di Andrea Cortellessa
Sono tempi duri per il futuro. L’ultimo e testamentario libro di Zygmunt Bauman – il logoteta più fortunato della nostra epoca – conia un termine esemplare, Retrotopia, a designare un sentimento diffuso di «dietrofront»: un «cammino a ritroso, verso il passato», che il passato appunto identifica miticamente come paradossale terra promessa; come controveleno nei confronti dei «danni che il futuro ha prodotto ogni qual volta si è fatto presente». Una negazione perentoria dell’Utopia, insomma, è quella che capovolge l’immagine, tanto splendida quanto logorata dall’uso, dell’Angelo della Storia di Walter Benjamin. Se quello volava verso il futuro con gli occhi rivolti alle proprie spalle, fissi sulle «rovine» accumulate dallo slancio distruttivo di un’umanità magnetizzata dal «progresso», oggi – sostiene il sociologo polacco – quello stesso sguardo orripilato lo rivolgiamo verso le immagini del futuro che già tanto ci illusero, e che tante rovine hanno prodotto, mentre sempre più irreparabilmente ci affrettiamo verso il passato.
Ma l’ideologico discredito in cui è tenuta l’Utopia non è una novità del nostro tempo («tempinuovi» si chiama, con un quanto di paradossalità, la collana laterziana che propone quest’ultimo testo di Bauman). A riprendere in mano un classico come la Storia dell’utopia di Lewis Mumford, ora ristampato da Feltrinelli, ci si rende conto che già nel 1922, alle grandi immagini del futuro (a partire da quella per antonomasia di Thomas More, 1516), non si poteva che gettare uno sguardo retrospettivo. La catastrofe della Grande Guerra, all’indomani della quale scriveva questo suo primo testo il futuro grande urbanista e sociologo americano, sodale di Frank Lloyd Wright, proiettava già un’ombra sostanziale sull’«entusiasmo del grande XIX secolo». Così, quarant’anni dopo, annotava lo stesso Mumford: riflettendo sulle catastrofi dei totalitarismi “utopistici” che di lì a poco avrebbero messo a ferro e fuoco la vecchia Europa, scrivendo dall’«equilibrio del terrore» nucleare che a quelle catastrofi era seguito. Eppure oggi, che siamo reduci da un trentennio abbondante di annichilente TINA (come ai tempi di Margaret Thatcher si designò il “realismo” socio-economico per cui «There Is No Alternative»), insorge un nuovo desiderio di utopia – per parafrasare il titolo italiano di uno splendido libro di Fredric Jameson, Archaeologies of the future, purtroppo solo in parte tradotto da Feltrinelli – che, per paradosso eloquente, non può che ripercorrere i sentieri interrotti dei futuri sognati dal nostro passato più o meno recente. Anche il «ritorno al futuro», dice Bauman, è parte del nostro tempo «retrotopico»; e già il Mumford degli anni Sessanta riconosceva che «il passato è origine di utopie come lo è il futuro».
La prima volta che sono stato in Brasile, lo scorso settembre, è stato in occasione di un convegno sulle Contemporaneità italiane. A idearlo Patricia Peterle e Andrea Santurbano, i traduttori brasiliani di Giorgio Agamben. Quel plurale s’ispira infatti a un piccolo classico, la conferenza appunto di Agamben Che cos’è il contemporaneo?, pubblicata dieci anni fa da nottetempo: «appartiene veramente al suo tempo, è veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente con esso»: «proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo». Con-temporanea, insomma, è la condizione nella quale coesistono, facendo magari scintille, diverse prospettive temporali. Perciò quel poco tempo a mia disposizione, in Brasile, ho pensato di dedicarlo a due luoghi-simbolo della con-temporaneità, due icone dell’epopea modernista. Segnatempo di un futuro ciclopicamente incompiuto che per noi oggi è archeologia, certo, e tuttavia resta infinitamente potenziale.
