di Paolo Gervasi

[Paolo Gervasi ha appena pubblicato per luca sossella editore il libro Vita contro letteratura. Cesare Garboli: un’idea della critica. Pubblichiamo di seguito un estratto dalla conclusione].

L’Apostolo ci dice che in principio era il Verbo. Non ci dice nulla per quanto riguarda la fine.

George Steiner, Linguaggio e silenzio, 1985

Ho dato a questo libro un titolo dissonante, sghembo, anacronistico nella scelta lessicale e nella formula nettamente oppositiva, irricevibile se intesa letteralmente. Si potrebbe quasi dire un titolo provocatorio, se la definizione non suonasse ridicola a causa dell’assoluta mancanza di qualcuno disposto, di questi tempi, a lasciarsi provocare per cosí poco. Comunque un titolo che, arrivati alle ultime pagine, richiede forse qualche spiegazione ulteriore.

Vita contro letteratura mi è sembrato un titolo sbagliato nello stesso modo in cui sbagliati appaiono quasi tutti i saggi di Garboli se guardati frontalmente, se non inclinati alla ricerca di un’immagine nascosta. E quindi è diventato un titolo giusto perché riproduce l’effetto ottico della critica di Garboli, che vista obliquamente rivela un significato diverso da quello che appare secondo una prospettiva centrale. Applicare alla saggistica di Garboli la stessa inclinazione conoscitiva che egli applicava alle opere letterarie era del resto la mossa interpretativa di apertura di questo lavoro.

Vita è una delle parole-chiave della critica di Garboli; la vita è la sua preoccupazione fondamentale, ma mai in sé: sempre in relazione alla letteratura, nel suo rapporto di tensione con la letteratura. Nel sistema semantico dei saggi di Garboli la vita compare nelle diverse accezioni di nuda esperienza biografica, di trauma ineliminabile della presenza fisica nel mondo, di insieme dei fatti biologici che determinano le esistenze individuali, di fenomeno relazionale che combina in agglomerati sociali le monadi umane. A questa stratificata idea della vita Garboli ricorre spesso per contrapporla alle mistificazioni della letteratura, per smascherare il potere trasfigurante e virtualizzante dell’immaginario. Eppure il continuo lavoro di decostruzione che Garboli oppone all’autonomia del letterario non va interpretato come una liquidazione del valore conoscitivo della letteratura, come una negazione della sua validità; al contrario, la possibilità di guardare, anamorficamente, alla vita attraverso la letteratura, l’ostinazione nel cercare nelle cose scritte le tracce esperienziali, materiali, impure, che puntano a qualcosa che sta oltre la letteratura, che la precede e le sopravvive, non fanno che confermare il valore insopprimibile dell’arte, la sua necessità quasi fisiologica per la vita umana.

La vita resta incomprensibile, impercepibile, se non trova il modo di tradursi in una forma scritta. Mentre la scrittura resta illeggibile se non mostra in trasparenza, come fosse uno specchio d’acqua, il fondale della vita che le dà forma. Il titolo di questo libro, in definitiva, Vita contro letteratura, è comprensibile solo in anamorfosi: il richiamo alla vita proietta la letteratura fuori da se stessa per aumentarla di un significato esterno, di uno spessore che la àncora all’esperienza umana. La contrapposizione può trasformarsi in un’alleanza, anche considerando che Garboli, quando rifiuta il titolo Contro-Novecento per il libro che sarebbe diventato Scritti servili, dice di non voler scrivere mai contro, ma soltanto per. E allora, perché questo libro non diventi iper-garboliano, in coda si cercherà di mostrare in che modo l’esperienza di Garboli possa suggerire un’idea della critica in grado di tenere insieme la letteratura e la vita, di capire cosa la letteratura può fare con la vita e per la vita.

