di Giulia Massini
Il paradosso post-apocalittico del Novecento.
Nella cosiddetta letteratura post-apocalittica del Novecento il paradosso è presentato già nel nome. Esso presuppone una testimonianza impossibile: almeno un uomo, o più uomini che assistano alla fine della propria specie[1]. L’assolutezza dell’apocalisse biblica, invece, non permetteva testimoni, se non in forma indiretta almeno, cioè attraverso visioni del futuro e rivelazioni, come quella di Giovanni. L’apocalisse di Giovanni è tale da porre fine al tempo cronologico, da riunire, in un solo respiro, passato, presente e futuro di questo mondo, e semmai trasferirli in un altro, in una Gerusalemme celeste e in un ambito di trascendenza, dove il Bene e il Male che fino a quel momento agivano nella storia trovano un posto stabile e duraturo nell’eterno. La visione di Giovanni non contempla alcun dopo sulla Terra; sta come un punto al termine di una linea. Stando ai versetti neotestamentari, anzi, l’apocalisse incarna proprio la speranza che il tempo storico abbia un termine: oltre il supplizio della vita, l’apocalisse garantisce il superamento dell’ingiusto, del mortale, dell’irrisolto e infatti quella giudaico-cristiana è un’idea ambivalente della “fine”, che oscilla tra il senso della “conclusione” e il senso dello “scopo”: la morte vi è messa in scena per attribuire un escaton alla vita[2]. Quella del Novecento, invece, è un’apocalisse che avrebbe il suo più preciso corrispettivo biblico nella vicenda di Noè e nel racconto del diluvio, dal momento che col tempo il termine “apocalisse” è passato a indicare eventi come disastri biologici, cataclismi naturali, esplosioni atomiche, epidemie. Ma sarebbe più corretto definire questa letteratura post-catastrofica, per meglio rendere la progressiva spoliazione di ogni tipo di speranza escatologica nel suo declinarsi, nonché di ogni divina azione cosmogonica che invece era alla base della vicenda diluviana.
Eppure il nome resiste, anzi, è saldamente ancorato alla sua intrinseca vocazione a esprimere un giudizio: termine, come sappiamo, da cui in greco discende la parola crisi, da krino, giudicare. Il senso della crisi è infatti il suo cardine: quando i terrificanti risvolti politici e tecnologici del secolo mettono fine all’idea di un mondo baciato dal progresso, dove avanzamento scientifico e democrazia, annunciando di voler migliorare il mondo, dimostrano invece di minacciarne la distruzione, l’uomo del Novecento realizza proprio quella testimonianza impossibile. Nel secolo scorso, infatti, l’uomo è stato testimone di ciò che era solo immaginabile fino all’avvento della globalizzazione, cioè fino a un allargamento di scala che coinvolge l’intero pianeta: ha visto generazioni falcidiate dalle guerre civili, ha assistito ai deliri inumani di ideologie irresponsabili, a progressi tecnologici potenzialmente letali per l’intero pianeta, e tutto in un breve e atroce volgere di decenni, e cioè tra 1914 e il 1991, stando alla cronologia di Hobsbawn, il quale non a caso parla di questa come dell’era dei grandi cataclismi[3]. La narrativa, sollecitata dagli eventi catastrofici del secolo, entra in una profonda e auto-critica culturale, che, come annota De Martino, medita sulla fine del mondo come ciò «che accadrà sicuramente all’Europa e agli europei se essi non prenderanno le necessarie misure e non faranno qualche cosa prima che sia troppo tardi. Guerra, terrore atomico, decolonizzazione, statolatria, burocrazia, pianificazione, cultura di massa, pubblicità»[4]; in altre parole, un serrato e crescente potenziale catastrofico.
Non è difficile immaginare perché il tema della fine del mondo sia tornato prepotentemente in auge durante la Guerra Fredda, come vedremo fornendo alcuni esempi, ma la corrente narrativa che si basava su questa immaginazione apocalittica spirava già dalla fine dell’Ottocento ed era ben rappresentata anche negli anni che precedono le guerre mondiali. Questo suo rifiorire ci fa pensare che lo stimolo alla narrazione apocalittica nel senso moderno del termine – come veicolo cioè di una domanda circa il destino ultimo della razza umana nel tempo “dopo” la distruzione delle proprie culture, delle proprie credenze, o addirittura del proprio pianeta – abbia a che fare con un altro dopo, ossia il tempo che segue la modernità, dominato dal capitalismo sempre più globalizzato. Ciò è particolarmente evidente in alcuni romanzi apocalittici che insinuano tra le pieghe di una narrazione avventurosa una preoccupazione politica, che riguarda il modo di organizzare la comunità dei sopravvissuti, un vero e proprio discorso sul futuro.
Autori come Barjavel in Diluvio di fuoco, Wyndham ne Il giorno dei trifidi, Ballard ne Il mondo sommerso, Saramago in Cecità, King ne L’ombra dello scorpione descrivono le possibili dinamiche sociali della comunità riunita dall’evento catastrofico adombrando nuovi rapporti di potere e rinnovate visioni culturali per un mondo a venire, che si spera rinnovabile, motivo per cui questo genere confina con un altro discorso sul futuro, quello dell’utopia, o meglio della distopia, dato il suo carattere il più delle volte pessimistico o tragico. Ma anche laddove la narrazione si concentra su aspetti più attinenti al destino del singolo individuo che alla storia della sua specie, o dove la narrazione coglie un “immediatamente dopo” in cui non c’è ancora spazio per riorganizzare, o un “eccessivamente dopo” nel quale del vecchio mondo non rimangono che ruderi da decifrare, i testi che si definiscono post-apocalittici dimostrano una chiara attitudine catartica, determinata a confrontarsi, di volta in volta con un piglio diverso, con le più incontrollabili paure del genere umano, con le sue ansie per il futuro di un mondo ormai libero dal fato, ma soggetto a nuovi rischi sempre più letali.
Il ritorno dal rimosso di paure che la scienza sembrava aver sconfitto è strettamente dipendente dall’accelerata evoluzione che la nostra storia ha vissuto nel secolo appena trascorso, dalla sua continua e compulsiva modernizzazione senza limiti, che mentre accelera non distoglie lo schianto dall’immaginazione. «L’interminabile serie di telegiornali dedicati alle esplosioni nucleari che vedemmo negli anni sessanta (una vera e propria istigazione all’immaginazione psicotica che autorizzava qualsiasi cosa)[5]», prelude alle ansie odierne del terrorismo, dei disastri ecologici, delle crisi economiche, e contribuisce alla creazione di un clima di «paura diffusa, sparsa, indistinta, libera, disancorata, fluttuante, priva di un indirizzo e di una causa chiari» che secondo Bauman diventa sinonimo di incertezza[6], ovvero di una psicopatologia penetrata profondamente nel sistema nervoso dell’uomo moderno dalle stesse strutture del suo mondo.
Alle fiamme! Apocalissi psicopatologiche in Shiel e Morselli.
«I primi segni del tema apocalittico appaiono nella seconda metà del secolo XIX con Burckhardt, Nietzsche e Dostoevskij»[7], scrive Ernesto De Martino, annotando come l’esperienza della fine del mondo contamini non soltanto la filosofia, la filosofia della storia, la teologia e la letteratura, ma tutti i campi del sapere, come la psicanalisi con la teoria dell’inconscio e la teorizzazione freudiana dell’istinto di morte, e il marxiano salto nel regno della libertà, e ancora il più generale relativismo culturale, i millenarismi dei popoli coloniali, il terrore atomico, la teoria dell’entropia, la relatività, il principio di indeterminazione, la crisi del principio di causalità elaborati a inizio secolo in campo scientifico. In un mondo ridotto alla morte e al nulla, emerge l’idea di Berdjaev di un Dio che ha fallito la sua missione mondana. Al contempo, l’individualismo nietzschiano confina pericolosamente con la sterilità e la solitudine e l’individuo stesso non può salvarsi nel socialismo di Marx, che lo avrebbe annullato nel sovrumano, né può bearsi della conquista della secolarizzazione. È un occidente al tramonto, come scrive Spengler, che nonostante la sua indefessa pulsione di trasformazione è capace soltanto di riciclare modelli culturali morti, copie insterilite di una civilizzazione che un tempo era viva cultura.
Il fin de siecle è denso di queste riflessioni; la sua idea incarnata di “transizione” è vicina alla fine di un mondo intesa anche come desiderio di profondo rinnovamento. Quando Matthew P. Shiel pubblica La nube purpurea (1901), è certamente da questa linfa apocalittica che trae il suo capolavoro. Data la natura del testo, questo romanzo potrebbe essere classificato come apocalisse psicopatologica, nel tipo individuato da De Martino: la rappresentazione dell’apocalisse come effetto nevrotico del protagonista, il cui crollo mentale investe tutta la percezione del mondo. È chiaro, infatti, che in un simile autore, estroso e solitario, dissetato da un filone fantastico ben distante dalla storia e dall’attualità, non è dato riscontrare una poetica interessata a raccontare la caduta e il desiderio di rinnovamento di un’epoca storica. Eppure, nonostante la sua distanza dalla storia – anzi la sua poetica di negazione della stessa – e la sua completa partecipazione al sogno e al perturbante, il romanzo di Shiel possiede tutta la forza distruttiva di un gusto furiosamente decadente, volenteroso di gettare alle fiamme la cultura da cui discende, i sentimenti borghesi che la innervano e i suoi simboli totemici. Il primo e più impellente esordio di questo inconscio distruttore è proprio il fuoco[8]: un rogo di tutti i simboli più evidenti della cultura occidentale, dalle città alle tecnologie, dalle tecniche alle arti, nel superbo stile d’un requiem barocco (scelta di registro che è anch’essa rifiuto del moderno).
