di Franca Mancinelli
[E’ uscito da poco, per la collana A27 di Amos Edizioni, Libretto di transito di Franca Mancinelli. Ne pubblichiamo sette testi].
Con il tuo bene continui a tessere questo spazio, a portare dettagli e densità. Il tuo bene è un filo che si rigenera di continuo formando una ragnatela. Io sono avvolta lì, un po’ viva e un po’ morta. Ma se svolgessi il filo e tornassi a vedere, troveresti una croce sormontata da un cerchio. Così sottile e lieve, tracciata sulla polvere. Basterebbe un tuo soffio per liberarmi.
*
Ma tu porti argilla. Aggiungi altra argilla dell’inizio del mondo. Vai verso i luoghi rotti e vuoti. Sei chiamato dagli spazi caldi, un manovale sudato che sorride del suo lavoro che crolla.
Sorridi, ricomincia il tempo. Una tunica tiepida ti avvolge fino alle tempie, ti riporta in cucina, nella tinozza sul tavolo. Ti bagna i capelli, tra le mani grandi di tua madre.
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Mi porti in salvo come sollevando la parte più fragile di te. Resisti nel tumulto. Ed eccoti al varco, attraversato da scariche di luce chiara. Non hai più viso, sei fuori da ogni contorno. Soltanto luce chiara. Vorrei raccoglierti con le mani, contenerti mentre nasci, ma ti sprigioni: sei la corrente prima che non si può toccare.
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Eri scomparso sotto il lenzuolo. Muovevi le montagne. Franava la neve. Poi tutto era fermo. Prendevo un treno e tu silenzioso mi accompagnavi al fianco. Voltando la testa, oltre la linea di case, ti ritrovavo. «Credi che un nome possa avere luogo?»
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Nel tuo petto c’è una piccola faglia. Quando lo stringo o vi poso la testa c’è questo soffio d’aria. Ha l’umidità dei boschi e l’odore della terra. Le montagne vicine con i loro torrenti gelati. Da quando l’ho sentito non posso fare a meno di riconoscerlo. Anche quando, uno dopo l’altro, nella tua voce passano uccelli d’alta quota, segnando una rotta nel cielo limpido.
La faglia è in te, si allarga. Un soffio di freddo ti attraversa le costole e ti sta scomponendo. Non hai più un orecchio. Il tuo collo è svanito. Tra una spalla e l’altra si apre un buio popolato di fremiti, di richiami da ramo a ramo, su un pendio scosceso a dirotto, non attraversato da passi umani.
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I tuoi occhi potrebbero essere azzurri o neri. Il tuo nome potrebbe averlo chiunque. Mi è uscito dalle labbra una volta. Sono cose che capitano, e poi devo averti confuso. Ti ho stretto, sfaldavi come creta al sole. Ora riposa nella pace di chi è stato dimenticato.
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Ti chini verso una pozza di fango. Porti le mani sul viso e lo fai scuro. Resta l’incavo degli occhi. Dalla punta delle dita alle spalle ti accarezza la terra. Il bianco dei denti chiama le ossa sommerse. Un grande animale marino dorme sotto la sabbia. Il rito è quasi concluso.
[Immagine: Cesto, di Alice Padovani].