di Corrado Benigni
[Nel Complesso Monumentale di Astino (Bergamo), fino al 31 agosto 2018, è visitabile la mostra “Franco Fontana. Dietro l’invisibile”, a cura di Corrado Benigni e Mauro Zanchi. Il testo che segue fa parte del catalogo, pubblicato da Silvana Editoriale, che conclude la trilogia dedicata al tema del paesaggio iniziata con Luigi Ghirri nel 2016 e proseguita nel 2017 con Mario Giacomelli].
Di cosa parliamo quando parliamo di paesaggio? In questa domanda s’inscrive oggi la questione che riguarda il nostro modo di osservare la realtà e insieme il linguaggio della fotografia come arte del vedere e del far vedere. Proprio intorno alla riflessione sul paesaggio si concentra l’immaginario poetico di Franco Fontana, la sua opera, da sempre tesa a mostrare l’enigma dell’invisibile che si cela nel visibile. Come ha scritto Giorgio Agamben: «Si comprende cos’è il paesaggio solo se si intende che esso rappresenta, rispetto all’ambiente animale e al mondo umano, uno stadio ulteriore».[1] In questo senso possiamo cercare di penetrare l’opera di Fontana: solo accettando l’idea che la fotografia non è registrazione del reale, non è la riproduzione fedele dell’istante in cui un certo avvenimento è accaduto, ma è una traccia, un indice. Franco Fontana è tra i maestri di quel rinnovamento della fotografia che, a partire dagli anni settanta, ha posto come centro d’indagine il paesaggio scardinandone ogni visione precostituita, consapevole che quello contemporaneo è uno scenario complesso, che non si manifesta più in categorie rassicuranti, ma si frammenta in un’infinità di segni di difficile definizione. Egli rifiuta la funzione mimetica, di pura registrazione del dato, della fotografia, affermando invece la sua funzione di mezzo per stimolare la ricerca, per costruire altre possibilità, altri mondi. Così la camera diviene elemento che unisce due spazi: quello visibile raffigurato nell’immagine prodotta dal fotografo e quello invisibile che sta alle sue spalle. Nel momento in cui la fotografia è guardata si crea un legame attraverso l’oggetto visibile con lo spazio invisibile.
L’opera di Fontana, sempre in bilico tra rappresentazione del vero e cosiddetto vero, è anche una riflessione sul vedere inteso come attività immaginativa e conoscitiva, insieme. «Non si può conoscere l’essenza delle cose – ha detto – se si crede solamente che un fiore sia solo un fiore, che una nuvola sia solo una nuvola, che il mare sia solo il mare, un albero solo un albero o un paesaggio solo un paesaggio…L’artista, fotografando, inventa soggettivamente la sua realtà»[2].
Il primo passo della conoscenza è lo sguardo e il mondo stesso è una fotografia, materia sensibile animata dalla luce che la percorre. Nell’antichità la parola theorein significava allo stesso tempo contemplare e conoscere. Tutta la nostra conoscenza del mondo esterno è basata sulle tre dimensioni di cui abbiamo esperienza corporale. La vista fa la sintesi di tutte le nostre sensazioni. Essa tende a “riconoscere” e non a conoscere, e in ciò consiste il nostro atto istintivo. L’arte, nello specifico la fotografia, può diventare una forma di conoscenza, perché può scardinare alcune tranquillità e automatismi del nostro modo di “riconoscere”. Essa mostra ciò che vorrebbe trasmettere, e insieme il limite e la superabilità di ciò che ci fa vedere. Perché «l’arte non accetta quello che si vede»[3], ha spiegato lo stesso Franco Fontana.
La fotografia diviene dunque strumento attraverso il quale cogliere l’inesistente di ciò che è reale, come a dire che non fotografiamo quello che vediamo, ma lo vediamo solo fotografando. Gli scatti di Fontana insistono sul particolare, sul dettaglio, ingrandendolo. Egli indaga luoghi indefiniti, preferendo osservare liberamente ciò che sta “a lato”, al di sotto o all’ombra degli spazi dove si sarebbe spinti a puntare l’obiettivo. In questo modo esalta la spettacolarità del paesaggio, la sua stra-ordinarietà, traduce in geometrie di forma e colore il dato naturale, arrivando a toccare i confini dell’arte astratta.