È con un sentimento ambivalente che si va a visitare le vestigia, archeologiche e tuttora futuribili, di una delle poche Utopie Realizzate che non siano crollate insieme al secolo che le ha prodotte. Parlo della grande architettura modernista: una disciplina, per molti che l’hanno interpretata quasi una religione laica, che ha saputo sognare il Futuro, come era ancora lecito fare a quei tempi; ma che quel Futuro, sia pure a chiazze, ha saputo costruirlo davvero. Cattedrali nel deserto, come si dice. Ma almeno in un caso l’Utopia ha compiuto se stessa, se è vero che uno dei suoi caratteri precipui (secondo Mumford) è l’assolutismo, tendenzialmente «dittatoriale», col quale concepisce la società «come un tutto unico». Per essere davvero se stessa l’Utopia, in termini architettonici, deve partire da zero; e come uno zero negare tutto quanto la ecceda: escludere ogni possibile alternativa.
Un luogo siffatto sul pianeta Terra c’è, e il suo nome è Brasilia. Un luogo che oggi esiste davvero, ma che fu il sogno di un individuo (Don Bosco, che nel 1883 descrisse una città futuribile dai «frutti giganteschi»: collocandola quasi esattamente dove più di settant’anni dopo verrà in effetti costruita), il sogno di un altro individuo (il presidente Juscelino Kubitschek, che a metà anni Cinquanta volle dar seguito a un articolo della Costituzione brasiliana sempre disatteso, per il quale Rio de Janeiro era capitale solo provvisoria), il sogno di artefici sempre più concreti (l’urbanista Lúcio Costa, l’architetto Oscar Niemeyer, il landscape designer Roberto Burle Marx). E la traumatica realtà delle decine di migliaia di poverissimi lavoratori – deportati in massa dai propri luoghi d’origine – che, nel tempo record di 41 mesi (e al prezzo di centinaia di vittime sul lavoro), fecero sì che quel sogno divenisse realtà, anche per tutti gli altri brasiliani: quando il 21 aprile (come Roma) del 1960 Brasilia venne inaugurata.
Ho sempre saputo che, alla prima occasione in cui avessi potuto visitare il paese di cui questa città è capitale, una tappa le sarebbe stata riservata. La mattina dell’unico giorno a mia disposizione a Brasilia, contemplo lo skyline australe. Dal venticinquesimo piano del mio albergo (tutti gli alberghi a Brasilia sono concentrati in un quartiere “monografico” detto «Supersquadra», per il suo ordinamento ortogonale e le sue proporzioni ciclopiche: come i luoghi d’intrattenimento, gli spazi commerciali eccetera) mi pare che, al vertice Est della città (la “cabina di pilotaggio” dell’immenso aeroplano stilizzato dal piano urbanistico di Costa), il trionfo modernista dell’Esplanada dos Ministérios sia facilmente raggiungibile a piedi. Poi per fortuna mi rendo conto che l’Eixo Monumental – la vera e propria autostrada a sei corsie che fa da corso principale della città – misura almeno cinque chilometri. Perché tutto è sovradimensionato, a Brasilia: davvero una città per «giganti» (come – tutto è relativo – deprecava Roma, al suo arrivo nel 1822, Giacomo Leopardi scrivendo alla sorella Paolina). Vengono offerte escursioni di gruppo in pullman, ma la cosa migliore è egemonizzare un taxi (assai conveniente, per tasche europee) e prendersi i propri tempi. Non si può evitare di fermarsi, a tratti, e riflettere su quanto si è appena visto. Più o meno prolungate isole-memento punteggiano la corsa fra i grattacieli parallelepipedi, la metafisica Grande Scodella all’ombra delle torri gemelle (bicameralismo anche architettonicamente perfetto) del Congresso Nacional, l’euforica efflorescenza di cemento della Catedral Metropolitana, il magnifico giardino acquatico del Palácio do Itamaraty (dove ha sede il Ministero degli Esteri). Ma in giornata, volendo, l’esperienza-Brasilia si fa.