La sbagliata correttezza del titolo costringe però, prima, a rispondere a un’altra domanda cui fin qui il libro non ha risposto, se non indirettamente: qual è il giudizio complessivo sulla saggistica di Garboli? La sua critica è giusta o sbagliata, coglie nel segno o manca clamorosamente il bersaglio? Aggiunge qualcosa alla conoscenza delle opere di cui parla, oppure non fa che opacizzarle e sovrascriverle, e va considerata un’operazione creativa parassitaria, da valutare, semmai, autonomamente? E anche: l’idea della critica che emerge dal lavoro di Cesare Garboli è riattivabile nel contesto attuale? Si può ricavare qualcosa dalla sua lezione? Si può riprodurre il suo metodo?

La risposta piú immediata a ognuna di queste domande probabilmente è no: non si può rifare Garboli, non c’è niente di replicabile nel suo metodo, e dopo l’attraversamento della sua opera, nonostante i lampi di intelligenza che vi si incontrano, resta perfino un po’ di irritazione, la tentazione di rifiutare in blocco la sua critica vischiosa, l’idea che egli si sia appropriato indebitamente, subdolamente, di scritture, temi, opere che dopo il suo passaggio tirannico non si potranno piú leggere innocentemente. Se pure Garboli ci dice qualcosa delle opere, ce le fa conoscere diverse da come le conoscevamo, aggiunge elementi di comprensione locali ed empirici, i suoi risultati non sono generalizzabili, i contorni del suo metodo si perdono in una foschia affabulatoria, e c’è innegabilmente qualcosa di condivisibile nelle obiezioni che sono state mosse al suo cannibalismo critico.

Dalla pratica saggistica di Garboli esce deformato, assumendo fattezze distorte, anche quello che è forse uno dei suoi meriti principali: l’esercizio di una instancabile critica militante, che aiuta le opere a nascere e a trovare spazio; il sostegno dato alla creatività nel suo farsi, il coraggio nel tentare di individuare valori emergenti e/o divergenti, fuori dalle gerarchie consolidate; la scrittura praticata sulla linea di avanzamento del presente, senza rete, esposta ai venti dell’attualità. La militanza però, in Garboli, non si mostra mai come tale, si camuffa da compromissione, occulta il gesto della scelta e della selezione, presentandosi quasi come una fatalità ineludibile, come una questione di destino. E quindi anche riguardo a questa parte fondamentale del momento valutativo, che Garboli ha praticato con passione autentica e offrendo intuizioni decisive, il suo esempio si presenta opaco, sfocato, inutilizzabile, inimitabile anche nel processo che porta ai risultati migliori.

Eppure, proprio in tutto questo sbagliarsi, nell’ostinazione a mettersi di traverso rispetto alle pratiche ermeneutiche autorizzate, c’è qualcosa di vitale che parla al presente e al futuro della critica. La radicalità con la quale Garboli ha interrogato, attraverso l’inquietudine del suo saggismo eretico, il senso della critica e il senso ultimo della letteratura, la radicalità che il titolo di questo libro ha voluto amplificare e rendere cubitale, è proprio ciò che può scuotere entrambe, critica e letteratura, dal torpore che alternativamente oggi chiamiamo fine o crisi. Nello stallo attuale che sembra decretare impotente l’intelligenza, nel cuore di una mutazione genetica della cultura umana, la critica dovrebbe risalire le specializzazioni, i tecnicismi, gli esercizi sterili e il trinceramento disciplinare, e tornare a porsi la stessa domanda che Garboli ha incessantemente posto alla letteratura: che cosa ha a che fare l’arte con la vita? In che modo interagisce con l’esistenza umana?

La natura elementare della domanda, la sua basilare essenzialità è resa necessaria proprio dalla situazione emergenziale che la crisi trasformativa non solo del campo artistico, ma del campo piú ampio della comunicazione, ha generato nelle pratiche della comprensione. Il complesso di cambiamenti in atto ha messo in discussione la funzione tradizionale dell’educazione estetica e, piú in generale, il ruolo dei saperi umanistici all’interno dell’economia degli scambi simbolici. La figura dell’intellettuale umanista, che ha tradizionalmente preso in carico e gestito le descrizioni dell’umano, è stata potentemente marginalizzata se non del tutto disattivata; il suo mandato sociale di interprete autorizzato dei processi sociali è stato revocato da tempo; i saperi di cui questa figura è stata custosde sono percepiti come inerti rispetto ai processi travolgenti di metamorfosi del presente.

