di Ingeborg Bachmann

[Il racconto Il traghetto, scritto nel 1945, è tratto dal volume Ingeborg Bachmann, Il sorriso della sfinge, a cura di Antonella Gargano, Cronopio, Napoli 2011. Il volume raccoglie dieci racconti, scritti tra il 1945 e il 1959, solo parzialmente editi durante la vita dell’autrice, e scritti negli anni in cui la fama della Bachmann era legata esclusivamente alla sua opera poetica].

 In piena estate il fiume è un canto di mille voci che, portato dal declivio, riempie di suoni scroscianti tutta la campagna attorno. Ma presso la riva è più silenzioso, appena un mormorio, e come sprofondato in se stesso. È largo, e la sua forza, che si distende in mezzo alla campagna, significa separazione. Verso nord la valle è scura e stretta, una accanto all’altra sono le colline, i boschi ne risalgono la curva e lontano svettano le alture più scoscese che nelle giornate limpide e serene disegnano un dolce arco nella campagna. Al di là del fiume, dove la boscaglia s’infittisce e si fa scura, si trova la casa dei signori. Il traghettatore Josip Poje la scorge quando trasporta persone e merci sull’altra sponda. L’ha sempre davanti a sé. È di un colore bianco accecante e gli appare improvvisa davanti agli occhi.

Gli occhi di Josip sono giovani e acuti. Si accorge subito quando nella macchia, lontano, si piegano i rami, sente nell’aria i clienti del traghetto, che siano canestraie in cerca di giunchi sull’altra riva o manovali. A volte arriva anche uno straniero o intere brigate di uomini che ridono e di donne festose dalle vesti colorate.

Il pomeriggio è molto caldo. Josip è solo con i suoi pensieri. Sta in piedi sul piccolo pontile che dalla riva scavalca la lunga striscia di sabbia fine. Il punto di attracco è ricavato in mezzo alla solitudine della macchia, una superficie che si estende, sabbiosa e cosparsa di pietre, fino a perdersi a poco a poco nei prati e nei campi. La riva non si distingue con chiarezza, ogni volta lo sguardo annega nella macchia e piccoli sentieri appena battuti l’attraversano come cicatrici fresche. Soltanto il gioco alterno delle nuvole in questa giornata instabile è il segnale di una variabilità. Per il resto la quiete è snervante e la calura silenziosa imprime il suo segno a tutte le cose.

Una volta Josip si gira. Volge lo sguardo dall’altra parte, verso la casa. In mezzo c’è l’acqua, eppure vede il “signore” a una delle finestre. Lui, Josip, può stare in piedi o sdraiato per molte ore, può ascoltare per giorni e giorni la stessa acqua, ma il signore nella casa bianca, che loro a volte chiamano il “castello”, deve avere un’irrequietezza dentro di sé. Passa da una finestra all’altra, a volte scende lungo il bosco, tanto che Josip crede voglia attraversare il fiume, ma poi dice di voler rinunciare, almeno per quel che il rumore del fiume consente di capire. Vaga senza meta lungo la riva, e poi torna indietro. Josip lo vede spesso fare così. Il signore è molto potente, diffonde attorno a sé timore e perplessità, ma è buono. Tutti lo dicono.

Josip non vuole più pensarci. Scruta i sentieri. Non arriva nessuno. Ride. Adesso si dedica alle sue piccole distrazioni. È già un uomo, ma continua a provare gusto nel cercare in mezzo alla sabbia le pietre piatte. Avanza lentamente nella sabbia umida, cedevole. Soppesa la pietra tra le mani; poi, piegandosi, fa oscillare il braccio e il sasso vola sibilando, spavaldo, a pelo d’acqua, salta, rimbalza e salta di nuovo. Tre volte. Se lo ripete di seguito, le pietre saltano otto volte. Ma non devono essere troppo massicce.

Una dopo l’altra fuggono le ore. Da molto tempo ormai il traghettatore è un sognatore muto, chiuso in se stesso. Si fa più alta la parete di nuvole sopra i monti lontani. Forse il raggio del sole presto sparirà e annoderà orli dorati ai palazzi dalle bianche nebbie. Forse poi verrà anche Maria. Anche questa volta verrà tardi, portando nel cesto bacche o miele e pane per il signore. Dovrà traghettarla al di là del fiume e resterà a guardarla, mentre si avvia verso la casa bianca. Non capisce perché debba essere Maria a portare tutto a casa del signore. Che mandi lui la sua gente.

Le ore del tardo pomeriggio portano turbamento. Le riflessioni dileguano con la stanchezza. I pensieri seguono vie segrete. Il signore non è più giovane. Non nutrirà un desiderio così tormentoso come quello del giovane Josip Poje. Per quale ragione Maria deve pensare a lui, se lui non la guarda mai ma pensa a grandi cose che per lei sono incomprensibili e oscure! Potrà andare moltissime volte da lui, lui non la vedrà se lei non dice una parola. Non capirà i suoi sguardi e rimanderà via quella donna silenziosa. Non saprà nulla della sua tristezza e del suo amore. E l’estate finirà e d’inverno Maria dovrà ballare con lui.

