letto la prima volta a quattordicianni) (È un libro tutto sulla lingua, anzi sulla voce, corpo della differenza) (Da ricordare: le donne di Montalcino, tagliatrici di gole spagnole) “.
Con una “lingua ricchissima” si possono fare gli stessi o più danni che con una lingua alla Mein Kampf.
Fossero tutti “piccolo borghesi” come Lenin i piccolo borghesi.
“ Martedì 20 ottobre 1998 – Oggi la vignetta di Forattini vale davvero, come hanno sempre detto (ma io non ci volevo credere), un editoriale. Vi si vedono, da sinistra a destra: Craxi-Gambadilegno piazzaleloretescamente appeso a testa all’ingiù, Amato-Topolino e D’Alema (vestito da D’Alema) seduto a un tavolo davanti a un foglio scritto che forse è il programma del nuovo governo o forse è solo un foglio pieno di parole. Mentre Craxi-Gambadilegno pende, Amato-Topolino dice a D’Alema-D’Alema: « Io sono il garante, e tu chi sei? ». E D’Alema-D’Alema, con una brutta baffuta faccia, in un ringhioso neretto risponde: « Walt Disney ». La vignetta è abbastanza chiara così com’è, ma ancora più chiara diventa a chi abbia l’età per ricordare quell’altra, credo di vent’anni fa, in cui si vedeva Aldo Moro che, guardandosi in uno specchio – uno di quelli da attori, con tutte le lampadine -, vedeva nello specchio un improvviso barbuto Karl Marx, e la didascalia diceva: « Il produttore ». Una vignetta così, che forse potrebbe essere considerata l’analogo del famoso libretto di Malaparte che ai suoi tempi si intitolò: Tecnica del colpo di stato, me la ricordo bene perché credo che sia vedendola che ho cominciato a capire qualcosa. Per esempio che la parola « produttore » poteva essere usata, cioè detta, cioè letta, non necessariamente nel senso in cui molto tempo fa la usò Karl Marx o, ieri l’altro, Bert Brecht, o, appena ieri, tanti e fra i tanti forse anche io, in assemblee, cortei, discussioni, etc., ma anche in quello più ovvio, banale, comune, rotocalchistico o televisivo, comprensibile-a-tutti in cui, ieri come, oggi la usano tutti. E che magari quel in senso l’avevano sempre intesa anche alcuni di quelli che non avrei mai immaginato che potessero intenderla così. E che comunque molte delle cose accadute, sia in privato che in pubblico, si spiegavano meglio in quel senso che in qualsiasi altro. E che « equivocare », non significa necessariamente sbagliare, ma forse piuttosto scambiare e nello scambio si sa, c’è chi ci perde ma c’è anche chi ci guadagna. E che comunque c’è chi equivoca per mestiere, cioè non casualmente ma anzi rigorosamente, metodicamente, come i pazzi che, come si sa, saranno anche pazzi, ma nella loro pazzia c’è sempre del metodo. E un metodo è sempre meglio di un’assenza di metodo. Così finisce che oggi mi voglio dedicare un po’ a Forattini, che è uno che può non piacere ma di sicuro ha del metodo. “.