di Marisa Bulgheroni
[Queste pagine sono tratte da Chiamatemi Ismaele. Racconto della mia America (Il Saggiatore) di Marisa Bulgheroni]
Philip Roth ha usato instancabilmente la propria vita e il proprio stesso corpo come materia di invenzione romanzesca. Si è identificato nei suoi protagonisti con tale inesauribile energia da illudere i lettori più appassionati a credere che viventi siano le sue incarnazioni, e fittizio – e immortale come un dio – lui, l’autore. Se non fosse che tocca a lui, in persona, ricomparire nei media a ogni nuovo libro, a ogni Nobel negato: severo custode del genere romanzo di cui ha sempre contestato la tanto discussa morte.
Quando lo incontrai a New York, nella primavera 1959, Roth aveva ventisei anni: leggermente stempiato, gli occhi scuri e ardenti, un po’ scarno, assomigliava più al padre, per cui avrebbe scritto tanti anni dopo, nel 1991, la feroce elegia di Patrimonio , che a se stesso bambino, qual è ritratto sulla copertina del libro, con padre e fratello, in una foto di famiglia. O forse, nella vertigine del ricordo, sono io che lo vedo già marchiato dalla fatica di impersonare fisicamente da subito il romanzo americano, in un’impresa guerresca senza scampo. Di Addio Columbus , uscito allora, Saul Bellow aveva scritto: “E’ un’opera prima, ma non è il libro di un esordiente. Mentre alcuni di noi vengono al mondo ciechi, nudi e piangenti, Roth sembra già possedere l’arte della parola. A ventisei anni è brillante, sapiente, energico: un virtuoso.
Il giovane Roth, fiero di quel precoce successo, aveva desiderato conoscermi. Informato da un amico di Esquire che progettavo un libro sugli scrittori americani anni Cinquanta, mi aveva invitato a raggiungerlo nella redazione della rivista. E io, sul punto di ritornare in Italia, avevo colto senza esitare quell’ultima occasione. “Il cuore è un po’ profeta” dice un proverbio jiddish scelto da Roth come epigrafe per il suo esordio. In nessun altro momento, forse, l’avrei sorpreso nella solitudine di chi, toccato dalla fama, la vive come un’investitura.
“Il mio modello è Saul Bellow” mi disse quel giorno il giovane Roth con voce profonda e autorevole, con un’intonazione che lasciava intendere: “E mi consideri un suo rivale”. Per ardimento in materia di sesso aveva già superato il maestro. In Addio Columbus , Brenda Patimkin, la ragazza ebrea che la nuova ricchezza del padre aveva trasformato in “principessa americana” dal naso chirurgicamente perfetto, nasconde l’anticoncezionale d’epoca, il diaframma, in un cassetto della sua camera, dove la madre, guardiana dell’ortodossia sessuale, lo trova, e piange sulle rovine del suo cieco regno. Addio, allora, a un’America anni Cinquanta convinta di vivere una nuova età dell’oro, un’America di illusioni e ipocrisie consumistiche che gli incombenti anni Sessanta avrebbero presto smascherato. Addio al giovane amore di un’estate in cui Neil Klugman, il ragazzo di Newark povero e colto – il tipico eroe di Roth – ha creduto di riconoscere il proprio destino. Un’altra America si annunciava, di scontri generazionali, di conflitti etnici e sociali, in cui Il lamento di Portnoy, tanto più audace di Addio Columbus nel suo oltraggioso attacco a ogni forma di repressione, avrebbe confermato definitivamente il successo di Philip Roth.
Cominciava, allora, quel vorticoso gioco di specchi e rispecchiamenti tra autore e personaggi, tra pagina e vita vissuta, che ha sedotto i lettori di tutto il mondo e diviso i critici americani. Come catalogare una scrittura in apparenza autobiografica, e, a tratti, così clamorosamente fedele al vissuto che quel vissuto stesso sembrava un’invenzione, e la copia aveva il potere di alterare il vero? Partendo dal proprio corpo Philip Roth è riuscito negli anni a narrare il fascino e il terrore di essere vivi e mortali, il sesso e la malattia, il “massacro” della vecchiaia. Si è sdoppiato e moltiplicato fino a tramare altre vite e a svelare gli enigmi di altre identità. Quasi che la scrittura fosse per lui una magica cucitura che riparasse, a ogni ferita del vivere, quel corpo inconsumabile come la sua immaginazione.
“I recensori” diceva, quel mattino della primavera 1959, il giovane Roth “mi hanno riconosciuto il talento di saper cogliere nei particolari del costume il divenire della storia….Soltanto i più ortodossi tra i miei lettori ebrei sono risentiti con me….si credono attaccati, derisi, mentre…”
Avendo vissuto per qualche settimana a Coney Island, avevo conosciuto famiglie di immigrati ebrei tentati dal sogno di un benessere americano di divani fioriti e indeperibili fiori di plastica. Come i Patimkin di Addio Columbus , mi sembravano ansiosi di esorcizzare gli incubi del passato europeo e, dunque, esposti alle frecciate satiriche di un giovane scrittore di successo.
“A volte i miei lettori ebrei” avrebbe chiarito Roth in un saggio del 1960 “vedono la malizia dove io vedo energia, coraggio e spontaneità….In gioco è il loro orizzonte morale, non il mio…” E il tempo doveva dargli ragione. Dalla satira del Lamento di Portnoy all’epica della Pastorale americana all’elegia di Patrimonio, lo sguardo di Roth penetra più a fondo nel passato, ne illumina le zone buie quasi fosse una lampada da minatore. Le stagioni dell’infanzia e dell’adolescenza nella nativa Newark New Jersey, si trasformano nella materia di un mito; e la memoria delle radici ebraiche le attraversa, vivida, e pungente come filo spinato. Nell’ultimo romanzo, Nemesi (2010), la morte non aggredisce i vecchi, ma le vite “sconfinate” dei più giovani. Roth narra l’epidemia di poliomielite che si abbatte sulla Newark del 1944 come fosse una guerra che il fato cieco – o un Dio spietato – scatena contro i bambini della città. Una guerra parallela all’altra che si combatte in Normandia, ma più crudele nella selezione delle vittime, e insensata. Il quartiere ebraico con il suo campo giochi, luogo di iniziazione dei ragazzi alla “saga storica” della mascolinità, è svuotato, battuto, deserto. Solo la voce del romanziere conferisce immortalità di eroi agli oscuri caduti di quell’assalto senza perché.
Oggi il giovane Roth mi appare nel controluce straniante del lungo futuro che l’avrebbe avvicinato sempre più a se stesso e alla sua storia fino a strapparne, in Nemesi, risonanze estreme. Lo rivedo mentre mi saluta: alto, atletico, determinato, mi consegna quel futuro in una forte stretta di mano.
[Immagine: Philip Roth nel 1959]