[…]

In questo contesto, la critica può rilanciare sul valore dell’arte e della letteratura solo se torna a mostrare la coimplicazione tra le forme della vita e le forme della cultura, la rilevanza dell’elaborazione artistica del mondo per le esistenze individuali e per i destini collettivi. Riscoprire il legame con la vita tanto nel grande patrimonio culturale ereditato dal passato, quanto soprattutto nella creatività attuale, che eccede i luoghi istituzionali, sfugge alle pagine dei libri, ma non per questo scompare, o può essere dichiarata estinta. I proclami sulla morte dell’arte solitamente dicono qualcosa solo circa la miopia di chi li emette. Anche da questo punto di vista i saggi di Garboli contengono delle indicazioni da approfondire, in quanto hanno mostrato che si può cercare la creatività in luoghi decentrati e spuri, che il Novecento ha innescato un movimento di fuga dei significati dallo spazio separato della pagina, e che la critica deve imparare a riconoscere il valore dell’ibridazione dei codici, dei linguaggi, delle immaginazioni.

[…]

La letteralità con cui Garboli interpreta il legame dell’arte con la vita ritorna paradossalmente plausibile all’interno di un nuovo materialismo che considera la creatività nella sua contiguità con il funzionamento del corpo e della mente.

Per Garboli, come si è visto, il bordo della creazione coincide con i sommovimenti della fisiologia. Le forme si distaccano dalla biologia, l’arte registra il divenire cosciente della materia, la scrittura descrive l’opacità della carne. Questa serie di immagini che Garboli produce per via intuitiva sono diventate, insieme ad altre simili, ipotesi di lavoro per un ampio e diversificato campo di studi che cerca di connettere l’analisi dei processi creativi all’analisi dei processi mentali, in una prospettiva neuroscientifica. In questa prospettiva l’attività cognitiva, ovvero l’elaborazione, la comprensione e la concettualizzazione degli stimoli percettivi, è fortemente influenzata dalla situazione del corpo, è intrecciata alle risposte emotive innescate dall’interazione con l’ambiente, è radicata nei pattern che regolano l’attività cerebrale. Per estensione, la creatività, in quanto forma particolare di elaborazione e comprensione del mondo, si origina dagli stessi presupposti, è un prodotto raffinato della biologia.

Le intuizioni di Garboli sembrano cosí trovare una sorta di conferma a posteriori, un aggiornamento e una riformulazione in termini che derivano dalle scienze sperimentali e consentono di comprendere meglio e piú a fondo le sue metafore critiche, di rivalutarle alla luce di conoscenze nuove. Lo sviluppo degli strumenti di indagine, del resto, è uno dei fattori che rendono l’interpretazione della poesia mutevole nel tempo, almeno secondo quanto scrive Debenedetti nel suo generoso tentativo di giustificare le forme di incomprensione che trova nella critica di Croce:

Noi disponiamo semplicemente di altri strumenti di osservazione, e forse anche nelle discipline letterarie e umanistiche, come nella fisica, il progresso delle scoperte e delle conoscenze va di pari passo con l’affinarsi degli strumenti di osservazione. Insomma, noi possiamo, non è merito nostro, guardare la poesia coi raggi infrarossi e ultravioletti.

Le tangenze tra gli studi sull’arte e gli “strumenti di osservazione” delle scienze dure fanno emergere aspetti dell’umano invisibili a occhi nudo, permettono di percepire fenomeni precedentemente inaccessibili, e di descrivere i processi della creatività come davvero aderenti alla vita, in quanto forme di rielaborazione e di reimpiego delle funzioni biologico-cognitive fondamentali.

[…]

L’arte e la letteratura sono in questo modo un grafico della vita, in quanto ne riproducono i movimenti profondi. Stilizzare il mondo significa stabilire una relazione tra l’essere umano e il cosmo, appropriarsi dell’ambiente accordandolo al respiro (una delle possibili traduzioni del termine greco psyche, come ricorda il neurologo Antonio Damasio) del corpo e del pensiero umano. Nel rappresentarlo, la mente assorbe il mondo e lo comprende: l’arte è una forma di conoscenza. Il diaframma biologico-culturale dello stile mette in comunicazione la letteratura e la vita: natura e cultura cospirano, si alleano; la vita agisce sulla realtà attraverso la letteratura.