La «vera vita è altrove», ha detto Rimbaud, ma questo altrove è accanto a noi, a un millimetro da dove ci troviamo, parallelo al nostro sguardo. O è retrostante. E ciò che è parallelo al nostro sguardo o sta dietro di noi non è visibile: per percepirlo ci vuole uno sguardo obliquo. La macchina fotografica di Fontana è un microscopio o un binocolo girato al contrario: spesso le due cose insieme, nella stessa immagine, così ciò che era infinitamente piccolo assume dimensioni inusitate, ciò che ingombrava il nostro spazio con la sua mole si allontana a una distanza stellare. In questo modo la visibilità intrinseca dell’immagine convive con la sua sostanziale invisibilità e il fotografo è chiamato a catturare immagini per destinatari inevitabilmente ciechi.
Per Fontana l’immagine non è mai un discorso immutabile e pre-esistente rispetto a una realtà oggettivamente o neutralmente data, ma è invece un processo seriale, un lavoro in divenire dove la visione si cerca e si rende permeabile all’esistenza delle cose, aderisce a esse partendo da un “non sapere” dello sguardo. Così il fotografo riesce a far vedere mentalmente ciò che non è strettamente visibile e in qualche modo sfugge alla rappresentazione. Riquadri, inquadrature, lenti d’ingrandimento sono gettate su una realtà che vuole essere compresa prima che mostrata dal fotografo, interrogata prima che fissata in una singola immagine, messa a nudo e ridefinita costantemente attraverso lo sguardo della macchina.
Nei paesaggi urbani di Fontana, il colmo dell’artificiale diviene bellezza lancinante, rendendo visibili dei frammenti di un altro mondo prima d’allora presenti ma inosservati all’interno di questo mondo nel quale abbiamo preso l’abitudine di credere. In questa sfasatura tra la nitidezza del dettaglio e l’apertura visionaria sta la forza dello sguardo dell’autore modenese, la cui opera non può fare a meno della (drammatica) compresenza di ciò che fugge e di ciò che rimane. Come ha scritto John Berger: «Il vero contenuto di una fotografia è invisibile, perché deriva da un gioco, non con la forma, ma con il tempo»[4]. Ecco, il tempo, in rapporto allo spazio, al paesaggio, è il tema ricorrente delle fotografie di questo volume e più in generale di tutto il percorso artistico di Franco Fontana. Si potrebbe dire che i suoi scatti mostrano l’invisibile di ciò che è presente nello spazio e rendono visibile ciò che di più inafferrabile esiste: il tempo. Un tempo fissato nella sua immobilità, eppure proiettato dentro un flusso, dove le cose sono all’interno di un continuo movimento e non si ripetono mai uguali a se stesse. Per questo le fotografie di Fontana sono insieme statiche e dinamiche. I suoi paesaggi di cielo e di mare pur fissando un istante immutabile danno la percezione che ciò che esisteva un minuto prima ora è già scomparso. Come ha scritto lo stesso autore: «Lo scorrere del tempo influisce sull’organizzazione dello spazio. Spazio e tempo sono intrecciati, sono i due binari su cui scorre il treno delle nostre percezioni»[5].
Un elemento costitutivo fondamentale nelle fotografie di Fontana, in particolare nei paesaggi, è l’uso della prospettiva, ricorrendo all’artificio illusivo e alla successione e sovrapposizione di piani partendo dal fondo verso il proscenio e anche oltre verso lo spazio reale, con un effetto ottico di irresistibile efficacia. Fontana possiede e adopera magistralmente le regole necessarie, grazie alle conoscenze acquisite anche dalla pittura, dove la scienza prospettica si concilia con la visione empirica. Questo elemento contribuisce all’illusione del vero, alla rappresentazione della realtà e dell’hic et nunc, del fatto nella sua attualità. In questi termini si può dunque parlare, nell’opera di Fontana, di “inganno della fotografia”.