Quando una nube venefica dal profumo di pesca e dal colore rosato si leva velocissima su tutta la terra, Adam Jeffson ha appena raggiunto il Polo Nord: è il primo esploratore a conquistare il luogo inviolato dall’uomo. Al momento di ridiscendere verso l’Inghilterra, però, scopre man mano d’essere il depositario di un destino irripetibile: la nube ha estinto la completezza del genere umano, lasciandolo signore e padrone del pianeta. «Il sapore dell’eternità» lo stordisce per un momento, ma Adam, privo di sensi di colpa per aver violato la conoscenza proibita, dimostra ben presto che la propria natura è piena di esaltazione per il vuoto che si è spalancato attorno e che permette al protagonista di bearsi dell’assenza dell’uomo, di cui egli non sente affatto la mancanza. Esplorando i luoghi della morte, Adam si documenta voyeuristicamente sulla catastrofe, leggendo le ultime testate stampate, convivendo con i cadaveri, vagando per le strade desolate, sotto le case spente e abbandonate, attraverso i campi gremiti di corpi, sperimentando in queste visioni il «senso del meraviglioso e del bello»[9]. Ma la contemplazione della fine non gli basta, vuole contribuire in prima persona a una così grandiosa distruzione. In una futuristica esaltazione di potenza, corre alla guida di treni sulle linee ferroviarie dell’Inghilterra, distruggendo binari e locomotive e rendendosi protagonista di incidenti spettacolari. Quando una sera cade dalla bicicletta a causa del dissesto delle strade di Londra, «l’Arci-uno», il superomistico «motivo del mondo», medita una vendetta pirotecnica contro gli elementi che intralciano il suo inarrestabile cammino: sempre più libero e spregiudicato, «per esplicitare vieppiù la sua solitudine, o forse per ridurre la storia e le sue concrezioni a spettacolo, Adam incendia con sistematica competenza Londra, Parigi, Calcutta, San Francisco e decine di altre città, e gli basta sognare che un solo sopravvissuto risieda a Pechino per precipitarsi colà con esplosivi e spolette»[10].
In questa onnipotenza patologica che mai nessun uomo prima aveva esplicitato in modo tanto grandioso, Adam non rinuncia a rivolgersi al suo Iddio, ma l’Iddio non risponde, indifferente egli stesso al destino della propria creazione, o semplicemente inesistente. Il vero Iddio di Adam, infatti, è Adam stesso, la sua religione è l’egotismo, l’individuo che si crede superiore alla storia che l’ha preceduto. Approdato in Cornovaglia, ci dà una prova lampante del suo sentimento di superiorità, laddove in un bungalow in riva al mare trova le spoglie del poeta Machen (probabilmente proprio l’amico gallese di Shiel, il sepolcrale scrittore Arthur Machen) chino sullo scrittoio, colto dalla morte mentre ancora stava lavorando, «nell’ostinazione di finire il suo poema»[11]. Adam sembra apprezzare moltissimo questa tenacia artistica, che considera la virtù dei migliori poeti. Eppure, nonostante si trattenga in quella casa tre settimane, non intraprende mai la lettura del poema, indifferente al fatto che si tratti probabilmente del testamento dell’uomo, l’ultimo atto di una cultura ormai millenaria che Adam consegna in tal modo all’oblio.
Che cosa è dunque questo strano oggetto letterario che apre il Novecento apocalittico? Dobbiamo credere di trovarci di fronte al frutto di uno spirito alienato, simile a quello del poeta Yates, il cui unico conforto contro un mondo ormai inaccettabile è rifugiarsi nel mito e nell’occulto? O al delirio superomistico dell’individualista che si bea di imprese «antiumanistiche»[12]? Frank Kermode scrive che il rischio più concreto delle finzioni è dimenticare che non sono vere e farle regredire al mito, o, peggio, alle ideologie irrazionali[13]. Questa teoria, applicata all’apocalisse, ha un rischio ben evidente, che coincide con la soluzione finale. Per scongiurarlo, Kermode ci spiega anche quale sia il senso dell’apocalittica che invece non dimentica d’essere finzione: un effetto chiarificatore, che proietta a ritroso sul contingente in crisi un senso ricavabile dall’elaborazione della sua stessa fine.
È quanto possiamo leggere in un racconto di Nathaniel Hawthorne. Anche nell’Olocausto della terra (1844) la trama ruota attorno a un grande rogo, dove il desiderio morale d’interrompere il ciclico ritorno del male nella storia è evidente. Vari personaggi, provenienti da ogni estrazione sociale, si riuniscono per gettare alle fiamme il «ciarpame» del mondo allo scopo di affidare al fuoco una selezione, un giudizio imparziale che incenerisca ciò che è male e purifichi, eleggendolo, ciò che è bene. Le distinzioni di rango, lo sfarzo dei poteri, i vizi dell’alcol, le armi delle guerre, la forca per la pena di morte, e altre malvagità hanno vita breve nel rogo, ma nell’orgia della distruzione il «Titano dell’innovazione» non è più contento di bruciare le cose marce e sta mettendo le mani proprio sui pilastri morali e spirituali dell’uomo, come la letteratura e la religione. Un losco figuro compare allora dalla folla nella quale era rimasto nascosto fino a quel punto: è il diavolo. Sogghigna, nel pieno di una profezia che sconfessa ogni desiderio di morte. Bruciare il vecchio non lascerà spazio al nuovo: il mondo non può cambiare, perché il cuore dell’uomo non si cambia. Da esso infatti sorgono le ingiustizie e la miseria ed esse potranno perire solo col perire dell’uomo.
Le personificazioni morali del Male e del Bene sono presenti anche ne La nube purpurea, benché esse appaiano qui piuttosto come entità di sogno, voci d’una coscienza schizofrenica, Poteri con la “P” maiuscola che si odiano a vicenda e che si contendono il libero arbitrio di Adam. Non proiettate nella storia e nemmeno ridotte a sostanze divine o spirituali, esse esistono piuttosto nella mitologia personale dell’autore, in cui non hanno una collocazione e un’identità ben definibile e non discendono da una giustizia divina. Tuttavia, la schizofrenica derealizzazione di Shiel, la sua narrazione di soglia fantastica, che corre tra la realtà e il soprannaturale, non ha in comune con l’apocalittica del Novecento solo i canovacci del genere, come le scorribande e le razzie per il mondo desolato e pieno di morte, ma uno degli elementi cardine di questa espressione narrativa, forse il suo senso profondo. Come altri racconti della fine che lo seguiranno, La nube purpurea è frutto di una paura che serpeggia nell’uomo moderno, ancora inafferrabile e quasi del tutto ineffabile, definibile soltanto al negativo: la paura del non umano.
«Il bianco e nero mistero dell’universo»[14], quell’alternanza di voci che si contendono l’anima di Adam, è un segreto che nulla ha a che vedere con la razionalità umana. La voce bianca e la voce nera non sono più divinità, ma incarnano una qualche forma di intelligenza soprannaturale ben più grande dell’intelletto umano, che minaccia il libero arbitrio di Adam. A dispetto della sua convinzione superomistica, per effetto della cospirazione di questi due poteri Adam non è che un burattino nelle loro mani. E a ben vedere è per il prevalere del consiglio di un Potere sull’altro (malvagio o benigno che sia) che Adam prende le decisioni atte a compiere proprio quelle azioni (compreso l’omicidio) che gli permettono di trovarsi esattamente nel punto più inviolato del pianeta, al Polo nord, nel momento in cui si emana la nube. L’estrema libertà di cui Adam gode in seguito alla catastrofe non è che un’illusione a progetto già compiuto. In essa non leggiamo, quindi, soltanto l’irrazionale e misantropica gioia di liberarsi del mondo, di dispiegare l’individuo in tutto il suo ego solipsistico, ma la sua intrinseca impotenza, il cedimento della sua capacità di azione sulla realtà, la vera natura terrificante di una decadenza inarrestabile.