Nel presente della disintermediazione, dell’evaporazione del controllo esercitato sull’accesso alla presa della parola, cui si associa l’impotenza dei parametri di giudizio qualitativi e la loro sostituzione con misure quantitative, la critica può rifondare i propri criteri valutativi cercando di stabilire quali opere hanno davvero a che fare con la vita. Quali, cioè, hanno caratteristiche formali che entrano in risonanza con le modalità cognitive della mente-corpo, elaborandole e potenziandole; quali possono diventare decisive per l’interpretazione dell’esistenza umana in un dato contesto storico-culturale; quali offrono nuove possibilità di fare presa sull’ambiente.

[…]

La risposta alla domanda sull’utilità della critica allora, posta attraverso Garboli e oltre Garboli, può consistere soltanto in un rilancio delle sue prerogative in una prospettiva che è allo stesso tempo piú elementare e piú ambiziosa di quella cui siamo abituati. La critica serve a ritrovare l’elemento vitale dell’arte, il quid che parla agli esseri umani perché si sintonizza coi loro corpi e con le loro menti, perché indica loro una possibilità di comprensione e attraversamento del mondo. Gli studi letterari specialistici, i saperi tecnici che troppo a lungo si sono ostinati in una dissezione dei testi che trovava in se stessa il proprio fine, possono riaprirsi e tornare, attraverso l’analisi complessa delle forme stilistiche, mezzi di scoperta della vita nella letteratura. Strumenti di restituzione dei testi letterari alla comunità, come nell’immagine di Garboli citata proprio in apertura di questo lavoro: dal luogo sconosciuto in cui le parole cadono, “lo scrittore-lettore va a prendere quelle parole e le riporta a casa, come Vespero le capre, facendole riappartenere al mondo che conosciamo”. In gioco non c’è soltanto il destino di un insieme di discipline, o la conservazione statica del bello. C’è la possibilità di riaffermare, in un momento di inaudita espansione delle capacità poietiche della tecnica, che preme sull’immagine umana e la deforma in senso già post-umano, la centralità dell’arte nella storia profonda dell’umanità, il ruolo che ha avuto la creatività nel plasmare la mente e le sue interazioni con l’ambiente. L’unica cosa che la critica può portare nel mondo che ci aspetta al di là dell’umano, è il ricordo di come gli esseri umani fossero delle creature piene di immaginazione.

 

8 thoughts on “Vita contro letteratura

  1. “ Sabato 14 luglio 2018 – Lo so che è un po’ triste, ma di quello che ho letto finora nel libro di Rosetta Loy su Garboli – sono arrivato a pag. 46, dunque ne ho letto un terzo – , quello che soprattutto mi è rimasto in mente è la storia di quando il superstiziosissimo Cesare, restato fuori dal bar di un’area di servizio – quella, eponima degli anni Sessanta, di Roncobilaccio – perché l’entrata era stata attraversata da un gatto nero, incontrò un tizio che gli vendette un mangianastri, ma poi aperta « la confezione perfettamente sigillata, [si scoprì] che dentro c’era solo cartone compresso ». Per la verità di storie strane me ne ricordo anche un’altra, quella di quando, quando stavano in quella casa piena di gatti, in cui la regina era una gatta, la Loy dette a mangiare per errore a un gattino appena arrivato spaghetti insaporiti con cristalli di soda invece che con sale, così che il micio fu sul punto di morire, ma poi non morì, però se ne andò, e, dice l’autrice, « la “ gatta “ [tornò] a regnare senza rivali ». Che, devo ammetterlo, è una frase che mi suona un po’ strana. Sarà perché io sospetto delle femmine, gatte o scrittrici che siano. Sospetto che siano tutte, in nuce, soprattutto vedove. E, in quanto vedove, inevitabilmente allegre. Mi ha commosso anche scoprire che Garboli andava pazzo per l’Ispettore Derrick, e questo mi ha fatto capire che, in quanto a età, non era poi così lontano dalla mamma. L’episodio, invece, del mangianastri, mi ha ricordato il babbo, sia per la sua passione per gli aggeggi tecnologicamente attraenti, che per la sua propensione a essere raggirato. Che poi, in un certo senso, è la stessa cosa dell’Ispettore Derrick. In copertina c’è una foto di Cesare con un cappello in testa. Ho pensato che, a volte, anche un cappello non basta. “.

