[LPLC va in vacanza. Per non lasciare soli i nostri lettori durante la stagione estiva, riproponiamo alcuni pezzi usciti nei mesi o negli anni precedenti. Questo articolo è stato pubblicato il 29 marzo 2017.
E’ uscito il XIII Quaderno italiano di poesia contemporanea (Marcos y Marcos), a cura di Franco Buffoni. Ne fanno parte Agostino Cornali (1983), Claudia Crocco (1987), Antonio Lanza (1981), Franca Mancinelli (1981), Daniele Orso (1982), Stefano Pini (1983), Jacopo Ramonda (1983). Pubblichiamo una poesia per ogni autore. Ringraziamo l’editore per averci concesso i testi in anteprima].
Agostino Cornali
Gli inverni sempre più caldi, ………………………………..Temù
i ghiacciai ritirandosi
scoprono elmi chiodati
baionette, barattoli di latta
appesi al filo spinato
nei giorni di disgelo si ingrossano i torrenti
e sulle rive erbose, al limitare dei boschi
giovani fantasmi di fantaccini
si sfidano lanciando
sassi piatti e sottili
che rimbalzano sull’acqua
“Abbiamo sconfitto gli imperi centrali”
mi dici raggiante
prima di riaddormentarti
mentre l’autobus discende
in una nenia di tornanti
dal passo del Tonale.
*
Claudia Crocco
Io voglio essere guardata
I.
Guardiamo: la schiena il vestito
come si piega
sulla pancia, controlli ora le
cosce se si vedono, i collant tesi
i capelli se reggono sulla
te di questo mese; poi le labbra
serrate mentre passi il rossetto
con gli occhi sgranati,
prima chiaro e poi più intenso –
inutile nascondersi, non voglio
io voglio essere guardata.
II.
La faccia la faccia come portarla
di notte, tornando, e non potere
cambiare anche quella al mattino –
scolorirne i tratti per
cancellarne il ricordo, bluffare con
il tempo e le foto,
(il grumo di rimmel sulle ciglia che
sbattono contro il vetro, le iridi
capovolte, vedermi
vederci noi la lingua le viscere
riflesse
usurate nel tempo senza
distanza. Noi non vedevamo
– la miopia del mio nulla
intatto, riflesso
in ogni angolo del vetro sporco,
nel diario pubblico –
mentre sui tasti succedeva tutto
negli occhi e la faccia registrava già)
III.
Guardiamo noi ora ancora – io vedo
la distanza, non è
non è quella dall’inizio: ora è fra
la mia faccia di ieri e lo status
di oggi, nel vetro che la restituisce
a scaglie, s’è rotto ieri – tutta
la solitudine è egoismo,
ognuna è una faccia riflessa
sul vetro sporco, un gioco
di abitudini e tagli senza sangue,
noia e crudele eccitazione.
Io voglio essere guardata.
*
Antonio Lanza
Le silenziose
in camice giallo presto
al mattino adempiono alle pulizie
ordinarie: pulire dai residui
di escrementi i cessi, sostituire
la carta igienica dove manca,
aggiungere il sapone liquido
per le mani, lavare a dovere
i pavimenti. Lasciano andandosene l’odore
delle pulizie comandate, guasti
o intermittenti alcuni dei faretti, strisce
di sporco agli specchi, grumi sparsi
di unto di anni alle piastrelle, velate
di calcare le fontane. Sono donne minute
o corpulente, e le immagini poco
istruite ma piene di forza, puledre
resistenti alle fatiche, indurite
madonne. I forti guasti del vivere
tracciati su visi ormai corazzati,
sembrano
aver fatto di se stesse una collezione
a imbuto di sbagli: da ragazze, giovanotti
e buona sorte si alternarono in ginocchio,
i gradini delle scuole sembrando
un trampolino di tre metri da cui
staccarsi fiduciose per il tuffo; e poi,
come fu che poi l’aria a tradimento
si assottigliò, come fu che al salto
mancò velocità e rotazione, che l’atteso
ingresso in acqua avvenne di pancia,
con incresciosi schizzi dappertutto.
