di Matteo Marchesini
Un secolo fa, il 19 luglio 1918, moriva a 72 anni Anna Radius Zuccari, nota con lo pseudonimo oraziano di Neera. La sua vasta opera di narratrice e di saggista, sostenuta da Capuana e da Croce, è oggi quasi dimenticata. Peccato: perché questa antifemminista, lo ha visto Luigi Baldacci, ha saputo raccontare come pochi la condizione di «classe oppressa» delle donne del suo tempo, specie di quelle cresciute nella piccola borghesia rurale e urbana, tra padri autoritari e madri troppo presto spente.
Private dell’educazione sentimentale e culturale di cui beneficia la «libera esistenza» dei loro fratelli maschi, le eroine zuccariane non possiedono spesso neppure la coscienza necessaria a comprendere il loro stato. Anche la Deledda descrive con lucida oggettività queste vittime destinate a confermare l’ordine che le opprime, ma Neera non può contare sulla poesia degli arcaici costumi sardi: deve tenersi alla prosa della provincia padana, dove gli «strascichi del romanticismo» ammuffiscono nel verismo di una squallida economia domestica e di una religione ridotta ad abitudine. Letterariamente, la pura rappresentazione senza scampo di queste autrici per così dire pre-ibseniane rende più dell’afflato ideologico-oratorio che determina il rilievo pubblico dell’Aleramo. Certo, anche in Neera c’è un’ideologa, che nella pretesa uguaglianza tra i sessi vede una menzogna funzionale alle esigenze dell’industria, e nella maternità (rivendicata però insieme alla gioia coniugale dei sensi) la pienezza della vocazione femminile. Tuttavia nei suoi romanzi migliori i personaggi sono delineati iuxta propria principia, mai ipotecati dalle teorie esposte nei saggi. Ciò non significa che non intrattengano un rapporto stretto con la biografia dell’autrice, che dopo la morte precoce della madre avvertì la mancanza di una figura in grado di riequilibrare l’affetto impacciato in cui l’avvolgevano il padre e le zie.
Ragazzina di mentalità spontaneamente antiscolastica e antimondana, Neera maturò presto la serietà ingenua e penetrante di chi basta a sé stesso e s’immerge nella propria intimità come un palombaro: «Non mi sono mai annoiata in vita mia se non in compagnia d’altre persone. Come si può essere così nemici di se stessi da non saper reggere a rimanere soli?», dice in un passo di Una giovinezza del XIX secolo che nella nostra epoca, aggrappata messianicamente ai like, andrebbe meditato a lungo. Di qui scaturisce un naturalismo che è l’esatto opposto di quello giornalisticamente avido della Serao: da poche esperienze sociali, e da una fervida attività introspettiva, Neera trae il nutrimento fantastico e le verità essenziali che le servono a tenere la rotta. Ogni cosa che scrive è sentita e scontata a fondo: perciò sa ridare anche a pensieri triti una freschezza nuova, mostrando un’incuranza per l’anticonformismo di superficie e un solido radicamento nel senso comune che non potevano non piacere a Croce. E molti pensieri, molti spunti le vengono appunto dall’avere vissuto con donne come le zie zitelle: esseri “implosi”, nei quali l’amore che non ha trovato il suo sbocco naturale si deforma in dolore, stizza, eccentricità da matte di paese.
Sono le donne che «hanno cucito intorno a noi tanti e tanti metri di stoffa», in un’opera umile e silenziosa che del resto per Neera stessa ha costituito l’apprendistato a una vita fortunatamente più felice: «Quando qualcuno vuol sapere gli studi preparatori che feci per scrivere la trentina di volumi da me pubblicati, rispondo: calze e camicie». Zitella resta la protagonista di Teresa, il suo capolavoro del 1886 ambientato sul Po di Casalmaggiore. Figlia di un esattore tirannico e di una madre passiva, si sacrifica accudendo tutti: le sorelle più piccole, il genitore malato, il fratello che rinnega la loro complicità infantile quando va a studiare a Parma. L’amore sfiora Teresa appena, apparendole nelle vesti di un goliarda intrepido ma inaffidabile. A vent’anni, sui rapporti sessuali non sa nulla più degli «amplessi» astratti di cui ha letto in qualche libro, e se prova a immaginare cosa farà col marito dopo le nozze le vengono in mente solo le carezze scambiate con una sorellina: «L’Ida se la prendeva sui ginocchi e, incominciando dai capelli, le baciava ridendo tutto il volto (…) Egidio però non lo poteva prendere sui ginocchi, e l’idea che si potessero invertire le parti, le procurò una delle veglie più agitate».
A fronte di una precisione psicologica straordinaria, in romanzi come Teresa si trova una scrittura di cui perfino l’autrice ammette la sciattezza. Baldacci la considera una lingua «imparata dai gazzettieri», oscillante «tra la precisione notarile e la goffa galanteria». Però aggiunge subito che l’arte di Neera «non sta nella parola, ma nei silenzi, nelle pause tra parola e parola». I suoi romanzi, insomma, sono belli anche se scritti male e strutturalmente poveri. Ma proprio questo, continua Baldacci acutamente, li sottrae ai metri critici che la nostra cultura crede decisivi. Oggi, infatti, impera un mito un po’ pacchiano dello Stile come cifra che ostenta la sua presunta raffinatezza, o in alternativa il gusto della “trovata” teorico-narratologica. I funzionari dell’editing troverebbero “errori” quasi in ogni pagina di Neera. Ma la verità è che lo stile è soprattutto visione. Questa autrice sta tutta nel suo rem tene: e la rem è colta grazie a una capacità di osservazione e d’intuizione che nessuna ripulitura editoriale e nessuna abilità manieristica potranno mai sostituire.
Già pubblicato sul Domenicale del Sole 24 ore del 15 luglio 2018