di Pierre Bourdieu
[È uscita da poco, per Meltemi, la traduzione italiana del saggio di Pierre Bourdieu sulla fotografia, Un’arte media. Saggio sugli usi sociali della fotografia. Queste sono alcune pagine dell’introduzione]
Si potrebbe dire della fotografia ciò che Hegel diceva della filosofia: “Nessun’altra arte, nessun’altra scienza è esposta a così supremo disprezzo che chiunque presume di possederla d’un tratto”4. A differenza da attività culturali più esigenti, come il disegno, la pittura o la pratica di uno strumento musicale, a differenza perfino dalla frequenza ai musei o dall’ascolto ai concerti, la fotografia non presuppone né la cultura trasmessa dalla Scuola, né il tirocinio e il “mestiere” che conferiscono pregio ai consumi e alle pratiche culturali comunemente ritenute più nobili, escludendone i non iniziati5.
Niente si oppone più direttamente all’immagine comune della creazione artistica come l’attività del fotografo amatore, che spesso chiede all’apparecchio di compiere al suo posto il maggior numero possibile di operazioni, identificando il grado di perfezione della macchina che utilizza con il suo grado di automatismo6. Tuttavia, sebbene la produzione dell’immagine sia interamente devoluta all’automatismo dell’apparecchio, l’inquadratura rimane una scelta che impegna valori estetici ed etici: se, astrattamente, la natura e i progressi della tecnica fotografica tendono a rendere ogni cosa oggettivamente “fotografabile”, ciò non toglie che di fatto, nell’infinità teorica delle fotografie tecnicamente possibili, ogni gruppo selezioni una gamma precisa e definita di soggetti, di generi e di composizioni. “L’artista, dice Nietzsche, sceglie i suoi soggetti: è il suo modo di lodare”7. Poiché è una “scelta che loda”, poiché rappresenta l’intenzione di fissare, cioè solennizzare ed eternizzare, la fotografia non può essere esposta ai rischi della fantasia individuale e pertanto, con la mediazione dell’ethos, interiorizzazione delle regolarità oggettive e comuni, il gruppo subordina questa pratica alla regola collettiva, in modo tale che la minima fotografia esprime, oltre le intenzioni esplicite di chi l’ha fatta, il sistema degli schemi percettivi, di pensiero e di valutazione comune a tutto un gruppo.
In altri termini, l’area di tutto ciò che si propone a una determinata classe sociale come realmente fotografabile (cioè, il contingente di fotografie “fattibili” o “da fare”, in opposizione all’universo delle realtà oggettivamente fotografabili, date le possibilità tecniche dell’apparecchio) risulta tracciata da modelli impliciti che si lasciano cogliere attraverso la pratica della fotografia e il suo prodotto, poiché essi determinano oggettivamente il senso che un gruppo conferisce all’atto del fotografare come promozione ontologica di un oggetto percepito in oggetto degno di essere fotografato, cioè fissato, conservato, comunicato, esibito e ammirato. Le norme che organizzano la cattura fotografica del mondo secondo l’opposizione tra il fotografabile e il non fotografabile sono indissociabili dal sistema di valori impliciti propri di una classe, una professione o una scuola artistica, e di cui l’estetica fotografica costituisce sempre un aspetto malgrado la sua disperata protesta d’autonomia. Capire adeguatamente una fotografia, abbia essa per autore un contadino corso, un piccolo borghese di Bologna o un professionista parigino, non significa soltanto cogliere i significati che proclama, cioè in una certa misura le intenzioni esplicite dell’autore, ma soprattutto decifrare il sovrappiù di significato che tradisce in quanto partecipe del simbolismo di un’epoca, d’una classe o d’un gruppo artistico.
Considerato che, a differenza delle attività artistiche pienamente consacrate, come la pittura o la musica, la pratica della fotografia è ritenuta accessibile a tutti, dal punto di vista tecnico come da quello economico, e chi vi si dedica non si sente affatto legato a un sistema di norme esplicite e codifica- te che definiscano la pratica legittima nel suo oggetto, le sue occasioni e la sua modalità, l’analisi del significato soggettivo o oggettivo che i soggetti conferiscono alla fotografia, come pratica o come opera culturale, appare un mezzo privilegiato per cogliere nella loro espressione più autentica le estetiche (e le etiche) proprie ai differenti gruppi o classi e in particolare “l’estetica popolare” che vi si può eccezionalmente manifestare.