Non a caso, un libro denso di scoramento nichilista e abbattimento culturale come Dissipatio H. G. di Guido Morselli, scritto sul finire degli anni Sessanta, si ispira chiaramente alla Nube purpurea, le cui analogie con Dissipatio sono state messe in luce da Michele Mari[15]. Morselli, scrittore che vive una netta separazione dal mondo intellettuale del suo tempo, scrive da una specola di margine e psicopatologia simile a quella di Shiel. Non doveva essergli passata inosservata la prima pubblicazione italiana della Nube purpurea (1967) ed è lecito supporre che Morselli pensasse a Shiel ideando un romanzo nel quale si prospetta la sparizione improvvisa di tutta la razza umana con l’unica eccezione dell’io narrante (“H” e “G” stanno per humani generis). Tutti gli atteggiamenti tipici del sopravvissuto sono presenti e, come tali, saranno da considerarsi tipici del genere. L’ossessivo vagare, l’utilizzo di ogni veicolo a disposizione, il saccheggio delle case, degli oggetti, delle vesti, dei cadaveri, si verificano anche in Morselli, con l’evidente ricalco della furia «iconoclasta» che Michele Mari attribuisce a Shiel. Anche il personaggio di Morselli è rapito da una furia simile e assistiamo, anche in questo romanzo, al rogo simbolico delle città simbolo della cultura europea come Parigi, Londra, Zurigo, o Crisopoli, invenzione urbanistica che le riassume tutte, in quanto città di banche e di chiese, la quale – nomen omen – porta il giudizio nel nome.
Il motivo che spinge il sopravvissuto di Dissipatio ad agire con tanta furia sembra in apparenza politico, frutto di un’indignazione civile. «Io non amo Crisopoli – scrive – anzi non la posso soffrire. In lei ho scorto il mio antitipo, l’affermazione trionfale di tutto ciò che io rifiuto, l’ho eletta a centro della mia detestazione del mondo; un caput-mundi al negativo. La mia “fuga saeculi” è stata, già allora, fuga da questa precisa localizzazione del “secolo”»[16]. Dissipatio è innanzitutto una critica alla società borghese, alla sua opulenza, alla sua vanesia inconsistenza. L’amara ironia con cui il narratore trova migliorato il mondo una volta libero dalla razza umana è significativa, ma un episodio particolare è illuminante: il monumento funebre che erige ai dispositivi del consumismo (composto di auto, televisori e cartelloni pubblicitari) lascia il campo a quel trionfo di una vitalità non umana che il narratore va cogliendo per le strade, spiando il fiorire dei tulipani, il brulicare di gatti e corvi, che continuano a vivere a dispetto della storia. Eppure il suo feroce lamento contro la città dei mercanti, che sgorga senza dubbio da un autentico odio per il capitalismo, non fa però che dispiegarsi in una flâunerie tra le rovine, la cui bellezza estetica Morselli eredita dalla letteratura decadente e diventa, dunque, più simile a un’impasse che al desiderio di distruggere il male del mondo. Nessuna palpitante utopia corrisponde all’indignazione politica, nessun discorso costruttivo del futuro, nessuna speranza, nessun escaton e nessuna Eva (quella che invece toccherà ad Adam Jeffson di incontrare nella Nube purpurea). L’apocalisse del borghese non ascrive nulla al salvabile, in quasi niente sente la beatitudine; rigidamente intellettuale com’è, ossessiva nel suo compilare le colte accozzaglie culturali del postmoderno, col suo citazionismo, il suo aspetto libresco, la sua ironia, il suo scetticismo, pare quasi imborghesita essa stessa per contagio. Scrive Michele Mari «il più triste e umiliante contrappasso è che il nichilista e apocalittico protagonista rinunci alla violenza di ogni nichilismo e di ogni apocalisse per lasciarsi invadere totalmente dall’adesione al “solido mondo”», con le sue macchine, le sue architetture, i dispositivi tra i quali vive soltanto una natura ormai né madre né matrigna, ma inattingibile dall’uomo. Il sartriano rifiuto degli altri, non fa che sprofondare la narrazione – per quanto straordinaria – in un nulla di fatto, tanto più denso di oggetti quanto più spoglio di significato.
La sera prima della sparizione del genere umano, il narratore di Dissipatio aveva deciso per il suicidio, vero specchio della narrazione. Impossibile non cogliere le analogie contestuali tra il Polo violato dal solo Adam Jeffson di Shiel e il luogo che viene scelto per l’atto estremo del protagonista di Morselli. Questo è un pozzo collocato nel cunicolo di una montagna, che viene descritto come «una grande apertura ovale, in fondo a cui stagnava dell’acqua»[17] e che scende a perpendicolo verso un lago chiamato Solitudine; nella Nube purpurea, invece, è un «lago a forma di cerchio perfetto»[18], al centro del quale rotea una colonna perpendicolare di pura energia e segreto, dove un essere – entità indefinibile, mostruosa Gea che respira e guarda coi suoi occhi innumerevoli – si fa palese. Ma di fronte all’emergere di un’alterità inconscia e terribile, le reazioni sono diametralmente opposte: come Dante di fronte all’ineffabile, Adam perde i sensi, folle per ciò che ha visto. Il narratore di Morselli, invece, dissolve tutto nella satira, e sorbendo un sorso di cognac, si concede una riflessione sui liquori spagnoli e francesi. Di conseguenza, quella di Adam nel mezzo d’un mondo disfatto è la furia di un’umanità che desidera riaffermarsi in tutti i modi sull’inumano. Il narratore di Morselli, invece, scegliendo di uccidersi (benché il salto, nella finzione, non venga mai compiuto; il narratore in metafora muore senza nemmeno essersi ucciso – Morselli in persona, invece, finirà la sua vita come suicida), finisce per annichilirsi nella solitudine. «Tutto è inutile» scrive l’autore in un quaderno nel 1959. «Sono stato egoista sino a dimenticarmi dell’esistenza degli altri; nulla è cambiato né in me né intorno a me. Ho fatto qualche poco di bene, non sono stato compensato; ho fatto del male, non sono stato punito. Tutto è egualmente inutile»[19]. Nell’arco di settant’anni, circa, il senso d’impotenza che comprime lo spirito dell’uomo postmoderno non desidera più nemmeno far giustizia o furore con l’apocalisse, semplicemente si arrende alla morte, al trionfo del non umano, laddove questo si è trasformato in nient’altro che datità oggettiva, dal mistero creaturale che era apparso a Shiel. Un senso d’impotenza che Morselli credeva di condividere con la propria specie, se è sincero, quando dice: «non cederò allo psicologismo intimistico: ormai la mia storia interiore è la Storia, la storia dell’Umanità»[20].
L’invasione dei mostri verdi. Wyndham e Christopher.
Parlando di tornado, terremoti, cicloni e altre forze della natura che oggi dimostrano quando stia accelerando il cambiamento climatico del pianeta, lo scrittore indiano Amitav Ghosh accenna a un «irriducibile elemento di mistero»[21], di fronte al quale forse non perdiamo i sensi, ma non possiamo più restare indifferenti. Lo spaesamento che ci causano è dovuto al fatto che in essi «riconosciamo qualcosa cui abbiamo voltato le spalle: vale a dire la presenza e la prossimità di interlocutori non umani»[22]. Tra il soprannaturale di Shiel e l’estremamente oggettivo di Morselli, il non umano di Ghosh è qualcosa che conosciamo da tempo ma che abbiamo smesso di comprendere: la natura. Una concezione idealizzata dell’uomo e dell’estraneità della nostra specie dal resto delle altre sul pianeta ha fatto sì che maturassimo la convinzione di un mondo post-naturale, dove la natura è addomesticata e profondamente trasformata dalla nostra azione. Tuttavia, dalla Seconda Guerra Mondiale, incubi come quelli atomici hanno modificato di molto la nostra idea della natura, mostrando il potenziale distruttivo di un rapporto irresponsabile uomo-natura.
I fuochi della Seconda Guerra mondiale si sono appena spenti quando Ward Moore pubblica Più verde del previsto (1947), un romanzo di fantascienza che avanza l’ipotesi catastrofica della trasformazione mostruosa e inarrestabile di alcune specie vegetali create in provetta. Queste erbe comuni, dal DNA modificato con lo scopo di incrementare la produzione, diventano così resistenti da potersi sostentare con qualsiasi tipo di materia, fino al punto di divorare letteralmente il pianeta, crescendo sul cemento e sulle città dell’uomo. Si tratta del medesimo tema che ispira la maggiore tra le opere di un autore ossessivamente apocalittico come John Wyndham: nel memorabile Giorno dei trifidi (1951), specie mutanti di piante dalla dubbia provenienza, che si suppone siano il frutto di qualche esperimento biologico, spietatamente carnivore e inaspettatamente semoventi, dichiarano guerra alla specie umana. Appena cinque anni più tardi, l’ossessione coinvolge, capovolta di segno, uno dei più brillanti romanzi post-apocalittici del Novecento, quello di John Christopher, La morte dell’erba (1956). Qui si prefigura uno scenario compromesso dal progressivo estinguersi di tutte le specie vegetali alla base della catena alimentare e di quelle animali che ne dipendono: la prova più lampante della nostra stretta connessione con le risorse del pianeta. Volendo condurre al limite l’elemento non umano, e la sua climax nel progredire del dopoguerra fino alla crisi della Guerra Fredda, aggiungerei un altro testo americano, anno 1965, un fosco romanzo di distruzione privo di speranza (The Genocides in inglese, tradotto con il non meno truce Gomorra e dintorni in Italia) di Thomas Michael Disch, dove la terra è invasa da spaventose e indistruttibili piante ad alto fusto che succhiano ossigeno; l’uomo, seppur incolpevole della distruzione questa volta, si abbandona a comportamenti sempre più immorali per sopravvivere, fino ad accettare di rifugiarsi – catabasi senza redenzione – in cieche profondità della terra, dove il modello più prossimo di esistenza è quello del verme.
