di Lucia Tozzi
[Questo testo è stato scritto nel 2014 e pubblicato sul n.5 della rivista «Outis», intitolato L’Europe? L’Impossible?. Quattro anni fa Lega e Front National, insieme ad altre forze politiche anti-immigrati, erano già forti in Europa, ma all’epoca era ancora abbastanza chiaro a chi aveva a cuore la questione che la causa principale delle morti in mare erano le istituzioni europee stesse, anche se governate da partiti che di certo non potevano essere definiti populisti. Ogni anno venivano pubblicati decine di saggi e articoli sulla “Fortezza Europa”, sull’esternalizzazione delle frontiere a est e in Africa, sull’agenzia Frontex, e anche sulle frontiere interne all’Europa e sulla mai realizzata cittadinanza europea. Il panico seguito ai recenti successi elettorali dei “populisti” ha dissolto questa consapevolezza, e con essa il senso critico nei confronti dell’Europa, che oggi viene rappresentata come una salvezza non solo per noi, ma anche per i migranti. La violenza dell’hate speech di Salvini sembra aver sgravato la governance neoliberale da ogni responsabilità per le frontiere erette nei decenni passati, per le migliaia di morti precedenti, per le detenzioni nei centri e per le leggi discriminatorie. E, ciò che è più grave, il senso comune attribuisce il significato di quelle frontiere e di quelle morti al razzismo becero, al populismo ignorante, mentre – almeno fino a ora – il principio che le ha generate è fondamentalmente economico. È una questione di classe, non di identità culturale. Ripubblico queste pagine nella speranza di contribuire a sgomberare qualche equivoco, e di indirizzare il discorso in una direzione più produttiva e meno subalterna all’agenda setting della stretta attualità (Lucia Tozzi)].
Pensare all’Europa assumendo come punto di vista la città è un esperimento di grande utilità. In che modo l’Unione Europea come istituzione impatta sulle città europee? Al di là delle chiacchiere sulla cultura e gli scambi, la risposta più verosimile è: per mezzo di Frontex, l’“Agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne dei paesi membri dell’Unione Europea”, cioè il sistema anti-immigrazione.
Se non ci fosse Frontex le città europee sarebbero circondate da favelas come le megalopoli africane, sudamericane e di gran parte dell’Asia del sud. I discorsi sul contesto storico, le città metropolitane e le ricuciture perderebbero ogni senso: se agli uomini fosse concessa la stessa libertà di movimento che hanno le merci e i capitali non ci sarebbero green belt intorno a Londra, né sprawl nella Pianura Padana, né quartieri satellite e periferie, perché i vuoti sarebbero riempiti dalla città informale. Quell’“unica grande città” di cui vaneggia Manuel Barroso, presidente della Commissione Europea, in cerca di Nuove Narrative per rafforzare il senso di appartenenza all’Europa nei suoi cittadini[1], prenderebbe la forma di un grande slum.
Naturalmente lo scopo di queste pagine non è difendere l’agenzia governativa in nome dell’ordine urbano, né tantomeno attribuirle un’importanza spropositata: prima che Frontex fosse istituita, nel 2004, esistevano altri strumenti di difesa dei confini, e se anche l’UE si sciogliesse i singoli stati continuerebbero a schierare forze militari contro i migranti direttamente e per procura, come fa oggi l’Unione.
Il dato interessante è che a definire la forma e la sostanza delle città europee sia un potente dispositivo di frontiera, e che questo, al pari delle città statunitensi o giapponesi, renda il loro sviluppo pianificabile e governabile. La prospettiva urbana fornisce una rappresentazione esplicita e immediata tanto del grado di controllo dei flussi quanto di quello della separazione tra le classi, e smentisce le retoriche dell’inclusione e della libera circolazione. L’assenza, o quasi, di insediamenti informali è la prova evidente della feroce tenuta delle barriere esterne e interne all’Europa stessa: notoriamente gli ingressi dei paesi dell’Est nell’Unione non hanno coinciso con l’apertura dello spazio europeo ai loro cittadini, che invece è stato regolato da una selva di confini materiali e immateriali variabili nel tempo.
Utilizzando il metro dell’urbanizzazione, in altre parole, il comportamento dell’Unione Europea appare analogo a quello di un qualunque stato-nazione nei confronti dei poveri esterni, e a quello della Cina – giustamente esecrata per l’attribuzione di cittadinanze differenziali ai propri abitanti – nei confronti dei poveri interni.
