[È appena uscito il numero 4 della nuova serie di «nostro lunedì», periodico di scritture, voci e immagini ideato e diretto da Francesco Scarabicchi. Il numero è interamente dedicato alla memoria e all’opera di Mario Dondero (lo si può richiedere all’editore, scrivendo a info@nostrolunedi.it). Pubblichiamo, tra i molti, i contributi di Massimo Raffaeli e di Enrico Capodaglio].
Lo scatto mancato
di Massimo Raffaeli
Non è che Dondero fosse seduttivo, perché era ammaliante. Si trattava di un talento nativo, prima che elettivo, quasi l’effetto di ricaduta della sua semplicità o di una forma di umiltà capace di disporlo all’incontro con gli esseri umani senza il diaframma di alcun pregiudizio. Semplicemente lui era curioso della umanità dell’altro e all’altro devolveva la propria nella forma di un dono fortuito, tanto gli era naturale farlo. E nessuno, nessuno, sapeva resistergli e chiunque abbia avuto la fortuna di incontrarlo ne possiede la prova tangibile. Che Dondero fosse un individuo la cui humanitas era letteralmente persuasiva (“soave” è l’aggettivo che ne richiama infatti l’etimologia) deve averlo provato su di sé, per esempio, lo scrittore impenetrabile per eccellenza, un nemico dichiarato del genere umano, impassibile e algido nella sagoma grifagna e quasi spettrale, ovviamente Samuel Beckett.
L’aneddoto tante volte reiterato da Dondero (perché l’epica affabulatoria, qui va detto, era parte integrante della sua leggenda di fotografo nomade e di uomo ubiquitario) vuole che un giorno egli si appostasse davanti a un villino della banlieue parigina spiando o forse solo indovinando i gesti di un uomo acquattato, il quale tentava invano di abbassare le tapparelle di casa e così di rendersi invisibile al di là del cancello. Quell’uomo era Beckett ma (e non si sa dopo che genere di abboccamenti e parlamenti o di miti trattative: Dondero in effetti non trattava ma semmai, ammaliando, si imponeva) fatto sta che cedette e si lasciò fotografare. Dondero deve avergli prestato, per l’occasione, o deve avere proiettato su di lui una quota della propria mitezza e simpatia, tant’è che i suoi ritratti beckettiani, del tutto anticonvenzionali, ritraggono un individuo posato, distratto e come arreso al contesto quotidiano. (Vale a dire un Beckett in qualche modo postumo rispetto al cipiglio da uccello rapace, un Beckett che pare più vecchio dei suoi anni o sembra un qualunque anziano finalmente liberatosi della corazza). L’altro scatto che Dondero vagheggiava da sempre tuttavia lo mancò.
Arrivando a Parigi in pieno dopoguerra il suo credo era scritto nella poesia di Eluard, J’écris ton nom Liberté, il suo quartiere Saint-Germain, i suoi maestri (ma oggi si dovrebbe dire i suoi compagni di via) Robert Capa, Albert Camus, Jean-Paul Sartre. Confesserà di avere letto per la prima volta in quegli anni il Voyage au bout de la nuit, senza troppo intenderne il gergo ma ricevendone la suggestione del ritmo pulsionale e lo spiazzamento di una voce che parla dal basso della vita. Aggiungerà di averlo ripreso molte volte in mano subendone via via la musica infera, la violenza stilizzata dove esplodono i tabù secolari del capitalismo, dell’imperialismo e del colonialismo. Dondero allora non sapeva che Louis-Ferdinand Céline, l’ex collaborazionista e feroce antisemita, aveva proclamato senza mezzi termini di avere scritto l’unico romanzo “comunista” del secolo. Dondero non lo sapeva ma l’avrebbe sottoscritto, lui che non teneva per sé neanche i libri che amava, prodigandoli agli amici e ai compagni, e però non avrebbe mai potuto separarsi dalla copia sgualcita del Voyage che col tempo aveva imparato a memoria e che lo accompagnava ovunque: ora giace nel piccolo scaffale dell’ultima dimora, a Fermo, in vicolo Zara. Nell’autunno del ’60 non ebbe comunque bisogno di appostarsi a Meudon dove Céline viveva rinserrato con sua moglie Lucette, la ballerina, e una muta di cani. L’appuntamento era fissato e lì Dondero avrebbe accompagnato il suo amico Giancarlo Marmori, raffinato scrittore, per un servizio da inviare all’”Espresso”. Ma il giorno prima squillò il telefono e Lucette in persona disse che il dottor Destouches era malato e non avrebbe potuto riceverli. Non se ne fece più nulla. Céline morì pochi mesi dopo, il 1° luglio, e a Parigi come in tutto il mondo i giornali aprirono con la notizia del suicidio di Hemingway riservando solo poche righe reticenti e imbarazzate alla vecchia canaglia delle lettere francesi. Sui giornali italiani non comparivano fotografie di colui che pure aveva scritto il Voyage, cioè il romanzo del XX secolo, così Dondero fu indotto a pensare, con sgomento, che invece avrebbe potuto esserci la sua. Non se ne diede mai pace.