Non è un caso se il rapporto catastrofe ambientale/decadimento morale dell’individuo sia un altro dei fili rossi che lega questi testi. In questa evoluzione vegeto-mostruosa si può leggere lo sviluppo della lezione di Wells, che innescava l’arma della critica sociale dentro racconti fantascientifici apparentemente leziosi e autoreferenziali (Wells si dilettava di biologia) come Fioritura di una strana orchidea (1894), dove l’inettitudine di un coltivatore rischia di far proliferare il seme di un’orchidea succhia-sangue, che attenta alla sua stessa vita. Qui l’azione si svolge all’interno della serra del tipico borghese estimatore della scienza moderna e, data la natura circoscritta del problema, tutto si risolve nell’ironia di una tragedia sfiorata.
Ma cosa succede quando il disastro si sposta su un’ampia scala? Più la scala è ampia, più il mondo si fa moderno, maggiori sono le implicazioni politiche e morali delle interazioni che scaturiscono tra i sopravvissuti. Dietro la leggerezza con la quale si manipola la natura in questi testi del dopoguerra non c’è, a mio avviso, la preoccupazione dell’ecologista per il pianeta, quella che punta il dito contro il comportamento irresponsabile del capitalismo; o meglio, non c’è ancora: una vera coscienza ecologica si fa concreta solo all’inizio del Terzo Millennio. Le paure catastrofiche di un disastro planetario sono figlie legittime della minaccia atomica. Il verde, in questo caso, non è ancora il colore della coscienza ecologica, ma è il sentore, l’indizio di qualcosa di terribile che sta per accadere all’uomo. Il verde è colore di un’alterità che minaccia l’integrità della comunità umana; è il colore delle meteore aliene che cadono sulla Londra di Wyndham; è il colore di un’altra specie vivente in lizza per il primato sul pianeta terra, quello dei branchi di iguane ne Il mondo sommerso di Ballard (1962), le quali con occhi accorti e malvagi spiano gli ultimi uomini sopravvissuti, ai margini delle paludi che ricoprono il pianeta allagato, pronte a riconquistare il predominio rettile sulla specie dei mammiferi. Il verde è il non umano, cui l’uomo rapporta la propria alterità, il marchio di solitudine della sua specie.
L’intelligenza umana aveva dimostrato d’essere capace di malvagità altrettanto irripetibili durante il secolo. Aveva soprattutto dimostrato l’effetto boomerang che minacciava la sua condizione tanto fragile come quella dell’Inghilterra di Ballard, spazzata dalla sua posizione di predominio culturale dall’America vittoriosa. Aveva dimostrato che la propria modernità era andata così oltre il limite da poter trasformare l’idillio in un massacro e di come un comportamento morale decaduto fosse capace di cancellare l’umano dalla faccia del pianeta. I testi apocalittici cui abbiamo accennato raccontano una sostanziale discrepanza tra l’idea di un’intelligenza idealizzata e la realtà dell’uomo modernizzato: le comunità cittadine sono diventate i templi dell’organizzazione e della civilizzazione per l’ottima vita del singolo individuo, ma non di rado, nel momento della catastrofe, coloro che erano stati individualisti, coloro che sono rimasti soli a causa dell’individualismo, si rivelano furbi opportunisti, violenti sopraffattori dei più deboli, in un chiaro svelamento dei fantasmi nutriti dalla specie ed emersi durante la guerra e nei campi di concentramento.
Ne Il giorno dei trifidi, Bill Masen, impiegato nell’industria di coltivazione dei trifidi, piante conosciute per la bontà dell’olio che si ricava dalla loro linfa, si ritrova convalescente dopo un’operazione agli occhi proprio la notte in cui la straordinaria pioggia di meteore cade sul pianeta. Al suo risveglio, mercoledì, vige il sospeso silenzio della domenica, un marchio chiarissimo di apocalisse, come all’apertura del settimo sigillo. È la mise en abyme dell’estinzione: tutti quelli che hanno visto le meteore sono diventati ciechi[23]. Ed ecco che il tempo del giudizio si ripete, e si scatena una guerra tra vedenti e non vedenti all’insegna dello sfruttamento del più debole, con l’aggiunta della crescente minaccia dei trifidi, che porterà Bill in fuga. Bill, che ha conservato la vista fortunosamente, è un testimone privilegiato della lotta per la sopravvivenza, nonché uno dei pochi individui forti dell’agone. Per lui, più che per altri, è aperta una chance di rinnovamento; non è estranea al romanzo l’idea che la catastrofe sia un’occasione per ripulirsi dal diabolico destino accarezzato dal Novecento. In un capitolo intitolato “La conferenza”, un tale Beadley parla a una folla di sopravvissuti, nella quale Bill è presente, incitando alla rinascita. Dice: «Io, e probabilmente molti di voi, abbiamo passato gran parte della nostra vita nell’attesa di qualcosa di peggio. E io credo tuttora che se questa catastrofe non fosse accaduta, sarebbe accaduto il peggio. Dal sei agosto del 1945 il margine di sopravvivenza si è andato spaventosamente restringendo […] e si può benissimo pensare che nessuno sarebbe sopravvissuto: checrist non ci sarebbe stato più neppure il pianeta… E ora considerate invece la nostra situazione. La Terra è intatta»[24]. Tuttavia, l’occasione per ricostruire un mondo veramente civile non è buona per tutti; la proposta di Beadley è quella di comporre il gruppo sulla base del privilegio dei vedenti: donne, anche cieche, purché in età di avere figli, e soli uomini vedenti. Bill, rifiutandosi di aderire a questa nuova logica di poligamia e sfruttamento, si interroga lungamente sul proprio passato e trova il coraggio di criticare a fondo il proprio stile di vita precedente: rivede i progetti che nutriva; sapendoli cancellati in un colpo solo, insieme alle condizioni che li hanno generati, si rende conto che si basavano su presupposti sbagliati. La sua crescita morale si sviluppa proprio attorno all’atteggiamento tenuto nei confronti dei ciechi. Grazie all’impegno che Bill profonde per loro, oltre che al suo nuovo interesse per le relazioni umane, idealizzato nell’amore autentico per Josella, egli diventerà il capo di una tribù capace di elargire protezione e misericordia agli altri. Non si arrenderà alle lusinghe del nuovo ordine, nemmeno quando gli proporranno di fondare una colonia feudale sfruttando il lavoro dei ciechi.
Il romanzo di Wyndham giunge a un’utopia alternativa alla catastrofe civile, con una solida ricostruzione dei buoni principi a opera del redento Bill. Diversa sorte è riservata a La morte dell’erba di Christopher, un vero e proprio necrologio della weberiana etica di responsabilità, il cui fallimento fa del mondo il luogo dove Caino deve uccidere Abele per sopravvivere. Si tratta di una delle più lucide decostruzioni della rispettabilità inglese e della sua vocazione borghese a professare il proprio modello di vita come l’unico al mondo: l’alterità dell’Englishness, la qualità d’essere inglesi, è ostentata come il valore del vivere in Inghilterra. Alla prova dei fatti più catastrofici, però, anche i benpensanti d’altro lignaggio protagonisti della vicenda si rivolgono l’uno contro l’altro, svelando sotto la trama degli elitari principi di parsimonia, dedizione al lavoro, gerarchia dei superiori, protezione della proprietà privata, atteggiamento democratico, un nudo e crudo stato di natura. La miopia stolida attraverso la quale gli inglesi di Christopher scambiano negazione e individualismo per democrazia e pace è così endemica che, quando sugli schermi televisivi si documenta l’avanzare in Oriente di Chung-Li, il terribile virus che devasta il grano, la popolazione resta spettatrice impassibile, persuasa senza ragione che il problema sia altrui e in particolare della Cina (aliena e comunista). La vera ragione della loro indifferenza saramaghiana non è quel senso di rassegnazione al presente di cui ci parla Giglioli[25], né una collettiva tranquillizzazione etica alla Bauman[26], ma un lucido e consapevole calcolo di sopraffazione, atto ad affermare la propria sopravvivenza e la propria forza individuale.