L’evidenza brutale – e difficilmente contestabile – della forma urbana è utile perché permette di reimpostare un discorso sulla relazione tra territorio e diseguaglianza sociale liberandosi di alcune contraintes prodotte dagli studi sulla fine dello stato-nazione (che però, come nella parodia di un western, non si decide mai a cadere a terra ed esalare l’ultimo respiro), sulla dissoluzione dei confini lineari, sulle potenzialità dell’informale.
- Sulle favelas
Per prima cosa, è necessaro svincolarsi dalle retoriche sulle favelas. Il solo nominare bidonvilles, favelas, slums, o comunque si vogliano chiamare gli insediamenti urbani informali, è un’operazione rischiosa, che suscita immediate resistenze linguistiche e teoriche. Esiste un politically correct del discorso sulla favela che, combinando l’idea romanticizzata del self-help (la mirabile capacità autorganizzativa dei poveri) e la condanna da destra e da sinistra del welfare statale “generatore di mostri”, classifica come reazionario e legalitario qualsiasi approccio critico alla città informale.
Come racconta Mike Davis ne Il pianeta degli slum, una saldatura tra l’ideologia e l’azione liberista di Robert McNamara, storico direttore della Banca Mondiale, e i principi anarchici dell’architetto John Turner, autore di Housing by People (L’abitare autogestito), aveva prodotto a metà degli anni Settanta una nuova linea politica nei confronti degli slum destinata a diventare un’ortodossia buona per tutti. «Apportare migliorie agli slum anziché rimpiazzarli è diventato l’obiettivo, meno ambizioso, dell’intervento pubblico e privato. Al posto della riforma strutturale dall’alto verso il basso della povertà urbana, intrapresa dalle socialdemocrazie postbelliche in Europa e propugnate dai leader rivoluzionari nazionalisti della generazione degli anni Cinquanta, la nuova teoria degli anni Settanta e dei primi anni Ottanta stabiliva che lo stato si alleasse con donatori internazionali e, poi, che le Ong rivestissero il ruolo di “abilitatore” dei poveri […] Elogiare la prassi dei poveri diventava una cortina fumogena per nascondere il ripudio dello storico impegno degli stati ad alleviare la povertà e la condizione di senzatetto»[2].
La diffusione universale di questo paradigma ha prodotto molta diseguaglianza sociale (le politiche di “riqualificazione leggera” degli slum sono risultate per lo più inconsistenti), sottraendo di fatto una grandissima quantità di fondi al circuito della redistribuzione. Ha dato un enorme potere alle Ong nella gestione dei diritti sociali, deresponsabilizzando gli stati. Ma soprattutto ha creato una narrativa perniciosa sulla felicità e sull’energia creativa della favela capace di screditare qualunque forma di welfare abitativo, determinandone la quasi totale scomparsa non solo in quelle aree in cui prolifera la città informale, ma anche nel resto del mondo. La falsa coscienza di architetti e urbanisti ha abbracciato con entusiasmo questa formula soprattutto in virtù della sua funzionalità all’economia urbana capitalista[3]. Superato lo “shock” della visione diretta della povertà, infatti, uno slum in fondo è un’abbondante riserva di lavoro e servizi informali a bassissimo prezzo, senza diritti, che occupa uno spazio ristretto. I filosofi politici dal canto loro leggono in questi spazi un luogo di resistenza alla normalizzazione biopolitica esercitata dallo stato-nazione, ben più produttivo in termini di soggettivazione rispetto alle periferie di stampo modernista.
Dal momento che i conflitti urbani emersi negli ultimi decenni da slum e favelas hanno purtroppo mostrato limiti notevoli[4], è forse venuta l’ora di deporre l’euforico racconto sui poveri autorganizzati per ristabilire un atteggiamento critico nei confronti della favela. Eliminata la sovrastruttura retorica, gli slum possono tornare ad apparire come la perturbante incarnazione dei rapporti di classe. Il vantaggio, se così si può chiamare, di un abitante di Mumbai o di Città del Messico rispetto a un francofortese è che non può nutrire dubbi sulla consistenza effettiva della diseguaglianza sociale.