In effetti, quando tutto farebbe credere che questa attività senza tradizioni e senza esigenze sia abbandonata all’anarchia dell’improvvisazione individuale, risulta invece che niente è più regolato e convenzionale della pratica della fotografia e delle fotografie d’amatore: le occasioni di fotografare, come pure gli oggetti, i luoghi e i personaggi fotografati o la composizione stessa delle immagini, tutto sembra obbedire a norme implicite che s’impongono senza eccezione e che gli amatori accorti o gli esteti riconoscono come tali, ma solo per denunciarle come difetti di gusto o imperizia tecnica. Se nelle fotografie rigide, statiche, agghindate, maniera- te, secondo le regole di una etichetta sociale, che sfornano i fotografi delle feste in famiglia e dei “souvenir” turistici, non si è saputo riconoscere quel corpo di regole implicite o esplicite che definiscono le estetiche, bisogna darne la colpa a una definizione veramente troppo restrittiva (e socialmente condizionata) della legittimità culturale. Le occupazioni più banali lasciano sempre un margine ad azioni che nulla devo- no alla ricerca pura e semplice dell’efficacia, e le azioni più direttamente orientate verso fini pratici possono dar luogo a giudizi estetici, nella misura in cui la maniera di raggiungere i fini perseguiti può sempre essere oggetto di una conquista specifica: esiste un bel modo di arare o di tagliare una siepe come esistono belle soluzioni matematiche o belle aperture al rugby. Così, la maggior parte della società può essere esclusa dall’universo della cultura legittima, senza essere esclusa dall’universo dell’estetica.
Anche se non obbediscono alla logica specifica di una estetica autonoma, i giudizi e i comportamenti estetici si organizzano non meno sistematicamente, ma in ordine a un principio del tutto diverso, essendo l’estetica una dimensione del sistema di valori impliciti, cioè ethos, correlativo alla classe d’appartenenza. È specifico di tutte le arti popolari subordinare l’attività artistica a funzioni socialmente regolate, laddove l’elaborazione di forme “pure”, generalmente considerate le più nobili, presuppone l’assenza di tutti i caratteri funzionali e di ogni riferimento a finalità, pratiche o etiche. Gli esteti che si sforzano di affrancare la pratica della fotografia dalle funzioni sociali a cui la grande maggioranza la subordina, in particolare la registrazione e tesaurizzazione dei “souvenir” di oggetti, persone o avvenimenti socialmente ritenuti importanti, tentano di far subire alla fotografia una trasformazione analoga a quella che hanno conosciuto le danze popolari, quando si sono trovate integrate nella forma raffinata della suite8.
Riconosciuta la fotografia come oggetto di studio sociologico, bisognava innanzitutto stabilire in che modo ogni gruppo o classe regoli e organizzi la pratica individuale, conferendole funzioni conformi ai propri interessi; non si potevano tuttavia assumere direttamente a oggetto gli individui singoli e i rapporti che essi intrattengono con la fotografia come pratica o come oggetto di consumo, senza rischiare di cadere nell’astrazione. Solo la decisione metodologica di studiare in primo luogo i gruppi reali9 doveva poi far comprendere (o impedire di dimenticare) che il significato e la funzione con- feriti alla fotografia sono direttamente connessi alla struttura del gruppo, alla sua maggiore o minore differenziazione e soprattutto alla sua posizione nella struttura sociale. Così, il rapporto che il contadino ha con la fotografia non è in ultima analisi altro che un aspetto del rapporto che egli intrattiene con la vita urbana, identificata con la vita moderna, rapporto che si attua nella relazione direttamente vissuta con l’abitante del borgo e con il “villeggiante”: se egli esplicita, dichiarando il proprio atteggiamento nei confronti della fotografia, tutti i valori che definiscono il contadino esemplare, ciò deriva dal fatto che questa attività urbana, prerogativa del borghese e del cittadino, è associata a un sistema di vita che mette in discussione il sistema contadino, costringendolo a dichiararsi esplicitamente10.