Come un grande alchimista, egli mostra il mondo come avrebbe potuto essere, restando però sempre fedele all’organizzazione geometrica dello spazio, rispettando le proporzioni dettate dalla sezione aurea. L’attenzione all’armonia e all’equilibrio dell’immagine fa pensare a Fontana come a un uomo del Quattrocento, per questo senso di classicità che ha infuso in tutta la sua opera, mostrando cose che non sono classiche, e facendole diventare classiche. In fondo, la classicità non è altro che un modo di vedere le cose.
Nella rappresentazione di ciò che è vero, o appare tale, la luce è l’elemento fondamentale. Da qui la scelta del colore, che non è dettata solo da una ragione estetica. «Il colore è lo splendore della luce»[6], ha scritto il filosofo Jean Guitton, è il fiorire di tutte le sue potenzialità. Nel grembo del bianco è contenuto tutto lo spettro delle infinite sfumature cromatiche. In questa linea Fontana, attraverso la fotografia, cattura la luce, la scompone nella molteplicità dei colori per riportarla alla sua funzione unitaria e primaria di luce epifanica. C’è infatti qualcosa di originario, di primigenio nella luce dei suoi scatti. Per la sua capacità di leggerla e di interpretarla, Franco Fontana andrebbe chiamato “maestro della luce”, più che “maestro del colore”.
Nelle sue immagini, spesso le forme diventano figure nel contrasto tra chiaro e scuro. Molti paesaggi di terra – penso soprattutto a quelli toscani, ma anche a quelli lucani e pugliesi – sono realizzati proprio attraverso i contrasti tra luce e ombra. Qui Fontana ha spesso atteso che il sole si spostasse in modo tale da riempire con le ombre i piccoli avvallamenti presenti, creando nelle foto una, due linee oblique, una “V” coricata fatta di ombre. Ombre che, nuovamente, sono in grado di cambiare radicalmente la sensazione che questo paesaggio può fornirci.
La dialettica della luminosità è, infatti, un tratto importante e dominante del suo linguaggio. Ombre e luci sono realtà che si sovrappongono alla nostra, disputandosi spesso gli spazi, mentre in questa lotta territoriale la prospettiva cede all’illusione.
Tra le serie di immagini più intense realizzate da Fontana vi è senz’altro Presenza Assenza, con la quale ha indagato il rapporto tra luce e ombra. È bene però precisare che, a differenza di molti fotografi, i chiaroscuri di Fontana hanno come fine non solo quello di creare l’illusione di profondità, ma divengono motivi centrali dell’immagine. Qui in particolare egli utilizza la tecnica della silhouette, privando il soggetto dei particolari interni al suo perimetro, e restituisce un profilo che è la vera essenza del soggetto immortalato. Un perimetro, un contenitore che però non svela il contenuto, nascondendolo agli occhi dell’osservatore e permettendogli di spaziare con la mente e la fantasia nel tentativo di immaginare cosa, in realtà, quella sagoma contiene.
Le sue intenzioni non si limitano dunque alla documentazione dell’aspetto dei luoghi o delle figure che fotografa, né a un’idea di immagine intesa solo come oggetto estetico. Al contrario egli propone una riflessione che, pur tenendo conto della realtà, considera anche una rivalutazione della percezione attraverso la fotografia. In questo modo Fontana ci porta dentro mondi improbabili e insieme ci fa capire quanto sia improbabile il mondo così come lo osserviamo.
[1] Giorgio Agamben, L’inappropriabile, in Creazione e anarchia, Neri Pozza Editore, Vicenza 2017.
[2] Franco Fontana, Fotografia creativa, Mondadori, Milano 2016.
[3] Franco Fontana, op. cit., 2016.
[4] John Berger, Capire una fotografia, Contrasto, Roma 2017.
[5] Franco Fontana, op. cit., 2016.
[6] Jean Guitton, Filosofia del colore, Aracne, Ariccia (RM) 2015.
[Immagine: Franco Fontana, Los Angeles]
“ 8 febbraio 1991 – Il fotografo Fontana fotografa culi. “.
