di Clotilde Bertoni
[Nato il 7 febbraio 1812, Charles Dickens ha appena compiuto duecento anni. Ma forse, nonostante le apparenze, non li dimostra. Questo articolo è uscito la settimana scorsa su «Alias»]
Aristocratici reazionari, borghesi rapaci, circoli del bel mondo asfittici come il carcere che alcuni dei loro membri rischiano, proletari preda di biechi sfruttatori e quasi altrettanto biechi filantropi, democrazia parlamentare ridotta a beghe tra fazioni per cui il popolo è «folla di persone in soprannumero»: l’attacco sferrato alla società moderna dal realismo ottocentesco è raramente ramificato e amaro come nel Dickens convertito dalla vulgata in scrittore edificante, in vanto dell’onesta Inghilterra omologabile – per dirla con Edmund Wilson, tra i primi a sottolinearne la complessità – a «una battuta di spirito tradizionale, un piatto favorito, un rituale natalizio».
La potenza della sua polemica sociale non deriva tanto dalle critiche circostanziate frutto dell’esperienza giornalistica, quanto da uno spregiudicato sguardo complessivo, che sa oltrepassare la vischiosità dei topoi più familiari. In Casa desolata la deleteria inefficienza della legge non prende la forma del processo penale ma quella assai meno ricorrente della controversia civile, balza non da conflitti accesi tra le ragioni degli imputati e la rigidità delle norme, ma dallo stiracchiamento di cause estenuanti, imperscrutabili come la nebbia londinese su cui la storia si apre, e capaci di un irradiamento altrettanto pervasivo, in grado di stritolare la vita o deviarla in partenza (il giovane Richard Carstone – precursore dello Zeno sveviano nei volubili passaggi da una vocazione professionale all’altra – sembra aver mutuato la sua indeterminatezza dalle incertezze interminabili del tribunale sul testamento che lo riguarda). Nella Piccola Dorrit il corso imponderabile del capitalismo, il gioco illusionistico delle speculazioni si incarnano non in figure titaniche di grandi affaristi, ma in una sorta di centro vuoto, il Merdle «finanziere-colosso» «con l’aria di un povero diavolo», misterioso per i personaggi come per i lettori, prima fiore all’occhiello poi capro espiatorio della buona società a cui prospetta favolosi miraggi di guadagno per farli quindi naufragare in una clamorosa bancarotta fraudolenta. Soffermandosi non solo sui picchi eccezionali, ma anche sui volti mediocri, quotidiani e opachi dell’abuso, la narrativa dickensiana ne mette più vigorosamente a fuoco la portata, l’insinuazione subdola in tutte le sfere della realtà.
Beninteso, sempre all’interno di intrecci esuberanti e macchinosi, sempre nella morsa di quegli elementi che vengono già rinfacciati all’autore da Thackeray, Poe, Lewes, che inducono James a definirlo il più grande dei romanzieri superficiali, che suscitano lo sbalordimento di Zweig e l’ironia di Orwell: le inverosimiglianze e le incoerenze, i simbolismi possenti quanto elementari, i cattivi ripugnanti fino allo spasimo, i buoni stucchevoli fino alla nausea, le conclusioni che assegnano a ognuno la sorte che gli spetta; insomma l’ostentazione di una perentoria giustizia poetica, che appare risposta decisamente lineare e semplicistica alle magagne di quella istituzionale.
Ma, come succede con i grandi scrittori, i conti non tornano così facilmente: le trame destinate ai palati forti del grosso pubblico (per l’autore riferimento imprescindibile) richiedono anche un assaporamento fine; la giustizia poetica che le corona risulta sempre più lontana dalla chiarezza della sentenza, sempre più simile a una formazione di compromesso tra la riaffermazione di valori invalsi e l’affondo nella varietà dell’esperienza e nelle ambiguità dei sentimenti. Le opere della maturità illustrano i limiti del buon cuore (la generosità circoscritta e inefficace del John Jarndyce di Casa desolata), scrutano le ragioni della perversità (i villains tormentati di Nostro comune amico e del Mistero di Edwin Drood), svelano le zone d’ombra dei rapporti (la morte della prima moglie di David Copperfield non è scontato dramma romantico ma unica via d’uscita da un’illusione amorosa che non ha retto al tempo), e, se non riescono a scansare l’happy end (celebre la riscrittura di Grandi speranze), lo rendono fragile e antiidillico: il cantuccio di felicità prosaica assegnato ai personaggi positivi, ritenuto da parte della critica tipica celebrazione della moderazione e del conformismo inglesi, può essere visto, piuttosto, come unica replica possibile al caos della modernità, la cui evidente insufficienza ne fa maggiormente emergere la carica di angoscia.