Oltre agli interessi particolari di ogni classe, anche i rap- porti oggettivi, oscuramente avvertiti, fra la classe come tale e le altre classi trovano indirettamente espressione attraverso gli atteggiamenti degli individui nei confronti della fotografia. Allo stesso modo che il contadino, respingendo la pratica della fotografia, esprime il suo rapporto con il sistema di vita urbano, rapporto entro e attraverso il quale egli sperimenta la particolarità della sua condizione, così il significato che i piccolo-borghesi conferiscono alla pratica della fotografia traduce o tradisce la relazione delle classi medie con la cul- tura, cioè con le classi superiori detentrici del privilegio delle pratiche culturali ritenute più nobili, e con le classi popolari da cui a tutti i costi cercano di distinguersi, manifestando nelle pratiche che sono loro accessibili la maggiore buona volontà culturale. Per questa ragione i membri dei fotoclub credono di nobilitarsi culturalmente tentando di nobilitare la fotografia, surrogato a loro misura e a loro portata delle arti nobili, e insieme di ritrovare nella disciplina del gruppo quel corpo di regole tecniche ed estetiche di cui si sono privati respingendo come volgari quelle che reggono la pratica po- polare. Il rapporto esistente fra gli individui e la pratica della fotografia è per sua natura mediato, poiché comporta sempre il riferimento al rapporto che i membri delle altre classi in- trattengono con la fotografia, e da lì a tutta la struttura dei rapporti fra le classi.
Cercare di superare le astrazioni di un oggettivismo falsamente rigoroso al prezzo di uno sforzo per ristabilire i sistemi di relazioni adombrati dietro le totalità precostruite, significa tutt’altro che cedere alle seduzioni dell’intuizionismo il quale, risvegliando le abbaglianti evidenze della falsa familiarità, non fa che trasfigurare, nel caso particolare, le banalità quotidiane sulla temporalità, l’erotismo, la morte in presunte analisi essenziali. Dal momento che la fotografia si presta poco, almeno in apparenza, a uno studio specificamente sociologico, essa fornisce la sospirata occasione di sperimentare che il sociologo, dedito a decifrare ciò che è sempre soltanto senso comune, può occuparsi dell’immagine senza diventare visionario. Che cosa rispondere, a quelli che si aspettano che la sociologia procuri loro delle “visioni”, se non, con le parole di Max Weber, “che vadano al cinema”?
4 G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Prefazione, Laterza, Bari 1954.
5 8.135.000 apparecchi in uso, cioè uno almeno ogni due famiglie, 845.000 apparecchi venduti ogni anno in Francia: bastano queste cifre a testimoniare l’immensa diffusione che la pratica della fotografia deve alla sua accessibilità.
6 I giudizi sulla fotografia contengono, da una parte, tutta la filosofia po- polare a proposito dell’oggetto tecnico e, più precisamente, automatico, e dall’altra autentiche “teorie” estetiche spontanee: per esempio, il rifiuto così frequente di considerare la fotografia come un’arte deriva tanto da una defini- zione sommaria dell’apparecchio fotografico in quanto automatico, come da una rappresentazione accentuatamente etica dell’attività artistica.
7 F. Nietzsche, La gaia scienza, Mondadori, Milano 1971.
8 Ma gli sforzi per arrivare a una fotografia “pura”, dotata di un’estetica autonoma, cadono spesso nella contraddittorietà perché il rifiuto di ammettere e di assumere ciò che costituisce la specificità dell’atto del fotografare, ma anche la sua accessibilità, porta a mutare le norme estetiche di arti consacrate, come la pittura.
9 Nel corso del 1960 sono state realizzate tre monografie che riguardavano l’una un villaggio bearnese, l’altra alcuni operai delle officine Renault, e la terza due fotoclub della provincia di Lille. In tutti e tre i lavori, si è ricorso soprattutto all’osservazione prolungata e all’intervista libera.
10 La percentuale di praticanti passa dal 39% nelle città con meno di 2.000 abitanti al 61% nelle città da 2.000 a 5.000 abitanti.
[Immagine: Spettatori a una mostra di Thomas Ruff]
“ 30 maggio 1994 – « Fatte fa fo / fatte fa fo / fatte fotografà » (Canzone napoletana) “.
“un piccolo borghese di Bologna” ?
(Ma non fa niente, tanto, raramente mi è capitato di leggere un testo così inutile.)
“Cercare di superare le astrazioni di un oggettivismo falsamente rigoroso al prezzo di uno sforzo per ristabilire i sistemi di relazioni adombrati dietro le totalità precostruite, significa tutt’altro che cedere alle seduzioni dell’intuizionismo il quale, risvegliando le abbaglianti evidenze della falsa familiarità, non fa che trasfigurare, nel caso particolare, le banalità quotidiane sulla temporalità, l’erotismo, la morte in presunte analisi essenziali.”
Eh?
“ 16 maggio 1994 – « 19 dicembre 1917 – Passeggiata al Summano, fotografie sui giornali: i nostri che si avviano alla trincea, ma non dice, la fotografia, le bestemmie e le ironie che escono dalla bocca dei soldati… tutto questo per il riso… ci vorrebbe una fonografia, non una fotografia, sui giornali! » (Ernesto Tomei, Diario di guerra) “.