Chiusa nel guscio della vita borghese, al sicuro nella sua comoda abitazione e nell’eleganza del suo giardino privato, la popolazione assiste alla notizia che gli Stati Uniti hanno votato un emendamento alla legge presidenziale dei soccorsi, invocando un blocco difensivo di riserve alimentari da lasciare convenientemente in patria, con estrema lucidità. È la benpensante Ann che traccia l’evidenza dei fatti: «Ci sono milioni di persone ridotte alla fame, e quei vecchi grassoni rifiutano loro il cibo!»[27]. Modo più ipocrita di dire la verità non c’è, servita per così dire col tè del pomeriggio, dolci in abbondanza e un umorismo all’inglese per niente scoraggiato dagli avvenimenti. Roger, in apparenza il rude villain della storia, ma in sostanza l’unico personaggio da subito ripulito degli orpelli dell’ipocrisia moderata, ribatte: «Visto che mi aspetto di vivere tanto da diventare un vecchio grassone […] non sono molto sicuro di risentirmi per la decisione»[28]. Giudicare gli Americani, sostiene Roger, non scagiona le altre nazioni che, senza esporsi pubblicamente, agiscono nel medesimo interesse, rifiutando di inviare aiuti. «Non è un atto di buon senso dare l’ultima crosta di pane dei nostri bambini a un mendicante affamato»[29]. La posizione dei potenti che agiscono per gli interessi nazionali, anche a discapito della sopravvivenza di altri esseri umani è rispecchiata in quella dei singoli, che non solo si sentono legittimati ad agire di conseguenza, ma sono all’origine delle decisioni prese dal governo: lo stesso individualismo, che rifiuta d’essere chiamato a intervenire, preferendo la comodità della poltrona, negando fino alla fine l’evento che minaccia la propria distruzione, rimane saldamente ancorato all’inerzia del proprio sistema. «Sono situazioni per le quali non possiamo fare niente»[30] chiosa Olivia, la moglie di Roger. Ed è significativo che il protagonista della storia sia l’anonimo e silenzioso John, il quale col progressivo crollo di tenuta del sistema civile, diventa giocoforza un leader involontario, chiamato a prendere le decisioni per tutti, ma senza esservi moralmente preparato.
La forza dell’apocalisse di Christopher, del resto, risiede proprio nell’effetto scoperchiante la fine delle convenzioni, perché fa maturare sotto le apparenze borghesi dei personaggi il germoglio del vero individuo: nel bellum omnium contra omnes, nuovi significati si attivano, domande finora impossibili trovano un linguaggio per esprimersi, scenari dapprima corruschi si fanno decifrabili e gli individui emergono dal loro sonno civilizzato. Quando la giovane Millicent si offre al nuovo capo John, ai danni del vecchio Pirrie suo amante, John pensa: «doveva essere cornuto da parecchio tempo. Ma prima era successo a Londra, in quella tana pullulante di esseri umani, dove l’indulgenza per un atto di libidine in più era cosa normale. Lì, invece, dove i rapporti tra loro erano nudi come la terra che stavano attraversando, il fatto acquistava importanza»[31]. In seguito all’uccisione di Millicent per vendetta dello stesso Pirrie, John è combattuto tra l’orrore e una spiegazione razionale: in un mondo simile non si può pretendere innocenza. Decide infine di tenere Pirrie nel gruppo per le sue spiccate doti di soldato, le quali John ritiene necessarie alla sopravvivenza del gruppo. È chiaro che la presenza di Pirrie nella comunità dei sopravvissuti diventa l’ammissione implicita di una violenza sessista e dell’omicidio, tra le mura domestiche, ma il nuovo scenario chiarisce finalmente a John che la democrazia non è più in grado di regolare i rapporti sociali tra gli uomini. Significativa è anche la perdita di rispetto che Ann dimostra nei confronti di John, pur essendone stata complice fino a quel momento. È lei a rendersi conto che Blind Gill, la meta a cui aspirano, la comunità agricola dove si è barricato il fratello di John, è ormai diventata un deterrente per accettare le atrocità. Solo nella valle di Blind Gill, dice John alla moglie, «potremo ricominciare a vivere una vita normale. Non crederai che a me piaccia tutto questo, vero?». «Non lo so»[32]; risponde sibillina Ann. Non è dato sapere quale sia il piacere che John ottiene dalla sua nuova posizione di comando; del resto, una sorta di gioia nell’imbarbarimento e nella decrescita percorre tutto il filone apocalittico, come una vena irrazionale sempre vigile sotto la trama più moralizzata. È proprio l’ambiguo sentimento di partecipazione alla violenza che pone un problema: la violenza è tanto umana quanto il comportamento civile, anzi, è proprio qui che risiede la scissione della coscienza moderna. L’autenticamente nostro, nascosto sotto il sentimento di alterità, è forse questa brutalità naturale? Il successo che ebbe il romanzo in Inghilterra alla sua uscita ne è la prova. Dall’introduzione al libro di Robert Macfarlane ne ricaviamo i motivi; come Golding, spiega Macfalane, Christopher dubitava del senso di superiorità britannico, che aveva fatto dire all’autore del Signore delle mosche: «Dovevamo ringraziare Dio di non essere stati nazisti. Ho visto abbastanza cose da comprendere che chiunque di noi invece avrebbe potuto essere nazista»[33]. Se Wyndham era stato cordiale con la distruzione d’un mondo civile e s’era impegnato nella sua ricostruzione, dividendo nettamente i buoni dai cattivi, Christopher è spietato fino all’orrore. Dai personaggi non umani, con cui i racconti della fine spesso si confrontano, si passa all’umanità stessa; siamo noi l’ombra che ci insegue, quella che ci rifiutiamo di riconoscere, quella stessa mano che per distruggere si condanna da sé all’estinzione.
Famiglie post-apocalittiche. London e McCarthty.
Tra le due alternative detestabili – un mondo troppo modernizzato che non può essere umano e uno stato di natura in cui non ha più posto l’umano – il genere apocalittico si dispiega lungo il corso del Novecento con il linguaggio della paura: prima si rivolge verso la paura dell’atomica, delle deformazioni, delle mutazioni genetiche (Paria dei cieli di Isaac Asimov, Cronache del dopobomba di Philip Dick); poi verso la paura della crudeltà umana, dimostrata nelle persecuzioni razziali, nei campi di concentramento, a Hiroshima, a Nagasaki (Jenny. Il mio diario di Blumenfeld). È la paura dell’uomo come essere irresponsabile, capace di costruire armi batteriologiche in grado di estinguere il mondo e insieme capace di lasciarsele sfuggire di mano con leggerezza (L’ombra dello scorpione di Stephen King); è la paura di una tecnologia disumanizzante (Cell di Stephen King) e in generale della de-civilizzazione come imbarbarimento[34]. Ancor’oggi, come ci ricorda tra gli altri Noam Chomsky, mancano sempre troppo pochi minuti all’ora dell’apocalisse: le non scongiurate minacce della guerra nucleare e del cambiamento climatico, ignorate e reiterate dagli anni sessanta, subliminalmente penetrate nel nostro inconscio, rinnovano la fortuna delle letterature apocalittiche e l’espressione del loro senso d’impotenza di fronte a un capitalismo cieco e indifferente[35].
Che cos’è che ci rende tanto fragili e insicuri? Una delle necessità del pianeta pare essere quella dell’abbassamento demografico. Molti pensatori come Castoriadis, o lo stesso Pasolini, hanno messo l’accento sul rischio della sovrappopolazione per un mondo già agonizzante a causa dell’esponenziale crescita economica e la progressiva carenza di risorse ambientali. Il tema fa riflettere. Penso a Jenny (1982) di Yorick Blumenfeld, romanzo diario di una sopravvissuta che scrive da un costosissimo rifugio atomico il cui accesso è stato comprato a mo’ di capriccio dalla sua facoltosa famiglia; il romanzo racconta come i sopravvissuti al fallout, costretti nel bunker, cadano in una spirale di decadenza indotta dalla reclusione, che investe in pieno il decoro e la qualità dei rapporti interpersonali. Travolti nel disperato tentativo di riaffermare la vita laddove essa è invece sepolta, i sopravvissuti eccedono in comportamenti sessuali sfrenati, che inneggiano al diritto alla vita pur nelle più squallide condizioni, ma spezzano in ogni forma di aggregazione. Ad esempio, mentre le relazioni amorose trovano strutture nuove di apertura (Jenny viene coinvolta in un ménage à trois), tra cinismo e compassione, il rapporto tra genitori e figli viene completamente destrutturato. I ragazzini, che già nel rifugio avevano dimostrato una tendenza a fare banda a sé, una volta emersi alla luce del mondo devastato e pericolosamente radioattivo, decidono di fare vita indipendente, abbandonando le famiglie in un estremo tentativo di dispiegare la propria libertà; scelta ovvia per un gruppo che aveva bene giudicato l’incapacità protettiva della generazione che li ha preceduti.
Stando a Daniel Cordle, questo sarebbe un chiaro sintomo del cambiamento subito negli anni Ottanta dalla famiglia tradizionale, divenuta ormai una post-nuclear family[36], un nucleo stressato e diviso, che di fronte al richiamo della sopravvivenza non sceglie l’unione, ma si disperde. Elemento che riconosciamo non a caso in parecchi romanzi distopici cosiddetti young adult, dove le figure genitoriali sono assenti (La quinta onda, Rick Yancey), o ambigue e tramanti (Divergent, Veronica Roth), o addirittura disposte al sacrificio della prole (The Hunger Games, Suzanne Collins). Scelta tragica, aggiungo, perché ciò che accade in Jenny non è affatto il dispiegarsi di un conflitto generazionale che porta i giovani alla ribellione (per loro non c’è futuro, sono tutti destinati a morire per le scorie radioattive): Jenny e i suoi figli sono già estranei, la loro separazione è inevitabile, la madre non protegge i figli, i figli non onorano la madre. Sono questi i sintomi e le cause della fine della storia, intesa, per lo meno, come fine della tradizione.