Una pausa più lunga va fatta una volta arrivati in fondo all’Eixo Monumental, sulla Praça dos Trés Poderes dove sono concentrati gli edifici-simbolo, appunto, dell’Esecutivo, del Giudiziario e del Legislativo (la “Scodella” – la cui superficie convessa simboleggia l’apertura del Parlamento a tutte le idee politiche). I primi due s’incarnano negli edifici più squisitamente Niemeyeriani, il Palácio do Planalto sede della Presidenza della Repubblica (e solo la domenica visitabile all’interno; gli altri giorni ci si deve accontentare del cambio della guardia: quando la banda militare, per i turisti assiepati coi cellulari spianati, intona Aquarela do Brasil – composta dall’autoctono Ary Barroso, ma dai gringos imposta quale tormentone internazionale: un po’ come se al Quirinale intonassero, nelle occasioni più solenni, O sole mio…) e il Palácio da Justiça, che imperfettamente si specchiano ai due estremi della Praça. Tutto è Simbolo, a Brasilia: e il vuoto sgomentevole fra queste due quinte – così eleganti, nella loro aerea leggerezza di archi linee e specchi d’acqua – immagino alluda al “gioco”, che dev’essere tenuto il più possibile aperto, fra i due Poteri chiamati a vegliare l’uno sull’altro.
In mezzo a questo Vuoto spiccano due presenze. Una è l’Espaço Cultural Lúcio Costa, dove si racconta in toni epici il Sogno e la sua Realizzazione (senza sottacere, va detto, il sacrificio dei peões che l’hanno consentita – i cui discendenti oggi sono forclusi nelle, assai poco eleganti-moderniste, città-satellite a raggiera attorno alla Capitale); l’altra è il monumento ai Candangos (appunto gli edili del ’56-60), opera dello scultore Bruno Giorgi. Due figure asessuate e filiformi, dalla testa minuscola e i lunghi arti stilizzati che reggono gli strumenti del loro lavoro. Percorro col fiatone i ripidi gradini della scala verso il Nulla che sovrasta, al limite estremo della Praça, il Paneão da Pátria e da Libertade; in cima dovrebbe ardere una quanto mai simbolica Fiamma Perenne che però, ancor più simbolicamente, è spenta da un pezzo. Gli scalini i corrimani la ringhiera quasi si sbriciolano di ruggine. Osservo il Vuoto Esilarante ai miei piedi, lo skyline a rovescio un po’ appannato dal declinare dolce della luce pomeridiana, i due Candangos a loro volta piuttosto lisi in mezzo alla Praça. E finalmente capisco cosa mi ricorda tutto questo, cosa mi ha attirato fino a qui.
Lo scenario di Brasilia è quello della Vecchia Fantascienza anni Quaranta-Cinquanta: quello che figurava, da noi, sulle copertine dei primi fascicoli di «Urania» (la collana iniziata giusto nel ’52). Niemeyer e Costa hanno preso la dottrina di Le Corbusier (sintomatica l’idea-guida dell’Aeroplano, vera ossessione dell’archimandrita dell’architettura modernista) e l’hanno adattata a un immaginario popolare (ancorché non ancora Pop). Quella che si contempla, qui, è l’immagine esatta e struggente di un Futuro che non è mai stato, ma al quale un grande Paese s’è simbolicamente improntato. Non è un caso che suoni ORDEM E PROGRESSO il motto, preso dai miti positivisti del «grande XIX secolo», che campeggia con fierezza dalla bandiera del Brasile. Qui oggi, come tante volte in passato, la situazione politica è confusa; minacciosamente tale, forse; non più che altrove, del resto. Eppure questo luogo, con le sue contraddizioni e le sue incompiutezze, testimonia tuttora della paradossale vitalità della «forma utopica» che, come scrive Jameson, resta il segno della «differenza» e dell’«alterità radicale». Siamo davvero all’Altro Emisfero. Ma è da qui, forse, che tocca ripartire.