  2. “ Domenica 15 gennaio 2017 – « Sarà bene dire subito che Cesare era bellissimo e lo sapeva lasciando a volte trasparire questa consapevolezza tuffando le dita nel folto dei capelli e ravviandoli poi con un gesto che faceva pensare a una impaziente carezza. Va aggiunto che la bellezza di Garboli, diversissima ma nata sotto uno stesso cielo di quella leggendaria e pigra di Mastroianni, aveva qualcosa di svogliato quasi avesse già goduto troppo di se stessa e dei suoi privilegi. “ Uffa “ sembrava dire per lui precedendo le inevitabile avances. È possibile poi che Garboli, senza confessarselo, temesse di poter far ombra con il proprio aspetto senz’altro rimarchevole all’intellettuale e allo studioso che sapeva di essere. » (Antonio Debenedetti sul Corriere) “.

  3. “ Martedì 13 aprile 2004 – Ripenso all’articolo di Scalfari su Garboli. Ripenso al titolo: « Addio a Cesare Garboli intellettuale e moralista ». Penso: il giornalista è un necrologo. Nel senso che ti spiega anche perché, secondo lui, uno è morto. “.

  4. “ Domenica 15 luglio 2018 – Anche il titolo di un libro di Garboli, pubblicato nel ‘98, e che raccoglie i suoi scritti dal ‘72 al ‘78, Un po’ prima del piombo. Il teatro in Italia negli anni Settanta, mi dà, a dirla tutta, un po’ da pensare. Perché mi chiedo: quale sarà, esattamente, il piombo di cui si parla? Sì, certo, quello delle armi dei terroristi… Ma c’è anche – c’è stato, da un certo momento in poi, quello dei giornalisti. Che sempre piombo è, anche se nei giornali il piombo non si usa più, ormai da tanto tempo – ma in quei corruschi anni Settanta ancora si usava. È un piombo quello, che, anche se non ferisce, anche se non uccide, può risultare comunque troppo pesante, micidialmente pesante per un’entità lieve e immateriale come quella del teatro, che, come si sa, è fatto della stessa materia dei sogni. Quello che mi piacerebbe sapere è perché il correttore automatico, che corregge sempre tutto, non mi ha corretto quando ho scritto “ terrorosti “. Chissà, forse, quel perspicace lettore ha pensato che anche gli osti non scherzano, che anche l’ospitalità non è un pranzo di gala. Osti della malora… “.