- Costruire il labirinto
L’assenza di favelas costituisce perciò, nello stesso tempo, una prova della violenza con cui l’UE controlla i flussi migratori e un ostacolo cognitivo alla comprensione del fenomeno. La relativa omogeneità formale delle città europee impedisce ai cittadini di percepire la portata di questa segregazione, e soprattutto la sua natura di classe. La popolazione, per lo più ignara della letteratura sulla “Fortezza Europa”, continua a pensare che il territorio su cui vive sia all’opposto fin troppo accogliente, e a considerare il welfare accordato ai migranti come un esempio di generosa democrazia. Gli esigui campi rom e i poco ortodossi dormitori cinesi nascosti all’interno delle città coprono l’intero spettro dell’abitare informale, che assume giustamente l’aspetto di un problema marginale e gestibile.
Il fatto che le persone non facciano confronti, non si interroghino sulle ragioni di questo relativo ordine interno all’Europa rispetto all’esplicita entropia che vige nelle megalopoli, non si spiega ricorrendo alla sola falsa coscienza o al razzismo dichiarato. E non è neppure un problema di pura comunicazione: anche se la retorica dominante del mondo globalizzato tende a occultare la militarizzazione delle frontiere, l’ignoranza dei cittadini è il frutto di un’evoluzione reale del concetto e del funzionamento della stessa frontiera, che la rende strutturalmente ambigua.
Fiumi di inchiostro sono stati versati per descrivere la trasformazione dei confini geografici lineari in dispositivi complessi di “inclusione differenziale”, o sistemi di management delle migrazioni. Un movimento simultaneo di moltiplicazione e flessibilizzazione delle frontiere ha modificato profondamente le politiche nei confronti dei migranti in diverse aree del mondo, tra cui l’Europa. Alle infrastrutture materiali, come i muri, le barriere o i posti di blocco, si sovrappongono barocchi sistemi di infrastrutture burocratiche: accordi con paesi confinanti per l’esternalizzazione delle frontiere, segmentazioni del territorio (individuazione di “aree speciali” sottoposte a diversi regimi giuridici) e soprattutto frammentazione del quadro giuridico che regola l’accesso e il soggiorno delle persone. Il che permette, come scrive Sandro Mezzadra, di «affiancare alla lotta contro l’immigrazione “irregolare” programmi selettivi di reclutamento di un gran numero di migranti ritenuti indispensabili tanto sotto il profilo demografico quanto sotto quello della carenza di skills in settori strategici dei mercati del lavoro europei […] Moltiplicazione degli stati giuridici, flessibilizzazione dei visti, differenziazione dei permessi di soggiorno: queste sono le “ricette” emergenti dal dibattito su quello che ormai viene definito migration management»[5].
Il passaggio da un’opposizione binaria – chiusura-apertura – a un regime di regolazione sempre più complicato e in outsourcing ha la doppia funzione di alleggerire, se non affrancare, gli stati dalla responsabilità diretta delle proprie azioni, e di offuscare la ricezione del fenomeno nel dibattito pubblico. Forse l’esempio più clamoroso di oscuramento strategico, riferito al contesto Israele-Palestina, è quello descritto da Eyal Weizman in Architettura dell’occupazione. Contrariamente alla sua immagine più diffusa, legata al muro, la frontiera israeliano-palestinese è uno spazio elastico, continuamente ridisegnato e rinegoziato al di sopra e al di sotto della superficie terrestre, attraverso tunnel e alture, enclave ed exclave, strade sopraelevate e leggi proteiformi. Eppure il controllo esercitato da Israele sulla popolazione palestinese è ferreo: «I territori elastici non devono essere pensati come ambienti pacifici: gli spazi politici altamente elastici sono spesso molto più pericolosi e mortali di quelli statici, rigidi»[6].
Weizman mette l’accento sulla strategicità del caos, sul fatto che i dominanti progettino deliberatamente sistemi entropici al fine di perpetuare la propria egemonia, legittimandola con la pretesa di essere gli unici capaci di districare la complessità che essi stessi hanno creato. Chi disegna il labirinto sa bene che il potere dipende dalla capacità di disorientare.