Un altro luogo esemplare – meno insediato nell’immaginario collettivo, ma ancora più eloquente – è il Museu de Arte de São Paulo, per tutti il MASP. Sorge lungo l’Avenida Paulista, la Fifth Avenue della megalopoli brasiliana: che dagli anni Cinquanta è la vetrina mondiale dell’economia, e dunque anche dell’architettura, di questo Paese. Un grande parallelepipedo di vetro, un’immensa palafitta trasparente sopraelevata di otto metri sull’asse stradale, sostenuta da aerei piloni e, ai vertici, da quattro possenti bastioni di cemento rosso squillante. La mattina della mia visita m’imbatto pure nel mercatino d’antiquariato che ogni domenica si tiene sotto la grande palafitta di vetro. Per la verità il “mercatino”, come tutto ciò che è brasiliano, è sterminato. A colpirmi è la quantità di orologi di tutte le epoche: il vetro appena opacizzato dal tempo, di quelle migliaia di quadranti, è davvero un manifesto della con-temporaneità.
E tale, appunto, è il Museo. Cinema e auditorium, un ristorante, una magnifica biblioteca; il Museo vero e proprio, dell’edificio, occupa un solo piano. Cioè l’unica, grande sala che, quando si esce dall’ascensore, lascia senza fiato. Non sono mai stato a Xi’an, dove nel 1974 vennero scoperte le seimila statue dell’esercito di terracotta che vegliano, da due secoli prima di Cristo, sul sepolcro del primo Imperatore della Cina, Qin Shi Huang; ma a quell’impressionante stuolo d’Oriente mi fa pensare, all’altro capo del mondo, la bellezza d’Occidente che si mostra sgomentevole, dice il Cantico dei Cantici, «tremenda come un esercito a bandiere spiegate». L’idea, semplice quanto sconvolgente, è che l’arte sia un tutto unico. Niente sale e gallerie, niente quadri alle pareti: per la buona ragione che di pareti, qui, non ce ne sono. In questo luccicante teatro della memoria, in questo mare trasparente di diecimila metri quadrati, le immagini sono visibili tutte insieme: poggiate su pannelli di perspex in modo che, “attraverso” La tentazione di Sant’Antonio di Bosch si possa intravedere, qualche fila dietro, il Ritratto del Conte-Duca di Olivares di Velázquez, dal cicisbeo alla spinetta di Chardin traspaia lo studente attonito di Van Gogh, dietro alla Resurrezione di Raffaello occhieggi la gita sognante di En canot sur l’Epte di Monet e giù, in fondo, passando per i grandi Modigliani e il Ritratto di Suzanne Bloch di Picasso. Non si pensi a qualche alzata d’ingegni postmoderna: la cronologia è chiara, i dati storici (inclusa la provenienza di ciascuna opera: che – data la storia romanzesca di come s’è formato, questo museo – è spesso molto interessante) puntualmente consultabili sul retro di ciascun pannello. Eppure quello che propone il MASP è il sogno della vita in blocco. La Casa di Vetro di un mondo senza frontiere né limiti.
Proprio Musées hors des limites s’intitolava, nel 1951, il “manifesto” del visionario ideatore di questo luogo, Pietro Maria Bardi. Era arrivato in Brasile appena cinque anni prima, ma grazie al potentissimo Francisco de Assis Chateaubriand Bandeira de Melo detto «Chatô», maggiore imprenditore mediatico del paese, in poco più d’un anno il suo Museo (provvisoriamente collocato nella sede dei «Diarios Associados», la catena di giornali di Chatô) era già una realtà. A redigere schede e cataloghi, Bardi – come ha ricostruito con puntualità Aldo Tagliaferri – chiama un altro al quale l’Italia (anzi l’Ytalia, come la bollava) è andata sempre stretta, Emilio Villa: il poeta più con-temporaneo del nostro Novecento. In quello che chiama «antimuseo», Bardi vuole che l’arte figuri «come germe vivo, non come reliquia»: «un museo scuola di vita», che da un lato restituisca all’arte la sua «unità» e dall’altro mostri al «popolo», quelle che sono le «premesse della sua vita», in modo che «ne tragga energia vitale, utile per il futuro». La trasparenza, idée fixe di Bardi, veniva da lontano. Come lui, del resto.