Il Dickens che delizia lettori a profusione con il suo noto sfavillante umorismo, dimostra un umorismo più sottile depistandone le attese, somministrando loro morali classiche disseminate di impliciti dubbi, narrazioni dense di grovigli irrisolti e sensi oscuri quasi quanto le scartoffie giuridiche di cui si beffano; ma, diversamente da quelle, infinitamente aperte al godimento, e infinitamente disponibili all’interpretazione.
[Immagine: Treno metropolitano a Londra negli anni Cinquanta dell’Ottocento (gm)]
Il pezzo di Tilli Bertoni ci ricorda un principio basilare dell’approccio critico ai testi letterari e alla questione del giudizio di valore: nei grandi scrittori i conti non tornano. E, proprio per questo, sia quelli accantonati dai canoni oscillanti sia quelli dalle medesime oscillazioni premiati stabilmente come”classici” , meritano e necessitano di riletture e nuove interpretazioni. Il Dickens che palesemente delizia il suo largo pubblico con il suo “sfavillante umorismo”, a un livello più profondo dimostra un umorismo ben più sottile e segreto, capace, se percepito, di depistare e inquietare il suo stesso orizzonte d’attesa. C’è da chiedersi quanto la sottile carica d’angoscia nascosta dal ricorso all’happy end sia sotto il controllo delle forze vigile dell’autore e quanto pertenga viceversa a un ordine inconscio, individuale o collettivo. Come nella casa dell’avaro in “Il nostro comune amico”, la consunzione e la morte possono essere generate dalla non-vita, dal non-uso, quanto in quella di altri avari ottocenteschi dall’eccessiva fruizione, dal logoramento….
David Copperfield (1965) (TV)
(notare il “piccolo fuggiasco perseguitato”, e anche il “Forti? E credi che ci si riesca sempre?”)
ps: ho appena letto che Majano “sceneggiò”, fra i moltissimi, anche Delitto e castigo (’63), La cittadella (’64), La fiera della vanità (’67); visti tutti in diretta; erano i primi anni Sessanta
Adelelmo
L’anniversario dickensiano si rivela, in questa articolata panoramica, un’occasione per mostrare le ambiguità sottese al macrotesto splendidamente entertaining dello scrittore, il lato oscuro che non ci abbandona da quando abbiamo incontrato l’evaso Magwitch nella palude insieme a Pip. In Bertoni risuona l’eco dell’ironia artigiana con cui Fruttero e Lucentini misero mano al mistero incompiuto di Edwin Drood, incorniciandone la riscrittura in un esilarante convegno di studiosi dickensiani. Ora che con l’ebook torna il romanzo a puntate, la lezione di complesso equilibrio fra critica sociale e fascinazione narrativa riscontrabile anche del Dickens più a lieto fine potrebbe fornire utili spunti.
Aggiungo questa tessera sull’argomento delle letture dickensiane, e di quanto si non canonicamente dickensiano c’è in Dickens.