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Poesia a due
di Enciro Capodaglio
Possiamo parlare di mistica laica, perché tutto ciò che conta in una foto di Mario Dondero è presente. Non nel gesto dello scatto, che è come l’atto della penna, ma in ciò che fluisce tra chi guarda e chi è guardato. E addirittura tra un paesaggio e chi lo cattura con lo sguardo. Il fatto è che la realtà, perfino quella inanimata, ci osserva. Non si tratta di superstizione o suggestione, perché c’è la prova. Per fotografare, come per essere fotografato, devi essere candido. E lo sei se non lo credi, perché il candore esiste solo dal vero e a sorpresa. Dondero scopre per questa via l’ingenuità della storia, che si schiude quando quei giovani del Sud, emigrati a Torino nel 1965, scherzano tra loro con eleganza naturale. O in una pausa delle lotte degli operai alla Renault, nel 1968: essi non sanno di essere fotografati e proprio per questo sono loro a fare la foto. Certe persone invece sanno di essere guardate, anche se sono voltate altrove, e l’immagine capta allora quella sensazione da selvaggina, quando un occhio li insegue. Anche nelle foto tessera del resto abbiamo l’aria da animali braccati, mentre grazie alle visioni di Mario Dondero sembriamo ospiti a una mensa. Nella continua trasformazione del tempo in lontananza siderale, la foto ci giunge come la luce di una stella morta. Una costellazione di istantanee dei decenni passati è una galassia che non esiste più, che proprio per questo manda la sua luce. Le fotografie ci dicono che i morti vivono in una striscia parallela, e che quando Dondero fotografò quel volto di vecchia una vita fa, entrambi sapevano che i suoi occhi si sarebbero incrociati con quelli degli oggi viventi, smentendo le rette cronologiche. Gli scatti catturano le percezioni extrasensoriali, le preveggenze degli umani: il loro presente futuro. Leonardo Sciascia scrive che un ritratto fotografico fa affiorare l’entelechia di un essere, in senso aristotelico: la forma finale che lo orienta. Nella foto dell’istante di una donna, passa la luce della sua vita dalla nascita alla morte.
Questo fotografo ti abbraccia, perché vede i vivi come se non esistessero più e i morti come se continuassero a esistere. Se le sue fotografie hanno pietà per i morti, è perché hanno pietà per i vivi. La magia bianca del tempo dà agli occhi di Dondero la nostalgia dell’attimo presente: un umorismo clemente. Un giorno ci guarderanno da una foto che nessuno ha scattato. I suoi scatti distanziano le persone e i luoghi familiari e ci fanno affezionare a quelli sconosciuti. Mi domando come mai. Perché il bianco e nero per lui è indispensabile? Se lo sapete non me lo dite. Impressionante è che lo sguardo di una persona dalla foto regga il mio, e non già perché non batte mai le palpebre. Dal vivo infatti non riusciamo a fissarci per più di qualche secondo. E se lo facessimo? Proviamo. Ci sono persone che non vogliono mai essere fotografate. Eppure si piacciono. Perché? Che cosa sarà mai in fondo una foto? È che molti ti rubano l’anima, pochi te la trovano. Si dice che sia decisivo l’occhio del fotografo, in realtà è decisivo chi è, il suo modo d’essere. Forse non puoi essere un buon fotografo se non tieni agli altri e gli altri non tengono a te. Quella corrente segreta è un modo minore dell’amore, del quale a volte deve simulare le forme. Così Pascal scrive che bisogna s’embêter per pregare in compagnia nella messa. Sentirsi stupido fino alla noia, nell’atto di ripetere le formule. Allo stesso modo bisogna sentirsi stupido fotografando, in una preghiera terrestre. Mario Dondero è un poeta creaturale che ha a che fare con i paradossi delle anime nel tempo. E tuttavia non è un poeta singolo, non è mai da solo: sempre in coppia con il soggetto che fotografa. Poesia a due, ispirazione solidale, trance sociale.
[Immagine: Mario Dondero].