La biografia di Bardi l’ha raccontata Francesco Tentori, e si legge davvero come un romanzo. Nato com’è nel 1900 e morto nel 1999, è anzi un apologo in cui si concentrano tutte le esaltazioni, e tutte le ambiguità, del secolo più con-temporaneo di sempre. Abbandonata all’indomani della Grande Guerra la carriera d’avvocato a La Spezia, si getta nel giornalismo più barricadero; prima irride la Marcia su Roma, poi – sempre attento al “capitale relazionale”, dopo incontri chiave con Margherita Sarfatti, Massimo Bontempelli e Giuseppe Bottai – balza sul carro del vincitore. È convinto che proprio il Fascismo sarà il volano decisivo per imporre all’Italia, finalmente, quello che è il suo feticcio: la Modernità. Come gallerista (ben finanziato dal regime) non ama l’arte astratta; ma si fa aggressivo portabandiera dell’architettura razionalista. Amico personale di Le Corbusier, visita nel ’33 l’URSS (ne torna con un reportage brillante intitolato Un fascista al paese dei Soviet); nell’astro nascente di Giuseppe Terragni vede il corrispondente di quelle meraviglie: la Casa del Fascio di Como, nel ’36, è per lui la Casa di Vetro del regime, «la conquista dell’aria e della luce».
Ma quello che pareva l’apice del «modernismo reazionario» (nella definizione di Jeffrey Herf) si rivelò, invece, l’inizio della sua fine. Nella seconda metà del decennio, d’intesa col Nazismo e l’Entartete Kunst, sempre più prevalgono gli indirizzi monumentali che Bardi aborrisce. La sua per il vetro diventa un’autentica ossessione (fra il ’38 e il ’43, ridotto ormai ai margini della vita culturale – Telesio Interlandi, l’artefice della «Difesa della razza» per il quale all’inizio ha avuto colpevole indulgenza, ha bollato la sua magnifica rivista d’architettura, «Quadrante», come un «focolare ebraico» –, impagina personalmente una patinatissima rivista che si chiama proprio «il vetro»). E dopo il crollo del regime le cose, per uno col suo curriculum, si mettono se possibile anche peggio. Ha messo su una nuova galleria, a Roma, con giovani di bottega come Federico Zeri e Bruno Zevi, ma non vede un futuro per sé in Italia. Quello che più lo disgusta sono i nuovi organigrammi culturali, tutti composti da ex fascisti che conosce benissimo. Ha incontrato una donna di genio, Achillina detta Lina Bo, un’allieva di Gio Ponti che nel ’44 condirige «Domus» ed è membro di una cellula clandestina del PCI (fino alla fine sarà un’ammiratrice di Stalin); la sposa e decide di prendere armi e bagagli (cioè libri e quadri: tocca noleggiare un cargo per intero) e andarsene di là dall’Oceano.
Qui rimarrà sino alla fine, uomo per tutte le stagioni della cultura brasiliana. Quando nell’ottobre del ’68 finalmente si concludono i lavori della nuova sede del MASP (che sorge in luogo del demolito Trianon, il palazzo dei congressi per decenni centro della vita politica paulista), a inaugurarlo riesce ad avere Elisabetta d’Inghilterra (amica di Chateaubriand, a suo tempo ambasciatore a Londra che non fa in tempo a vedere l’inaugurazione: muore poche settimane prima); così riesce a dribblare i militari che hanno preso il potere quattro anni prima. Il progetto del Museo (che si richiama alla lontana a uno dei pochi progetti architettonici tratteggiati in prima persona da Bardi, pubblicato nel ’35 su «Quadrante») è di Lina, che qualche anno prima ha realizzato un altro capolavoro modernista, la residenza di famiglia a Morumbí: un puro cristallo sospeso sopra la foresta tropicale sulle colline sopra São Paulo. Appena sbarcata a Rio, Lina è rimasta impressionata dal nuovo Ministerio da Educação e Saude di Lúcio Costa e Oscar Niemeyer (i futuri demiurghi di Brasilia), che le è parso «un grande vascello stagliato contro il cielo, il primo messaggio di pace dopo il diluvio della guerra». Oggi Lina Bo Bardi, morta nel ’92, viene studiata come archetipo del modernismo al femminile, un’archistar avant la lettre (nel 2014 il Deutsches Architektur Zentrum di Berlino le ha dedicato una grande retrospettiva; nel 2017 è uscita da Franco Angeli una ricca raccolta di materiali biografici e saggi sulla sua opera, curata da Alessandra Criconia): che, decenni prima di Frank Gehry e Zaha Hadid, ha concepito il Museo come un’Opera in sé (ma, a differenza di tanti episodi più recenti, perfettamente coerente col suo contenuto).