I moscerini e le mosche, che si risvegliano dopo il tramonto, già si raccolgono in sciami. Cercano nell’aria, formano in volo lenti cerchi, finché tutto a un tratto si addensano in nugoli. Poi si sciolgono e volteggiano di nuovo, finché tutto non si ripete da capo. Da qualche parte ancora cantano gli uccelli, ma li si sente appena. Lo scorrere del fiume è attesa che soffoca dentro di sé tutto il resto. È un rumore forte, pieno di timore e di eccitazione. Una frescura si alza e porta con sé un fosco pensiero. Anche a essere ciechi, si vedrebbe comunque trasparire attraverso il bosco la macchia bianca del muro sull’altra riva.

La sera è arrivata. Josip pensa di andare a casa, ma aspetta ancora. È difficile prendere una decisione. Ma ora sente che Maria sta arrivando. Non volge lo sguardo, non vuole guardare, ma i passi dicono già abbastanza. Il saluto di lei è timoroso e impacciato. Lui la guarda.

“È tardi”. La sua voce è carica di rimprovero.

“Non attraversi più il fiume?”

“Non so”, risponde lui. “Dove vuoi andare?” È dominato da un’inflessibilità sconosciuta.

Lei non osa rispondere. È ammutolita. Lo sguardo di lui è come una sentenza. Lui nota che lei non ha nulla con sé. Non ha il cesto, né la borsa, né il fazzoletto che si annoda in un fagotto. Porta soltanto se stessa.

È una ragazza strana. Lui è pieno di stupore e non la capisce e un po’ la compiange. Ma adesso le nuvole hanno il loro orlo incandescente. Le onde nel fiume sono più lente e più lunghe che di giorno, i gorghi nel mezzo più scuri e più minacciosi. Nessuno oserà attraversare l’acqua con una barca, adesso. Solo il traghetto offre sicurezza.

Il vento carezza la fronte di Josip che continua a scottare. Un moto di collera lo precipita nel turbamento. La cima del traghetto crea un collegamento, scavalca l’abisso e indica, diritta e infallibile, l’altra riva, la bianca casa del signore.

“Non attraverso il fiume”, dice rimandando indietro Maria.

“Non vuoi?”. Un presentimento si fa strada nella ragazza. Prende un sacchetto e dice trionfante: “Ti pagherò il doppio!”.

Lui ride, sollevato. “Non c’è denaro che basti. Non attraverso più il fiume”.

Perché lei continua a restare qui? Il tintinnio delle monete si va smorzando. Fiducia è sul suo volto, e preghiera.

Lui ribadisce il suo rifiuto e il suo rimprovero.

“Il signore non ti guarderà. Il tuo vestito non è di stoffa fine e le tue scarpe sono pesanti. Ti caccerà via. Ha altro a cui pensare. Lo so, perché lo vedo tutti i giorni”. La ragazza è impaurita. Dopo un minuto carico di riflessioni, gli occhi di lei sono colmi di lacrime.

“D’inverno il signore non sarà più qui. Ti dimenticherà presto”. Josip non è un buon consolatore. È preoccupato. Ora la porterà al di là del fiume. La perplessità sul suo volto si fa sempre più grande. Guarda a terra. Ma lì non c’è altro che la sabbia infinita. Un bel progetto sfuma nel vuoto di un’indecisione paralizzante.

Quando Maria lentamente si gira per andarsene, per la seconda volta in questa sera d’estate lui non la capisce.

“Stai andando via?”, chiede.

Lei si ferma di nuovo. Lui ora è contento. “Anch’io presto me ne andrò”.

“Sì?”.

Lui si dà da fare attorno al traghetto. “Penso all’inverno. Ballerai con me?”.

Lei guarda le punte delle sue scarpe. “Forse… Adesso voglio andare a casa”.

Un attimo dopo è andata via. Il traghettatore Josip Poje pensa che forse, nonostante tutto, lei è triste. Ma sarà un inverno allegro. Josip cerca una pietra e la scaglia sull’acqua. Il fiume è stranamente torbido, e nella stanchezza della sera nessun’onda ha la schiumeggiante corona d’argento. È solo un ampio, grigio fluttuare che s’incunea con forza in mezzo alla campagna e significa separazione.

[Immagine: Anselm Kiefer,  Nur mit Wind mit Zeit und mit Klang (2011), particolare. (gm)]

3 thoughts on “Il traghetto

  1. Ringrazio anch’io LPLC per avere pubblicato questo racconto molto bello, scritto nel cuore del Novecento. L’atmosfera mi ricorda l’episodio dei funghi in Anna Karenina – rievocato in “Teoria del romanzo” di Guido Mazzoni.

    Nel bel post precedente (“Ancora Dickens?”), @Clotilde Bertoni mostra bene le ragioni della modernità di Dickens.

    Probabilmente è solo un caso che i due post si trovino uno accanto all’altro. E tuttavia l’effetto del montaggio consecutivo (anche un sito internet ha un suo specifico formale) è illuminante. E’ come vedere vicine due istantanee di due paesaggi distanti e scoprire che si assomigliano molto.

    La storia e la geografia della narrativa degli ultimi due secoli sono da ridisegnare – e questo ci aiuterebbe forse a capire qualcosa in più dell’esperienza degli europei.

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