Cos’è l’immanenza? Una vita… Nessuno meglio di Dickens ha raccontato cos’è “una” vita, dove l’articolo indeterminativo è indice del trascendentale. Una canaglia, un cattivo soggetto disprezzato da tutti, è ridotto in fin di vita; ed ecco che quelli che se ne prendono cura mostrano una sorta di sollecitudine, di rispetto, di amore per il minimo segno di vita del moribondo. Tutti si danno da fare per salvarlo, al punto che nel più profondo del suo coma il malvagio sente qualcosa di dolce penetrare in lui. Ma, via via che si riprende i suoi salvatori diventano sempre più freddi, e lui riacquista tutta la sua volgarità, la sua cattiveria. Tra la sua vita e la sua morte c’è un momento in cui “una” vita gioca con la morte e nient’altro. La vita dell’individuo ha lasciato il posto a una vita impersonale, e tuttavia singolare, che esprime un puro evento affrancato dagli accidenti della vita esteriore e interiore, ossia dalla soggettività e dall’oggettività di ciò che accade. “Homo tantum” di cui tutti hanno compassione e che conquista una sorta di beatitudine. È un’ecceità, che non deriva più da una individuazione, ma da una singolarizzazione: vita di pura immanenza, neutra, al di là del bene e del male, poiché solo il soggetto che la incarnava in mezzo alle cose la rendeva buona o cattiva. La vita di questa individualità scompare a vantaggio della vita singolare immanente a un uomo che non ha più nome, sebbene non si confonda con nessun altro. Essenza singolare, una vita…
[da Gilles Deleuze, L’immanenza: una vita…]
Chiedo scusa se intervengo una terza volta, di cui due abbastanza improprie, ma fino a un certo punto. Per non pochi degli anni ’50 (sono assai certo di questo) Dickens è stato davvero una lettura importante (i suoi libri erano fra i più gettonati come regalo per compleanni e natali e simili ). E “l’attualità di Dickens” l’ha mostrata un poco Polanski quando fece, nel 2005, Oliver Twist; un film sicuramente all’opposto del Dickens televisivo, di cui ho postato un frammento. Ma era anche passato quasi mezzo secolo. E altra cosa ancora fu il Pickwick televisivo di Gregoretti del ‘68, più al passo decisamente coi tempi, e con il regista nella scena del romanzo dei gentiluomini “in viaggio d’istruzione”. Ma leggere David Copperfield, Oliver Twist, il Circolo Pickwick fu davvero una cosa speciale. Probabilmente fu anche un fatto di costume, ma questa è un’altra faccenda ancora, di cui non so minimamente dire, anche se le riduzioni televisive un poco la testimoniano .
Nel ricordo di lettore giovanissimo, quaranta e passa anni dopo, penso che ha ragione Clotilde Bertoni quando scrive che: “l’attacco sferrato alla società moderna dal realismo ottocentesco è raramente ramificato e amaro come nel Dickens convertito dalla vulgata in scrittore edificante”, però è anche vero che avvisandoci Dickens un poco ci consegnava un “cantuccio di felicità” – ai suoi lettori “piccoli” e “fuggiaschi”.
Un cordiale saluto
Grazie davvero agli intervenuti: suggerimenti e spunti molto diversi, e d’altra parte, direi, con una costante di fondo, il senso dello scarto tra il piacere infinito dell’affabulazione dickensiana e la complessità delle sue tensioni sotterranee.
Sono d’accordo con Zinato, va sicuramente considerato il livello inconscio, sia individuale sia collettivo; ma secondo me, almeno fino a un certo punto, Dickens gioca consapevolmente a proporre diversi strati di lettura, a disseminare ambiguità nella chiarezza apparente.
Grazie a Francucci per la tessera deleuziana e a Vincenzo per il riferimento alla Verità sul caso D., un libro delizioso che andrebbe rivalutato (o meglio valorizzato, non credo sia stato mai apprezzato più di tanto); Ruggieri ha ragione nel ricordare l’importanza avuta da grande e piccolo schermo per la circolazione dell’autore (il Pickwick di Gregoretti è una mia vecchia curiosità, non sono mai riuscita a ripescarlo).
Corroso dai decenni nella rete c’è un frammento del Pickwick televisivo-corrosivo di Gregoretti:
http://www.letteratura.rai.it/articoli/il-circolo-pickwick-di-ugo-gregoretti/13585/default.aspx
Recente su Dickens:
http://www.francobuffoni.it/audio_franco_buffoni_radioscienza.aspx
Chiedo a Federico Francucci che ha riportato la citazione di Gilles Deleuze su Dichens: in quale romanzo di Dichens si parla di “una canaglia, un cattivo soggetto disprezzato da tutti, è ridotto in fin di vita”. Mi può dire, signor Francucci, in quale romanzo Dickens parla di questo moribondo?