Bardi era più sedotto dalla metafora “aeronautica” di Le Corbusier, ma quel grande vascello apparso come in sogno a Lina – quando s’è resa conto che, in quel paese dov’era finita un po’ per caso, davvero «tutto era possibile» – fa pensare a un’altra epopea: quella del Fitzcarraldo di Werner Herzog, il visionario che sposta le montagne per portare Caruso a cantare al centro dell’Amazzonia. Quello che stiamo rievocando è stato un tempo folle; generoso quanto tragico. E ci pare lontano, oggi, molto più d’un secolo. Di tragedie ne conosciamo ancora, le follie all’umanità non verranno mai a mancare. E la generosità? Meglio cambiare discorso.
Nota bibliografica
Fredric Jameson, Il desiderio chiamato Utopia [2005], traduzione di Giancarlo Carlotti, Feltrinelli 2007; Zygmunt Bauman, Retrotopia, traduzione di Marco Cupellaro, Laterza 2017, pp. 181, € 15; Lewis Mumford, Storia dell’utopia [1922], traduzione di Roberto D’Agostino, introduzione di Franco Crespi, Feltrinelli 2017, pp. 227, € 10; Giacomo Leopardi, Questa città che non finisce mai. Lettere da Roma, 1822-32, con un saggio di Emanuele Trevi, UTET 2014; Giorgio Agamben, Che cos’è il contemporaneo?, notettempo 2008; Francesco Tentori, P.M. Bardi. Con le cronache artistiche de «L’Ambrosiano» 1930-1933, Mazzotta 1990; Id., Pietro Maria Bardi: primo attore del razionalismo, Testo & Immagine 2002; Aldo Tagliaferri, Il clandestino. Vita e opere di Emilio Villa [2005], seconda edizione accresciuta, Mimesis 2016; Jeffrey Herf, Il modernismo reazionario. Tecnologia, cultura e politica nella Germania di Weimar e del Terzo Reich [1984], il Mulino 1986; Lina Bo Bardi. Un’architettura tra Italia e Brasile, a cura di Alessandra Criconia, Franco Angeli 2017, pp. 332, € 37; Werner Herzog, Fitzcarraldo [1982], traduzione di Bruno e Claudio Groff, Guanda 2018, pp. 132, € 14; Id., La conquista dell’inutile [2004], traduzione di Monica Pesetti e Anna Ruchat, Mondadori 2007.
[Questo articolo è uscito ridotto e diviso in due parti sul «Sole 24 ore» il 3 dicembre 2017 e il 20 maggio 2018].
[Immagine: Brasilia].
Veramente suggestivo: futuro=passato? (la collana Urania, grandiosa) fantascienza modernista.
“ 25 febbraio 1992 – Vedo che accende / la sigaretta la piccoletta / dagli occhi accesi / che va di fretta / che va con ardore / nello specchietto retrovisore. “.
“ 11 luglio 1984 – Vedendo in tv un film degli anni Cinquanta la mamma crede di riconoscere in un attore Gerard Depardieu, che invece a quell’epoca portava ancora i calzoni corti. Ne deduco la retroattività del cinema. “.
“ Venerdì 14 agosto 1998 – Fa piacere apprendere che la storia del nuovo film di fantascienza americano Lost in space si svolge nel 2058. Almeno, si pensa, in questo immenso casino, qualcuno che ha le idee chiare ancora c’è. “.