Ci sono due romanzi cardine del genere che trattano questo tema, a quasi un secolo di distanza l’uno dall’altro: La peste scarlatta di Jack London (1912) e La strada di Cormac McCarthy (2006). Molti e vari sarebbero gli elementi da approfondire per ciascuno di essi, ma la tematica del confronto tra generazioni ci offre una chiave di lettura privilegiata: in essa sta proprio il dramma, il dispiegamento e il motivo della fine della storia. La peste scarlatta si apre con la scena di un vecchio e un ragazzino che procedono insieme su una pista calcata dagli zoccoli di capra, in riva all’oceano, sulla baia dove un tempo sorgeva San Francisco. Da come sono vestiti, con pellicce e stracci, dallo sporco che trasudano e dal loro equipaggiamento all’arma bianca, si direbbe che siano primitivi e che stiamo assistendo a un salto nel passato remoto del genere umano; ma siamo nel futuro e sotto di loro sono sepolti nella sabbia i cadaveri degli uomini contemporanei periti di peste scarlatta nel 2013. Il vecchio professore di letteratura James Howard Smith è l’ultimo sopravvissuto del tempo passato: quelli che lo accompagnano sono i suoi nipoti, giovani nati dopo la catastrofe, distanti ormai due generazioni dal ricordo dell’uomo che li ha preceduti.
È subito evidente che, nel breve tempo che separa queste età a confronto, è avvenuta una profonda mutazione della specie: mentre il vecchio arranca nel corpo e vive del suo pensiero, i giovani procedono con tutti i sensi spalancati, non dissimili dai lupi e dagli altri animali tornati allo stato brado. Tutti si distinguono nettamente da Smith per la perdita di familiarità con la lingua inglese, che rende quasi impossibile la comunicazione tra loro. Lo sforzo d’interpretazione del vecchio linguaggio e dei contenuti dell’epoca precedente è complicato non solo dall’ignoranza di alcuni significanti, ma dalla perdita di senso subita da molti di quei contenuti (il denaro, per esempio). Anche la piagnucolosa nostalgia del passato che spinge il vecchio sul sentiero della memoria è incomprensibile ai ragazzi, che anzi ne ridono, lo definiscono «una sagoma»[37], le sue parole sono per loro «cose senza senso»[38], la sua «tremebonda frenesia» è per loro «penosa»[39]; ridono di lui senza riguardo, ove non lo ignorano, stanchi per la fatica che comporta un tale sforzo di comprensione ai limiti dell’impossibile, vicino al farneticare di un pazzo, o allo starnazzare di un’anatra. Mentre il vecchio parla e rievoca il momento dell’apocalisse e la sua storia personale, gli occhi dei ragazzi sono rivolti all’oceano, nei cui flutti essi lo dimenticano, come hanno dimenticato il passato, bramosi solo del futuro. Smith, tanto disperato per la loro indifferenza da aver nascosto i libri degli «antichi» in una grotta, sperando che un giorno il tempo sarà maturo perché il sapere venga recuperato, è l’espressione di un passatismo sterile e miope, che non riconoscere l’inevitabile traversata della vita sopra il misero cadavere della storia. Questa chiara assenza di ruolo magistrale nel tramandare del vecchio, nella storia dei progenitori, è, come per gli altri racconti di London, l’emergere d’uno spirito selvaggio che proviene dall’aver provato almeno una volta, come il cane Buck, la legge della mazza e della zanna[40]. London non parteggia per loro; del resto, nonostante i sovvertimenti dovuti alla peste, che hanno reso schiavi i padroni, il bene e il male sono entrambi sopravvissuti alla catastrofe e nuovi padroni sono nati dal cuore di coloro che prima erano schiavi. Anche qui come nei ghiacci del Klondike o nelle isole tropicali dei suoi racconti, London ci narra l’emergere del wild, quella legge di natura che travolge organismo e causalità meccanica, ogni freddo finalismo e darwiniano prevalere del più forte: quella forza che si accende dal di dentro l’individuo, a dispetto della sua civilizzazione, e che perirà solo quando una forza ben più grande, termine ultimo della naturale devastazione del pianeta, renderà la vita impossibile.
È proprio questo il momento nell’evoluzione della storia in cui sembra dispiegarsi La strada di McCarthy: una pista, seppure esile, di umanità, che si addentra in territori estremi ricoperti di cenere e ormai ostile a qualsiasi forma di vita; paesaggi popolati di cadaveri disseccati e alberi abbattuti, lande desolate di una terra che il sole ha smesso di scaldare. Gli uomini che battono queste grigie atmosfere non sono che simulacri dei propri antenati: disperati, ripugnanti, spietati predoni e assassini, se non stupratori e cannibali, larve di un mondo ridotto al minerale. Un padre e un figlio, l’uno il mondo dell’altro, tentano di sopravvivere in questo scenario e rappresentano quindi un paradosso incarnato.
L’uomo, sul quale s’incentra il focus della narrazione, è il passato. Egli è continuamente sconvolto da incubi e preoccupazioni per la sorte futura del figlio; è malato e tormentato dai ricordi e dalla nostalgia dei parenti morti, della moglie perduta, dell’infanzia e della sua vecchia casa. Rispetto alla visione di Cordle, questa famiglia è differente: l’unica ragione di resistenza dell’uomo è il dovere di protezione che sente nei confronti del figlio. In assenza di questa, è lecito supporre che si abbandonerebbe alla principale pulsione che suscita il paesaggio: un vero orrore e un disgusto per la vita, che trasuda dalla decadenza, una languida pulsione di morte al pari di quella che ha spinto la moglie al suicidio. McCarthy descrive questo paesaggio come oggi descriveremmo un tempio o una piramide dell’epoca primitiva. L’effetto di straniamento che percepiamo leggendo sta proprio nel contemplare i residui della società contemporanea (un carrello della spesa, un’ultima sfrigolante lattina di Coca-Cola, una diga di cemento, ecc.) come se fossero le rovine di una civiltà passata, mentre esse rappresentano gli oggetti della nostra realtà quotidiana. Sono «nonluoghi» per noi, come scriverebbe Augé, se guardiamo dagli occhi del padre, mentre per il bambino appaiono piuttosto come «nontempi», non databili[41].
Per questo motivo ha senso parlare di “fine delle ideologie”, un concetto che già Cataldi legge ne La strada. Per Cataldi questa fine è essa stessa ideologia, quella «trionfante dopo la fine delle ideologie»[42], ossia il credo del godimento individuale, della legge del più forte, della competizione sociale. Ritengo che con McCarthy si possa andare ancora oltre. Questi elementi del genere sono presenti già nel libro di London, per esempio. Tale lotta senza quartiere e senza interesse per l’altruismo e la solidarietà è la stessa pulsione individualista che trasforma i protagonisti dalla vita rispettabile de La morte dell’erba in assassini e sopraffattori: è una domanda cardine della letteratura post-apocalittica, la cui insistenza si fa via via più pronunciata quanto più labile si fa il confine, lungo gli avvenimenti del secolo, tra l’etica dei sommersi e quella dei salvati. La fine delle ideologie in McCarthy, al contrario, sembra qualcosa di radicalmente nuovo, nel quale potremmo collocare il rinnovato senso che la letteratura apocalittica può offrire ai nostri tempi: se non si può credere nell’individualismo, non sappiamo nemmeno o non riusciamo a immaginare in cos’altro potremo credere. È un nodo che è qui evocato nell’evidente scambio di ruoli che sottende il rapporto tra le due generazioni della famiglia post-apocalittica.
Innanzitutto, il ruolo di protezione che il padre sembra possedere si rovescia radicalmente quando emerge nel bambino una forza morale che è in grado di ispirare e istruire il padre, di fargli da maestro e indicargli la strada. Il bambino è «verbo di dio», il portatore del fuoco (in un gioco d’identificazione tra la scintilla che innesca il calore e la bontà di chi la possiede), e vuole esserlo a ogni costo. Il bambino è non solo «l’ultimo degli dei»[43], in quanto la sua sopravvivenza costituisce un miracolo, ma è l’ultima coscienza morale del mondo: è lui che impone al padre di sfamare il barbone con le loro poche risorse, di trattare con dignità perfino l’uomo che li ha derubati, è lui che pretende onestà dal padre, gli impone di schierarsi, gli fa promettere che, qualunque cosa succeda, non importa quanto forte sia l’imperativo della sopravvivenza, non diventeranno cannibali come gli altri. È il bambino che impone al padre un comportamento “umano”, che gli riconsegna una superiorità che il padre sembra aver perduto, perché «il passato non è più portatore di alcuna lezione e dall’avvenire non c’è più niente da aspettarsi»[44].