  5. “ Domenica 15 luglio 2018 – Giunto quasi alla fine della lettura del libro della Loy, ho voglia di fare il punto su quello che ho letto. Quello che mi ha accompagnato dall’inizio alla fine è stata una strana sensazione di imbarazzo. L’imbarazzo di assistere a una vicenda, a me quasi totalmente contemporanea, ma dipanatasi in una strana vicinanza-lontananza. Quei viaggi, quegli alberghi, quei ristoranti, quegli anni, soprattutto, i Sessanta, i Settanta. Come se, in qualche stranissimo modo, io avessi vissuto qualcosa di simile, o, comunque, di altrettanto strano. Oppure di altrettanto vano, nel senso di « a fondo perduto », di dissipato, di rovinoso. Strano, anzi forse è meglio dire strambo. Ecco io, alla fine della lettura del libro di Rosetta Loy, mi sono fatto l’idea che Cesare Garboli fosse un tipo strambo. Intendiamoci: lussuosamente, in ogni senso, strambo. Si può essere strambi in più di un modo, nel mio, per esempio, che è di scarso interesse, o in quello di Garboli, sontuoso, immaginoso, favoloso. Cioè letterario. Nel senso che forse la letteratura coincide sempre, almeno un po’, con la stramberia. Il punto è che per uno strambo come lui ci sono sempre migliaia di assennati, anzi assennatissimi. E questa è l’università. Ed è giusto così. Io, comunque, a differenza di Garboli sono uno che pensa male, persino troppo male. Per esempio penso che Garboli ha dato un contributo notevole alla « strambizzazione », mi si passi il termine, della letteratura. E in fondo è esattamente per questo che l’ho incontrato, perché, come ho già detto, inclino allo strambo anche io. E però non c’è niente di cui rallegrarsi. C’è solo da sospettare, in tutti i sensi: « 19 maggio 1994 – Spinto da un articolo su “Paragone” riprendo in mano i Diari di Delfini. Quello che cerco non è però Delfini, ma Garboli. Occuparsi degli scrittori sfigati (cfr Penna papers), occuparsi degli scrittori: a che titolo? a che scopo? Non lo capisco più. (“ Eravamo l’uno per l’altro due finti padri e due veri figli “, dice Garboli. Mi sembra una frase bugiarda o perlomeno insincera) (Questi Diari usciti nell’’82 volevano essere la replica dell’” operazione Pavese “ di trent’anni prima?) (Oppure: non c’è problema) “. Mah. Boh. Chissà. “.

  6. Gentile Paolo Gervasi,
    ho letto con molto interesse il suo testo su Garboli (che naturalmente bisognerebbe conoscere nella sua interezza) e mi permetto alcune osservazioni.
    “La critica serve a ritrovare l’elemento vitale dell’arte, il quid che parla agli esseri umani perché si sintonizza coi loro corpi e con le loro menti, perché indica loro una possibilità di comprensione e attraversamento del mondo”. Mi pare che una possibilità di comprensione e attraversamento del mondo sia quello che la letteratura ha sempre offerto al lettore. Che questa possibilità di comprensione passi attraverso il corpo-mente anziché attraverso la mente come si credeva prima, non cambia nulla alla cosa in sé. In questo senso trovo imprescindibile il riferimento alla vita e il rapporto dell’arte con essa e molto interessante la prima parte del suo testo.
    Quello che mi crea qualche problema invece è la determinazione strumentale del quid: “Le tangenze tra gli studi sull’arte e gli “strumenti di osservazione” delle scienze dure fanno emergere aspetti dell’umano invisibili a occhi nudo, permettono di percepire fenomeni precedentemente inaccessibili, e di descrivere i processi della creatività come davvero aderenti alla vita, in quanto forme di rielaborazione e di reimpiego delle funzioni biologico-cognitive fondamentali”.
    È vero che, nella sua formulazione, l’aspetto strumentale sfuma a vantaggio di quello “formale”: “la critica può rifondare i propri criteri valutativi cercando di stabilire quali opere hanno davvero a che fare con la vita. Quali, cioè, hanno caratteristiche formali che entrano in risonanza con le modalità cognitive della mente-corpo, elaborandole e potenziandole”; però non mi è chiaro quali debbano essere gli strumenti a disposizione della critica per valutare le caratteristiche formali adeguate a entrare in risonanza con le modalità cognitive della mente-corpo.
    Inoltre mi sembra che il modello “biologico” escluda l’intenzionalità, sia nella produzione che nella ricezione. Mi sembra un po’ troppo passivo: autori (e lettori) non più invasati dal dio ma dalle proprie sinapsi. Sarà anche così, però…
    Grazie dell’attenzione e dell’interessante articolo.

  7. Grazie per questo estratto molto interessante – e l’interpretazione di fondo di Garboli (se capisco bene) mi convince in pieno.

    Non sono sicuro pero’ quanto Garboli come critico letterario fosse animato da radicalita’ (se capisco quello che si intende); a me e’ sempre sembrato un critico letterario dotato di grande buon senso e molto lucido sugli usi della letteratura come istituzione sociale – certo, il suo stile di scrittura e’ un reperto d’epoca (ma questa e’ la distanza storica che ci divide dal Novecento).

    Grazie ancora!

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