“ Martedì 18 giugno 1996 – Le donne sono belle. Lo penso sempre e l’ho pensato anche qualche minuto fa quando l’ho quasi abbracciata – involontariamente -, entrando in ascensore (lei usciva). Sono belle e visibili. E io voglio credere a quello che vedo. Io che, inutile fingere, donna non sono. (Quando ero ragazzo andavo spesso ai musei. A quei tempi non c’era nessuno, solo qualche turista silenzioso, per lo più tedesco. Nei musei il silenzio è più forte che altrove. Forse perché dai muri ti guardano tante figure di uomini, di donne, di animali, meravigliosamente vestite, o meravigliosamente nude, colorate, brillanti, ma che non parlano. È strano il modo di non parlare dei quadri. Guardandoli, avvolti nel loro silenzio, implacabilmente zitti, viene voglia di tacere anche noi, come se il tacere fosse un modo di parlare, di dire, più forte, più vero di quello delle parole. Che spesso sono troppe, inutili, rumorose. C’è una verità nei quadri che può fare arrossire. Il quadro inoltre ti manda a dire che, in ogni caso, lui non può parlare, non può e, in ogni caso, non vuole. C’è una modestia insostenibile, nei quadri. Oppure è qualcosa d’altro. Un’obiezione. Capitale. Un partito preso. Un’irriducibilità. Una severità. Imbarazzante. Forse per tutto ciò, io, passando di sala in sala, soffermandomi di fronte alle tele sempre meno di quanto avrei voluto – capivo che a restare ancora avrei visto qualcosa che non avevo ancora notato, sarei « entrato » ancora più a fondo in mezzo a quelle linee, a quei colori così belli, così potenti, ed era per questo che, ogni volta, passavo oltre, perché, dopotutto, io di quelle superfici così profonde, di quel « dentro » così abissale, avevo paura – cercavo di scrivere qualcosa che stava fra l’appunto e la recensione, una traduzione, dal mio punto di vista, nel mio « al di qua », di quanto continuava a restare in un « al di là » radicale, intraducibile, inattingibile. Perché io, lo sapevo allora e lo penso anche oggi, non sarei mai stato capace di tacere così perfettamente, irresistibilmente, come quelle entità sovrumane, che delle cose avevano l’evidenza assoluta, l’austerità, la sapienza. Parlare, scrivere, da quel punto di vista sembrava sempre qualcosa di troppo, di perfettamente inutile, di buffo, di vile. O di straziante, come il pianto di un bimbo. Se fossi rimasto là dentro avrei finito per tacere anche io, mi sarei fatto di pietra, coinvolto in quel micidiale silenzio. Poi uscivo e mi trovavo in strada. Sentivo i motori, i piccioni, le voci dei passanti. Il suono della vita. Mi vergognavo un po’ di essere uscito, mi sentivo vigliacco, e troppo, troppo umano. La vita mi riprendeva, così superflua, buffa e micidiale com’è) (A che serve scrivere? Se si tratta di emettere dei suoni – spaventati, ridicoli – in vista di qualcosa che non si capisce, qualcosa di tremendamente bello, grande, vistoso, forse feroce, come bestiole impaurite e stupide. Se è soltanto chiamare, nella perfetta solitudine, nel prevalente deserto, qualcuno che non c’è e che non si sa nemmeno chi sia. Se si tratta di essere sempre quello che piange, frigna, mugola, strepita. Se è così allora temo che serva a poco. Per servire bisognerebbe che fosse notte, quando tutti dormono, quando le voci si sentono, quando l’usignolo canta, d’estate, nel morbido buio, nell’aria serena, come in un sogno già sognato) (Vedevo la gente con la faccia verde, come a un concerto punk, vedevo gli omìni piccini piccini, come da un areoplano. E città sconosciute, strane, che tuttavia mi sembrava di riconoscere, che avevano un ché di familiare, come se le avessi già viste, o forse sognate. Vedevo facce, corpi, occhi di tizi che erano tutti morti, da tanto tempo, e che però, pur essendo