“ Giovedì 30 ottobre 1997 – Ieri ho letto un’intervista della mia amica – ex amica? post amica? – S. L. al fotografo americano William Klein, uno dei protagonisti della grande fotografia americana del dopoguerra, autore di uno stupefacente « diario » di vita newyorkese raccolto in un celebre libro di più di quarant’anni fa che porta il titolo di Life is good & good for you in New York. Il titolo dell’intervista della mia amica, echeggiando un po’ corrivamente – ma un titolo, se non è corrivo, che titolo è? – un tema molto di moda negli ultimi mesi – dopo la tragica sensazionale morte di Lady D. – era Paparazzo a New York, e ribadiva l’impressione che l’intervista fosse soprattutto una specie di introduzione-invito alla mostra delle opere di Klein attualmente in corso al Palazzo delle Esposizioni. Come per la mostra di Capa, anche in questa occasione io ho scelto la – brillante – scorciatoia della diretta consultazione del libro, fortunatamente conservato nella biblioteca in cui lavoro. Così ho risparmiato i soldi del biglietto, la fatica di andare fino a via Nazionale, di parcheggiare, di salire le scale, di vedere insieme alle fotografie di Klein anche le facce dei frequentatori di mostre che non di rado, almeno dal mio punto di vista, non sono un bel vedere. Ora il libro – un bel libro, di quella modernità rigorosa, antica, dei rigorosi, antichi anni Cinquanta – ce l’ho sotto gli occhi e, mentre lo sfoglio, penso. Penso a S. L., che ho conosciuto quasi vent’anni fa, che, mi ricordo, già allora si interessava di fotografia – infatti conosceva Franco Fontana – a cui, mi ricordo, feci vedere alcune mie foto – erano diapositive e lei aveva la macchina per vederle – e lei disse che erano brutte e io ero – e sono – completamente d’accordo, perché, penso, nonostante siano ormai quarant’anni che faccio fotografie, io non sono un fotografo. Anche se, in queste ultime settimane, per la prima volta in tutta la mia « carriera », ho fatto alcune foto che mi sembrano se non belle, meno brutte del solito. Sono foto scattate davanti alla tv, particolari di spot, di telegiornali, di dibattiti, di partite di calcio. Foto di foto – forse per questo non sono male -, foto rubate, copie, ritagli. Ho anche pensato che, se dovessi farci un libro – si fa per dire – lo intitolerei Paparazzo chez soi, nel senso di uno che fotografa senza uscire di casa, senza andare a New York, a Mosca o a Pechino, come i fotografi – e i turisti – continuano a fare, ma resta seduto sulla sua poltrona, davanti al suo piccolo schermo e scatta, scatta, scatta, fotografando tutto, perché tutto – New York, Mosca Pechino – è venuto da lui. Naturalmente è solo un modo di dire perché io sono anche convinto che, per fare delle belle foto, bisogna comunque sentirsi chez soi, cioè far prevalere, sulla fascinazione dell’oggetto, la volontà di rappresentare del soggetto, cioè dell’occhio che vede, della macchina che ritrae. « Quella pistola gliel’ho messa in mano io », dice il vecchio Klein nell’intervista, parlando della più celebre delle sue foto, quella in cui si vede un ragazzino che punta una pistola verso l’obbiettivo facendo la « faccia feroce ». Il ché dimostra che ogni foto, almeno in un certo senso, è sempre falsa, cioè « costruita », allestita, pre-meditata, prevista, anche se tutto ciò avviene senza quasi nemmeno accorgersene, nel tempo infinitamente piccolo di uno scatto. Come una cosa che si cerca sapendo di averla già trovata, una domanda che si fa sapendo già la risposta. E, a questo proposito, ora penso anche che la prerogativa essenziale del giornalista è la capacità di fare domande, chiedere, interrogare – di conseguenza penso anche che l’intervista è il genere giornalisticamente più « tipico » -. Però penso anche che chi fa domande sa già sempre, almeno in un certo senso, le risposte, perché chi veramente non sa non ha nemmeno il coraggio di chiedere. Forse per questo, a differenza di S. L., a differenza di William Klein, non sono né un bravo giornalista, né un bravo fotografo. Perché io veramente non so e, non sapendo, non so nemmeno che cosa chiedere. Almeno per ora. (La foto più bella fra queste ultime che ho fatto è quella del primissimo piano degli occhi di una ragazza – un’orientale -, occhi assolutamente aperti, come per uno stupore quieto, una naturale presenza, una imperturbata volontà di vedere. Qualunque cosa mi stia chiedendo, io, questa volta, credo di sapere già la risposta) “.