Nella famiglia post-apocalittica l’unica tenuta possibile è costituita da un’inversione di ruoli: il figlio diventa maestro del padre, suo motivatore. Si tratta di una profonda negazione della lezione di Golding e arriva in seno a uno dei testi più nichilisti della narrativa contemporanea: da questa domanda morale che il testo fortemente ci pone non dico si debba giungere direttamente a un’interpretazione positiva e nuovamente escatologica. Nonostante il senso di religiosità che pervade l’opera di McCarthy, il finale resta aperto. Alla morte del padre il bambino non rimane solo, ma non sono esplicitate le sue effettive possibilità di sopravvivenza in quel mondo. In questo senso, direi, è necessario che il focus del romanzo sia incentrato sul padre: il futuro, infatti, di cui il bambino è emanazione, rimane imperscrutabile. Tuttavia, questa lettura non consente nemmeno di sposare senza dubbi la tesi opposta. Nel cuore dell’uomo, anche del giovane precipitato sull’isola deserta di Golding, non alberga il male a tutti i costi: non fioriscono spontanee le ideologie della violenza, della sopraffazione e dell’individualismo. Nel cuore dell’ultimo uomo qui brilla un fuoco, nonostante tutto, nonostante non ci venga promessa alcuna redenzione. O forse sarebbe meglio dire che esso brilla nel cuore del primo nuovo uomo: è il nuovo, che emerge per positività e innocenza; è un elementare, infantile desiderio di rinnovamento, che mette la parola “fine” alla crisi che percepiamo ormai come immanente[45], non fosse altro che per un’ultima generazione, il desiderio di resettare tutto e imparare dagli errori.
La strada apre con un incubo del padre. Per mano al bambino, che lo guida, entrano in una caverna e in una grande sala che racchiude un lago nero e antico vedono emergere dalle acque una creatura che li fissa con le fauci spalancate, prima di fuggire nel buio. Un altro luogo misterioso tra quelli che abbiamo incontrato: un’altra perturbante apparizione del misterioso non-umano che pervade tutto ciò che è estraneo alla coscienza morale[46] e che spaventa l’uomo, persuaso d’essersi infine reso simile a un mostro[47]. Non c’è modo di conoscere le evoluzioni del bambino, né possiamo ipotizzare che crescendo, se sopravvivrà, perderà il suo basilare bisogno di senso dettato dall’ingenuità della sua coscienza, ma possiamo decifrare che l’essere vivente più distante dalla creatura aliena nel fondo del pozzo misterioso è proprio il bambino che illumina con la torcia quel mostro, mettendolo in fuga. Quella dell’apocalittica del Novecento, allora, è una domanda che si pone ogni qualvolta guardiamo alla fragilità delle civiltà che abbiamo costruito: per cosa vale la pena vivere, ancora, nonostante tutto ciò che abbiamo perduto? Che cosa sceglieremo di salvare in futuro, come autenticamente umano?
Non so se la letteratura post-apocalittica sia la migliore candidata, tra le altre, a rispondere a questa domanda. Tuttavia credo che la tentazione provata dagli autori post-apocalittici di tagliare il nodo gordiano, come scrive Stephen King, invece che perdere tempo a scioglierlo[48], non sia un mero sollievo psicopatologico, o addirittura il divertissement di un’estetica pazzoide; si percepisce un reale svuotamento di senso nell’uomo-zombie, morto nel suo stile di vita mentre ancora cammina per il mondo, meccanicamente famelico di altri esseri umani. E si percepisce un reale desiderio di liberazione dal reiterarsi ridicolo e terribile di un quotidiano perso in un lavoro ripetitivo e disumanizzato, «in un qualche migliaio di cene precotte al microonde seguite da una cassa da morto»[49], che rendono evidente l’assenza di una morale per l’esistenza contemporanea, come accade ai confusi protagonisti de Le ultime 5 ore di Douglas Coupland, incapaci di ritrovare l’autentico perfino nel momento della fine. Oggi il discorso apocalittico è anche piuttosto disinibito nei confronti della violenza: è una reale assuefazione che abbiamo sviluppato nei confronti della morte e della distruzione. Forse, per alcuni, nella più cupa possibilità che si possa prospettare, risiedono soltanto i nostri demoni, le nostre paure e perversioni. Eppure, io credo, vale per questi romanzi quello che Ballard credeva valesse per Crash: sono metafore estreme per una situazione di crisi estrema. In una prospettiva politica, il loro scopo è di lanciare un avvertimento.
Note
[1] Cfr.: «Niente sopravvissuti, niente storia, giusto?» in S. King, Danse macabre, Sperling & Kupfer, Milano, 2006, p. 423.
[2] M. Augé, Che fine ha fatto il futuro?, Elèuthera, Como, 2010, p. 100-101.
[3] Eric. J. Hobsbawn, Il secolo breve 1914-1991, BUR, Milano, 2014.
[4] E. De Martino, La fine del mondo, Einaudi, Torino, 2016, p. 495.
[5] J. G. Ballard, La mostra delle atrocità, Feltrinelli, Milano, 2006, p. 9.
[6] Z. Bauman, Paura liquida, Laterza, Roma-Bari, 2008, p. 4.
[7] De Martino, op. cit., p. 493.
[8] «La fantasia dell’incendio del mondo, e in generale della fine catastrofica del mondo, non è null’altro che la percezione mitologica di una propria, individuale volontà di morte», Jung, citato in De Martino, op. cit., p. 37.
[9] M. P. Shiel, La nube purpurea, Adelphi, Milano, 1999, p. 99.
[10] M. Mari, I demoni e la pasta sfoglia, Il Saggiatore, Milano, 2017, p. 261.
[11] M. P. Shiel, op. cit., p. 164.
[12] La definizione è di Michele Mari.
[13] «Con le finzioni non riordiniamo il mondo perché si adatti ai miti e non facciamo la prova delle ipotesi con degli esperimenti, come si faceva, per esempio, nelle camere a gas.» in F. Kermode, Il senso della fine. Studi sulla teoria del romanzo Rizzoli, Roma, 1972, p. 56.
[14] M. P. Shiel, op. cit., p.19.
[15] M. Mari, op. cit., pp. 319-323.
[16] G. Morselli, Dissipatio H. G., Adelphi, Milano, 2012, p. 11.
[17] Ivi, p. 22.
[18] M. P. Shiel, op. cit., p. 55.
[19] La citazione è nel Quaderno XIII, 6 novembre 1959, pubblicato in G. Morselli Diario, Adelphi, Milano, 1988.
[20] G. Morselli, op. cit., p. 31.
[21] A. Ghosh, La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile, Neri Pozza, Vicenza, 2017, p. 37.
[22] Ivi, p. 38.
[23] Il tema della cecità è metafora forte dell’apocalisse come critica sociale e politica: in Wyndham è la distinzione tra ciechi e vedenti che getta la società al di fuori della civilizzazione. Anche in Gomorra e dintorni la sopravvivenza si riduce a un cieco brancolare e strisciare nel buio. Il tema sarà ripreso e sviluppato da José Saramago in Cecità (1995), dove il non vedere è, fuori di figura, l’indifferenza nei confronti dei torti, dei mali e delle sofferenze, come per i potenti di Amitav Ghosh, il quale doveva pensare a questi temi quando scelse il titolo del libro in cui denuncia la nostra assoluta irresponsabilità di fronte alla portata del rischio planetario che stiamo correndo.
[24] J. Whyndham, Il giorno dei trifidi, Mondadori, Milano, 1975, p. 93.
[25] In particolare mi riferisco alla tesi di Giglioli secondo il quale: «C’è un trauma dove non è possibile l’azione. Il trauma è una condizione di minorità, l’esatto opposto del motto della modernità sintetizzato da Kant nel 1784: camminare eretti, divenire adulti, uscire dallo stato di minorità. La sua funzione […] è la possibilità di trovare un mito di fondazione al senso di impotenza: non posso farci nulla, sono traumatizzato»; una condizione secondo la quale la società sente che l’agire politico è impossibile non perché proibito ma perché ineffettuale, il che rende la società incapace di affrontare la sfida di una modernità partecipata e civile. Cfr. D. Giglioli, Stato di minorità, Laterza, Roma-Bari, 2015, p. 39.
[26] La «tranquillizzazione etica» è quella che orienta le azioni all’essere dei “mezzi” e non al dover essere dei “fini”, offrendo così vie di fuga per gli impulsi morali. «Essa viene offerta in un pacchetto che comprende alleggerimento della coscienza e cecità morale» scrive anche Bauman. E ancora: «Il prezzo da pagare per i “tranquillanti etici” è il trasferimento del precetto etico nel regno del “grande ignoto”, nel quale maturano le catastrofi che non è in potere degli uomini prevedere e contrastare». Cfr. Z. Bauman, op. cit., p. 113.
[27] J. Christopher, La morte dell’erba, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2014, p. 42.
[28] Ibidem.
[29] Ivi, p. 43.
[30] Ibidem.
[31] Ivi, p. 122.
[32] Ivi p. 172.
[33] Ivi, in Introduzione, p. 9.