È una posizione più problematica di quel che sembri, perché la sua forza critica non ricade solamente sulle istituzioni del potere, oggetto polemico d’elezione, ma entra in collisione con uno dei dogmi più diffusi del pensiero radicale contemporaneo, quello che individua in ogni incrinatura dello stato-nazione un’opportunità di apertura. L’indebolimento della sovranità territoriale, la dimensione multiscalare delle forme di governo, lo sfaldamento del concetto di cittadinanza, le aree grigie del diritto vengono accolti come una condizione di ambivalenza positiva, come uno spazio interstiziale da sfruttare tatticamente per aprire negoziazioni, per ribaltare la prospettiva e con essa l’ordine gerarchico della narrazione politica, per riconfigurare dal basso le relazioni.
L’enfasi con cui viene continuamente ribadito che non esiste più alcuna distinzione tra un dentro e un fuori, tra periferia e centro, tra mercato interno e internazionale è il sintomo di un wishful thinking che può agire come un vero e proprio filtro deformante nell’osservazione del mondo reale. Un buon esempio di questa ossessione può essere rintracciata negli urban studies, dove prevale ancora la proiezione onirica della cancellazione delle periferie di fronte a una realtà in cui, come scrive Agostino Petrillo, «I centri divengono ancora più dei centri di quanto non lo fossero in passato, e le periferie più misere e neglette di quanto lo fossero in altre epoche. I centri producono le periferie, ma non le includono più come prima, seppure in chiave subordinata, in un progetto sociale […], schiacciandole invece in una dimensione di esternità, di relegazione estrema»[7].
Lo stesso desiderio crea una schizofrenica rappresentazione dell’Unione Europea, vista prima come un’autorità repressiva dedita alla sistematica subordinazione dei paesi che unisce alle leggi di organismi internazionali e alle alchimie dell’esclusione (o inclusione differenziale), e poi riabilitata come effettiva via di fuga dal demone degli stati nazionali, come uno spazio di possibile emancipazione. Ma ha senso fuggire a tutti i costi dagli stati-nazione per cercare rifugio in quella che si era appena descritta come un’opaca macchina di segregazione sociale e gerarchizzazione territoriale? È possibile immaginare che l’Unione Europea, un’istituzione costruita in modo tale da minimizzare, se non neutralizzare, la rappresentanza politica, sia politicamente riformabile? In che cosa, alla fine, l’UE è meglio di uno stato-nazione? E soprattutto, gli stati europei quanto assomigliano ancora a degli stati-nazione?
- Cittadini europei?
Saskia Sassen, che meglio di ogni altro ha studiato la relazione tra le città globali e i territori nazionali, fornisce in Territori, autorità, diritti un’interpretazione non drastica del declino dello stato-nazione: «La sovranità dello stato è solitamente concepita come un monopolio dell’autorità in un particolare territorio. Oggi sta diventando evidente che la sovranità dello stato articola condizioni e norme sia sue proprie sia esterne. […] La questione del territorio come parametro per autorità e diritti è entrata in una nuova fase. L’autorità esclusiva dello stato sul suo territorio rimane la modalità prevalente di autorità finale nell’economia politica globale. Ma è meno formalmente assoluta, e la prevalenza non deve essere confusa con la dominanza»[8]. Lo stato-nazione e il sistema interstatale, secondo Sassen, sono ancora vitali, anche se non più interamente egemoni, e assemblano in formazioni parziali ed eterogenee diverse specie di territori, autorità e diritti, attuando inesorabilmente un processo di denazionalizzazione.
Se torniamo a guardare all’Europa attraverso la lente delle città, diventa facile osservare le dinamiche multiscalari di governo: i soldi, ad esempio, discendono sempre meno dallo stato, e sempre di più devono essere “attratti” dai privati, o dai fondi europei, o per mezzo di alcuni potentissimi organismi privati che decidono globalmente dei grandi eventi come il BIE (per l’EXPO) o la FIFA (per i mondiali di calcio). Ognuno di questi elargitori si trasforma in decisore su porzioni più o meno estese del territorio urbano, nonché sulla modalità della spesa, sottraendo di fatto percentuali di sovranità politica ed economica al governo locale, ma anche a quello nazionale. Dal canto loro, le città e i distretti “globali” acquisiscono un’autonomia e un potere tali rispetto alle nazioni cui appartengono da sovrastarle senza sforzo, ma sono immesse volenti o nolenti in un sistema di ranking e competizione che ne limita la capacità di portare avanti politiche di welfare e redistribuzione delle risorse, o che le vincola a perseguire politiche securitarie, di privatizzazione e segregazione urbana che permettano di raggiungere determinati standard.