morti, si vedevano ancora. Forse, pensavo, è questa la ragione del silenzio della pittura, è il silenzio di chi non c’è più, ma vuole esserci ancora, come un’apparizione, come un fantasma, come un ricordo. Allora da quelle guance verdi, da quei corpi fatti minuscoli dalla distanza, mi sembrava che venisse un immenso richiamo, che quelle figure di sconosciuti scomparsi parlassero forte e chiaro, in una lingua teneramente vicina, come amici, come parenti. Che non si deve dimenticare. Che erano stati lì dove ora ero io, sapendo di doversene andare, lasciando una prematura traccia di sé, un segno della loro presenza. Io, che ora c’ero, pensavo che avrei dovuto subire con più pazienza, con più attenzione, quel discorso dell’oltretomba, anche se, dopotutto, mi risultava penoso. Anche se, dopotutto, sapevo benissimo che quelli che le avevano dipinte, quelle figure, quelle immagini, erano, quando le dipingevano, parecchio vivi, forse più vivi di me che ora le guardavo. Capivo già, e poi avrei sempre più capito, che, in un certo senso, era tutto uno scherzo, di Carnevale, di commedia, di gente che si dipinge la faccia, per farsi vedere, per fare ridere. Come gli illusionisti, come gli attori, come i bambini, che pensano sempre di dover piacere a qualcuno. Come le donne, che sono sempre grandi e sono sempre piccole, incerte sul da farsi, almeno quanto noi) (Che vanno, vengono, soprattutto vanno, scappano, tornano, piangono, ridono, si truccano, si vestono, si spogliano, ma soprattutto restano. Come quei quadri, in quei musei, un po’ meno silenziosi di prima, con i turisti, un po’ più giapponesi di prima, allineati, appesi alle pareti, gli uomini immobili in un passo di marcia, il santo inchiodato in volo, le fanciulle paralizzate nella danza, la barca eternamente grigia davanti al castello. Per sempre) (Forever, come direbbe quello dei Simply Red) “.
“ 26 aprile 1994 – Il brutto del sorpasso è che poi non vedi più chi hai dietro. Sorpassare può essere fatale, come dimostrano i tanti morti sulle strade causati da sorpassi. Anche l’unico incidente automobilistico che ho avuto, fu causato da un sorpasso: avevo davanti la macchinetta di una famigliola in gita domenicale e io, che a quei tempi andavo di fretta, ingranai la terza e, profittando della curva, la sorpassai. Ma tanto fu lo slancio della sgassata, tanto insipiente ero io come pilota, che, alla curva che, in senso opposto, seguiva quella che avevo appena superato, volai fuori strada. Dire volai è esatto. Ricordo bene la smisurata frazione di tempo in cui capii di essere sospeso per aria, nell’auto diventata proiettile, aereo, deltaplano. Finché atterrai, nel frastuono delle lamiere sconvolte, in mezzo a un campo arato di fresco, e, nell’improvviso enorme silenzio, udii il canto, umoristico, di un uccellino. Il brutto del sorpasso è che c’è sempre qualcuno dietro che ti vede schizzare via, come in una seconda partenza, nella ripetizione di un addio. Fortuna che c’è lo specchietto retrovisore. “.
“ Venerdì 15 giugno 2001 – « E di vista / si perde il cuore / come dopo il sorpasso / l’altro nel retrovisore » (Franco Fortini, Autostrada del sole, 1961, in L’ospite ingrato, 1966) “.
“ Sabato 10 aprile 1999 – « Sei come un tubo di scappamento, una marmitta: stai sempre de retro a fa’ rumore » (Sentita a una radio locale di argomento sportivo) “.
“ Lunedì 1 febbraio 1999 – « È probabile che la predilezione brasiliana per l’ostentazione polposa della carne, le natiche in particolare, rientri più nel campo del commestibile che in quello sessuale. Per le società cannibali sono le parti più ghiotte, e lo sono rimaste per lo sguardo, più antropofago, forse, che lussurioso. » (Jean Baudrillard, Cool memories / Diari 1980-1990) “.