[34] Si veda in proposito come Jack London illustra nel personaggio del cane che l’istinto principale della natura, quello che determina quali specie sono adatte alla sopravvivenza, opera uno strappo dagli inutili orpelli morali e che la nostra natura umana (rispecchiata nel cane) è continuamente sollecitata a operare una scelta tra le due forze opposte che l’attraggono, scelta che porterà Buck nel mondo selvaggio e Zanna Bianca, al contrario, verso il mondo dell’uomo: «Come cane civilizzato [Buck] sarebbe morto per un principio morale, per esempio per difendere il frustino del giudice Miller; ma la sua facoltà di deflettere da un principio morale per salvarsi la pelle stava ora a dimostrare la compiutezza del suo imbarbarimento», in J. London, Il richiamo della foresta, Bompiani, Milano, 2015, p. 41.
[35] D. Giglioli: «Non è un caso che le utopie latitino nella cultura contemporanea, mentre prosperano le distopie e le apocalissi. È più facile, ha detto una volta Fredric Jameson, immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo», in op. cit., p. 50.
[36] D. Cordle, Late Cold War Literature and Culture: The Nuclear 1980s, Palgrave Macmillan, London, 2017, pp. 88-89.
[37] J. London, La peste scarlatta, Adelphi, Milano, 2009, p. 14
[38] Ivi, p. 15.
[39] Ivi, p. 17.
[40] Cfr., tra gli altri, il saggio Il flusso umano, raccolto in J. London, I diari dell’apocalisse, Piano B edizioni, Prato, 2014, pp. 11-31.
[41] Cfr. M. Augé: «Davanti allo spettacolo dei ruderi, quella che percepiamo è l’impossibilità di apprendere la storia; op. cit., p. 51.
[42] P. Cataldi, Cormac McCarthy, La strada (2006), in «Allegoria», n. 63, 2011, p. 207.
[43] C. McCarthy, La strada, Einaudi, Torino, p. 131.
[44] M. Augé, op. cit., p. 11.
[45] È la tesi di Kermode, secondo la quale la crisi non è più sentita come imminente, ma come immanente, ossia costitutiva al mondo contemporaneo.
[46] «La coscienza morale, che tanti dissennati hanno offeso e molti di più rinnegato, esiste ed è esistita sempre, non è una invenzione dei filosofi del Quaternario, quando l’anima non era ancora che un progetto confuso»; in J. Saramago, Cecità, Feltrinelli, Milano, 2015, p. 25.
[47] Il tema del non umano è riconducibile al tema del mostro, apparizione apocalittica simbolo di imperscrutabilità che genera impotenza fin dalle apocalissi giudaico-cristiane (il Drago, la Bestia del mare), ma si ripercuote lungo tutto il secolo (lo zombie, il vampiro sono gli esempi più evidenti).
[48] S. King, Danse macabre, op. cit., pp. 419-425.
[49] D. Coupland, Le ultime 5 ore, ISBN edizioni, Milano, 2002, p. 170.
[Immagine: John Hillcoat, The Road].
In questa bella analisi e necessaria manca un poeta: Camillo Sbarbaro
“ Lunedì 23 luglio 2007 – Poi trovo qualcosa di penoso e, insieme, di illuminante. Alla data del 15 aprile 1993, Anceschi annota: « Il momento è importante e inquietante: su tutti i piani il paese è in malessere – e si tratta di un malessere profondo e radicale. Un ragazzo del ‘77 aveva scritto su un muro a poco a poco apocalisse. E quest’aria tesa e sporca in cui siamo immersi si inquieta in un vento mefitico che sembra portare in ogni cosa confusione, corruzione, caos e disordine morale. ». Quanto la frase l’abbia colpito lo si vede pochi mesi dopo, quando, alla data del 28-30 settembre, scrive: “ « A poco a poco apocalisse » si trovò scritto sui muri dell’Università nel 1968. Non lo dimentico. “. Io, che credo di riconoscere in quella frase la manaccia semianalfabetica ma tanto « creativa » di un settantasettino, arrossisco per il povero vecchio: come fece a non accorgersi che quell’« apocalisse » era soprattutto un gioco di parole, cioè che, più che l’Evangelista, era, come sempre, Totò? E come ho fatto a non capirlo io? Io, per la verità, l’ho anche capito. Comunque ormai l’apocalisse c’è stata. A poco a poco si capisce, anche se capirlo non serve a niente. “.
“Comunque ormai l’apocalisse [della sinistra] c’è stata. A poco a poco si capisce, anche se capirlo non serve a niente. “.
Meglio “composita solvantur”. Ergo “proteggete le nostre verità” (dalle troppo facili apocalissi).
“ Mercoledì 7 gennaio 2004 – Poi trovo il solito libro-per-caso. Leggo: « L’industria culturale, come vedremo, appare con Gutemberg [sic] e con l’invenzione della stampa a caratteri mobili, e prima ancora. » (Umberto Eco, Apocalittici e integrati, 1964 – Prefazione, p. 8). Ringrazio la mamma, la nonna, la mia maestra, e tutti coloro che mi hanno insegnato a leggere, perché sono convinto di avere, ancora una volta, letto benissimo. Quello che ho letto è un errore, apparentemente è un refuso, ma che non lo sia si capisce quando lo si ritrova identico nella pagina successiva (9). Comunque un errore di ortografia, che sia del tipografo o dello scrittore significa sempre qualcosa, è un segno, un sintomo. Ma io non sono un medico, non sono qui per curare nessuno, io sono uno che legge e basta. E, se leggo « Gutemberg », penso che chi l’ha scritto ha un problema con Gutenberg, cioè con l’invenzione della stampa, cioè con i libri. Io penso insomma, ecco, che per scriverlo bisogna odiare i libri. Proprio così. È un po’ forte, lo so, sembra impossibile pensarlo trattandosi di uno scrittore famoso e anche di un rinomato bibliofilo – sì, credo che in questo caso il tipografo sia innocente -, ma questo è esattamente quello che penso. (Una piccola apocalisse) “. [*]
[*] Per farti capire, Ennio, le apocalissi che interessano a me.
Errata corrige:
“ Mercoledì 7 gennaio 2004 – Poi trovo il solito libro-per-caso. Leggo: « L’industria culturale, come vedremo, appare con Gutemberg [sic] e con l’invenzione della stampa a caratteri mobili, e prima ancora. » (Umberto Eco, Apocalittici e integrati, 1964 – Prefazione, p. 8). Ringrazio la mamma, la nonna, la mia maestra, e tutti coloro che mi hanno insegnato a leggere, perché sono convinto di avere, ancora una volta, letto benissimo. Quello che ho letto è un errore, apparentemente è un refuso, ma che non lo sia si capisce quando lo si ritrova identico nella pagina successiva (9). Comunque un errore di ortografia, che sia del tipografo o dello scrittore significa sempre qualcosa, è un segno, un sintomo. Ma io non sono un medico, non sono qui per curare nessuno, io sono uno che legge e basta. E, se leggo « Gutemberg », penso che chi l’ha scritto ha un problema con Gutenberg, cioè con l’invenzione della stampa, cioè con i libri. Io penso insomma, ecco, che per scriverlo bisogna odiare i libri. Proprio così. È un po’ forte, lo so, sembra impossibile pensarlo trattandosi di uno scrittore famoso e anche di un rinomato bibliofilo – sì, credo che in questo caso il tipografo sia innocente -, ma questo è esattamente quello che penso. (Una piccola apocalisse) “. [*]
[*] Per farti capire, Ennio, le apocalissi che interessano a me.
@ adriano
Ma le piccole apocalissi hanno legami o no con le grandi?
Non voglio scendere al *se non è zuppa e pan bagnato* ma…
E poi è così vero che tu – non essendo un medico, non stando qui ( su LPLC o in Italia o nel “mondo”?) per curare nessuno ( ma sei sicuro che oggi c’è gente che voglia farsi “curare” o che va curata?) – leggi e basta?
A mio parere e *a modo tuo* fai il medico, ti prendi cura (della lingua, come minimo) e leggi *per scrivere* o scrivi per *leggere meglio”.
Ma certo, caro Ennio, io mi curo, curo me ipsum, non faccio altro che curarmi. Sapendo di essere malato, come tutti, del resto. O no?
Bel saggio proprio, buona lettura e un numero decente di segnalazioni, grazie.
Non sono un esperto di letteratura post-catastrofica, ma pensando alle gioie possibili di scrivere una storia del genere, una delle cose che mi viene in mente subito è l’esplorazione di un posto molto vasto senza troppa gente intorno, senza molte regole a parte le leggi fisiche e le condizioni di sopravvivenza, una specie di gigantesca stanza dei giochi tutta per me dotata di angolo cucina e rubinetti funzionanti. Mi pare che la maggior parte degli autori citati qui nel pezzo (mi sono documentato un po’) siano in diversa misura begli esempi di misantropia e auto-reclusione, può essere che stessero solamente andando di immaginazione perché un po’ troppo impauriti ad uscire di casa?
Considereresti un viaggio enorme nella memoria un romanzo post-catastrofico? Metti caso, con un prologo in cui il protagonista viene presentato solo con la sua mente per qualche ineffabile, grandioso shock che ha colpito l’umanità?