La composizione giuridica e politica delle prerogative di uno stato UE sul territorio riflette infinite dinamiche di questo genere, in cui si accavallano deleghe e responsabilità, potenza e impotenza. Persino la cittadinanza europea intrattiene una relazione ambigua con quella nazionale: nata come cittadinanza mercantile nella CEE, riservata solo agli attori economici che avevano necessità di lavorare all’estero, dopo i trattati di Maastricht (1993) e Lisbona (2009) non solo era stata estesa automaticamente a tutti i cittadini, ma doveva diventare lo status fondamentale del cittadino europeo, assorbendo quella nazionale e garantendo la libertà di circolazione e di soggiorno insieme alla fruizione dei diritti sociali. In realtà, dopo l’esplosione della crisi economica i principi di inclusività della cittadinanza europea sono stati rimessi in discussione, per timore di flussi incontrollati di migrazione interna che avrebbero potuto mettere a rischio la tenuta del welfare negli stati più ricchi[9].
Con il decreto di espulsione dal Belgio nel dicembre 2013 di Silvia Guerra, una cittadina italiana con un lavoro e un figlio a Bruxelles ritenuta “un peso indebito per lo stato sociale”, si può considerare affossato, almeno per un po’, uno dei pochi spazi di reale, ancorché non ancora realizzata, apertura elaborati nell’ambito dell’Unione Europea, che per il resto ha espresso in genere politiche più reazionarie degli stati nazionali che ne fanno parte.
- Oggi
In un quadro simile, nel quale l’autorità è articolata in schemi variabili da istituzioni di livello differente, ha perso ogni senso tanto idealizzare il ritorno alle claustrofobiche comunità locali quanto inneggiare alla fantomatica prosperità delle città globali, che concentrano la ricchezza nelle mani di pochissimi. Ma è ancora più fuorviante prospettare un cambiamento radicale dell’UE, un’istituzione il cui funzionamento è oscuro per la maggior parte dei suoi abitanti e che crea feroci asimmetrie all’esterno e all’interno dei suoi confini.
Tenendo fermo l’obiettivo di combattere le politiche fondate sull’identità a qualsiasi scala, dalla comunità montana alla demenziale “identità europea”, la necessità più impellente diventa quella di capire quali articolazioni territoriali dell’autorità possano risultare più favorevoli a delle politiche egualitarie, o per lo meno alla comune lotta alla diseguaglianza, fenomeno di portata eminentemente globale. Dissolta – se mai è veramente esistita – la sovranità totale di una qualsiasi forma di governo su un territorio specifico, vale la pena di provare a immaginare la restituzione strategica di sovranità parziali ai singoli paesi, territori, città. Per procedere in questo senso è però necessario, tra le altre cose, sottoporre a critica il tabù assoluto dello stato-nazione, ossia l’associazione forzata tra il ritorno a politiche statali e il nazionalismo: le retoriche dell’identità culturale o religiosa fanno molti più danni di una definizione geografica. Nonostante i limiti e le erosioni, oggi le unità politiche dotate degli strumenti potenzialmente più efficaci per la distribuzione equa delle risorse sono ancora gli stati. Il ripristino della sovranità in determinati settori economici e giuridici potrebbe allargare lo spazio di manovra contro i processi di accumulazione selvaggia imposti dall’unificazione.
[1] “New Narratives for Europe” è un progetto lanciato da Barroso nel 2013 al Center for Fine Arts (Bozar) di Bruxelles per mobilitare “gli intellettuali visionari” nella creazione di un racconto identitario fondato sulla condivisione culturale, allo scopo di oscurare l’immagine tecnocratica che molti cittadini hanno dell’UE. Una delle “visioni” che Barroso ha agitato con convinzione contro i “populismi antieuropeisti” è quella proposta da Stefano Boeri, di un’Europa vista come una grande città multiculturale interconnessa da treni ad alta velocità e voli low cost.
[2] Davis, M., Il pianeta degli slum, Feltrinelli 2006, p. 69-71
[3] Dal documentario di Rem Koolhaas su Lagos alle migliaia di ricerche accademiche che documentano con zelo ogni traccia di informale urbano presente nel globo, lo stereotipo vitalista è tracimato fino ai reportage sulle riviste femminili e alla turistizzazione degli slum di Cape Town (di quelli più sicuri e pittoreschi).