*
Franca Mancinelli
da Tasche finte
Nel giardino, vicino al pozzo di mattoni, un gomito di acciaio emerge dalla terra. Lì si congiunge un tubo di plastica che striscia sull’erba fino a raggiungere l’orto. La sera, con una sigaretta tra le dita, guardando il cielo scurirsi come terra bagnata, mio padre annaffia. Frutti sempre più piccoli di quelli che si aspetta riempiono ogni tanto le sue mani e un canestro sporco sulla credenza. Quando è laggiù, nascosto dalle piante dei pomodori, nell’angolo più lontano del giardino, posso sentire dal pozzo l’acqua versarsi e scendere tra i granuli, fino alle radici dove è attesa. Qui, dove il flusso dell’acqua si perde, crescono erbe dure da estirpare, infestanti dal piccolo fiore, piante dal frutto velenoso, cibo per gli uccelli. Ma non riesco a zapparle via, non riesco a riparare la falda.
*
Daniele Orso
da Muri portanti
L’edera aderì rasente al muro.
L’anta dello scuro inaridì a febbraio
Dall’infisso staccatasi d’un tratto
Mentre distratte vagavano le ore.
L’erba crebbe in fretta. In fretta
Si seccò. Scomparvero le voci
Una sera che più lenta la luce
Riposò. Il tempo passò in fretta.
L’edera rimase verde su quel muro.
Il muro si crepò. La crepa
Su quel muro creò un nome
Al tempo. E il tempo fece il resto.
Nominò le cose, diede un nome
A quell’edera, a quell’anta e al muro.
*
Stefano Pini
Milano, via Bovisasca
C’è una linea dove la città cade
un ponte a croce sui binari verso sud:
se penso a via Bovisasca la sera
fatico a dormire, a ricucire le voci
spezzate dalle ringhiere
ad agosto, la pioggia nuda che batte
i piedi sul cemento e gli zigomi
dritti verso dove scivola la fuga.
Il fianco scoperto, la spesa in mano
il riso di Curzio rimandato
per non avere mai sempre vent’anni.
*
Jacopo Ramonda
Torpore (cut-up n. 147)
V. non praticava alcun tipo di sport dalla fine delle scuole superiori, e cioè da circa vent’anni. Uscendo dalla banca in cui lavorava, con una sigaretta ancora spenta tra le dita e la valigetta di pelle nella mano libera, sentì come un richiamo. Un impulso improvviso e incontenibile di mettersi a correre, a cui cedette senza esitare, vestito così com’era, in camicia e completo classico, mettendo un piede davanti all’altro sempre più rapidamente, con l’impressione di poter accelerare all’infinito. Un groviglio quasi inestricabile di passanti affollava i portici, ma V. riuscì a farsi largo con agilità, scartando a destra e a sinistra, e urtando con una spalla alcuni pendolari del tutto simili a lui, ma che procedevano molto più lentamente o nella direzione opposta. Superò la fermata del suo autobus e, con essa, gli anni di esilio spontaneo, la difficoltà a parlare in pubblico, la sua timidezza cronica con le donne; lo stress che prima o poi trovava una via d’uscita inappropriata, sotto forma di disturbi psicosomatici, cali di concentrazione, abitudini maniacali e varie paranoie ricorrenti, tra cui un’ostinata ipocondria. Il suo corpo sembrava uscito da un torpore decennale, e V. aveva finalmente riacquistato percezione del suo respiro e del suo battito cardiaco. Mano a mano che lo sentiva accelerare, cresceva proporzionalmente in lui la convinzione che tutto si sarebbe risolto, non soltanto durante, ma per mezzo della corsa.
[Immagine: Philippe Parreno, Anywhere Out of the World].