[4] Su questo punto le interpretazioni divergono: un’ampia letteratura trionfale documenta le rivolte urbane, di cui una parte focalizzata sulle città informali, come Noi siamo i poveri. Lotte comunitarie nel nuovo apartheid (Derive Approdi 2003) di Ashwin Desai, una testimonianza dei conflitti delle township africane. Personalmente non riesco a scorgere in nessuna di queste storie – tanto meno in Africa, dove l’apartheid urbano raggiunge livelli inimmaginabili – una manifestazione di effettiva potenza. Al contrario, mi sembrano gloriose battaglie perdute.
[5] Mezzadra, S., Autonomia delle migrazioni. Lineamenti di un approccio teorico, in «Οὖτις» n. 1, 2011, pp. 26-27.
[6] Weizman, E., Architettura dell’occupazione, Bruno Mondadori 2009, p. 12
[7] Petrillo A., Peripherein: pensare diversamente la periferia, Franco Angeli 2013, p. 16
[8] Sassen, S., Territori, autorità, diritti, Bruno Mondadori 2008, p. 524
[9] Cfr. Margiotta C., Cittadinanza europea, Laterza 2014
[mmagine: Julien Muguet, La Courneuve, Parigi]
Infine un ragionamento articolato che scardina un manicheismo assurdo, ancor prima che liberticida.
Una curiosa operazione di archeologia intellettuale (in senso attenuato, qui la distanza temporale è brevissima). A parte il linguaggio perentorio, a tratti sprezzante e persino intimidatorio, che paradossalmente anticipa in termini “alti” quello del ministro Salvini (chiacchiere sulla cultura e gli scambi, sbarazzarsi di contraintes e retoriche, ortodossia buona per tutti, popolazione ignara della letteratura sulla Fortezza Europa, demenziale identità europea), il senso del discorso appare questo: quattro anni fa ho pubblicato una mia analisi che sembrerebbe smentita da una serie di cose accadute in seguito, ma non è così, al contrario l’analisi smentiva preventivamente le cose poi accadute, dunque la ripubblico tale e quale. L’idea che la popolazione vada brutalizzata a suon di presunta evidenza (“evidenza brutale e difficilmente contestabile”) percorre tutto il testo. Anche un’assenza diventa una dimostrazione schiacciante: “L’assenza di favelas costituisce perciò, nello stesso tempo, una prova della violenza con cui l’UE controlla i flussi migratori e un ostacolo cognitivo alla comprensione del fenomeno”. Questa “ignoranza dei cittadini” è scusata, oltre che dalla mancata conoscenza della letteratura pertinente, da una “ambiguità strutturale” elementare agli occhi dell’autrice. Si potrebbe concluderne che, se le il controllo dei flussi migratori fosse meno violento, avremmo finalmente degli slums anche in Europa, così anche i cittadini ignoranti aprirebbero gli occhi: infatti un abitante di Mumbai o Città del Messico ha il “vantaggio”, rispetto a un francofortese, di non poter nutrire dubbi sulla disuguaglianza sociale.
La possibile alternativa a un’UE “reazionaria” e “feroce” avrebbe meritato (già quattro anni fa, figuriamoci oggi) più di poche righe sommarie, queste sì all’insegna del wishful thinking: si parla oscuramente di “restituzione strategica di sovranità parziali ai singoli paesi, territori, città”; di fatto, si specifica poi chiaramente, agli stati. Qualche riluttanza o perplessità? Basterà “sottoporre a critica [sic!] il tabù assoluto dello stato nazione, ossia l’associazione forzata tra il ritorno a politiche statali e il nazionalismo”. Un’associazione talmente “forzata” da trionfare ovunque, dalla Russia alla Turchia, a Israele; nel mondo occidentale nientemeno che in USA e UK; dentro l’UE in Polonia, Ungheria e un po’ in tutto l’est; presto, con l’agognato disfacimento dell’Unione stessa (cui tutti i predetti stati, senza ambiguità, nazionali stanno alacremente lavorando), in Germania, Francia e Italia.
“Se non ci fosse Frontex le città europee sarebbero circondate da favelas come le megalopoli africane, sudamericane e di gran parte dell’Asia del sud.”
Ma se questo fosse vero, perché mai dovremmo chiedere politiche diverse? Al di là che l’UE è solo uno stato più grosso, ma sempre stato rimane, per cui tutti i discorsi che la vogliono giustificare rispetto all’anacronismo degli stati nazione sono fuffa ideologica.