di Francesco Rocchi

[LPLC va in vacanza. Per non lasciare soli i nostri lettori durante la stagione estiva, riproponiamo alcuni pezzi usciti nei mesi o negli anni precedenti. Questo articolo è stato pubblicato il 18 aprile 2018].

Non molto tempo fa la raccomandazione di un gruppo di esperti al Miur di abolire le bocciature, anche solo per una moratoria, è stata accolta con l’usuale levata di scudi massiccia e trasversale. E tra quelli che hanno espresso maggior stupore ci sono stati tanti docenti: ai loro occhi la proposta è stata poco meno di una pugnalata alle spalle.

Eppure ci sono fior di studi, e l’esperienza sul campo, a dimostrare che le bocciature servono a poco o nulla. Perché allora i docenti rimangono così affezionati ad un istituto cui in ogni caso non ricorrono con leggerezza e pur sempre con sincero rammarico?

Rispondere a questa domanda è necessario, se si vuole che un’innovazione così radicale possa diventare realtà. Non si tratta di blandire gli insegnanti, ma di capire cosa del complesso meccanismo scolastico porti i docenti a dire: “No, questo studente nella classe successiva non ce lo voglio”. Si potrebbe anche scoprire, andando un po’ oltre le apparenze, che l’esasperazione dei prof. non è proprio del tutto immotivata.

L’elemento fondamentale per capire la scuola dal lato degli insegnanti è la rigida routine burocratica della vita scolastica quotidiana. E’ questa che dà il tono e la misura a tutto il resto, e non le esigenze didattiche. Essa influenza negativamente un po’ tutto, ma qui ci concentreremo sul ruolo che gioca nel mantenimento della disciplina, nella valutazione e negli scrutini.

Idealmente lo schema di base è abbastanza trasparente: il professore spiega, la classe impara e alla infine, con interrogazioni e compiti, si vede cosa ha fruttato agli studenti lo sforzo di imparare qualcosa. Su questa impalcatura sono state aggiunte mille innovazioni, anche molto importanti, ma l’insieme rimane invariato, soprattutto nella sua conclusione: lo scrutinio che decide la promozione o la bocciatura.

Il difetto di questo processo è che non è elastico: nel momento in cui capita qualcosa al di fuori dello schema, il sistema entra immediatamente in affanno, e con lui il docente che è materialmente in classe.

Perché il lavoro proceda, infatti, il gruppo classe deve muoversi in maniera più o meno coordinata e senza strappi eccessivi, dal momento che un professore, per quanto innovativo e impegnato, può tenere in classe solo una lezione alla volta, non tante quante sono gli studenti. Dovrà tarare le proprie lezioni su un livello “medio” di preparazione anche se, per il principio del pollo di Trilussa, ciò potrebbe non corrispondere al profilo reale di nessuno dei suoi studenti -soprattutto nel primo biennio delle superiori, dove l’eterogeneità degli studenti appena paracadutati dalle medie è massima.

Mentre il professore si barcamena con queste difficoltà, gli studenti non rimangono inerti: ognuno di loro reagisce alle novità e alle difficoltà nella maniera sua propria. E non è una novità per nessuno che gli studenti adolescenti aggiungano alle difficoltà propriamente scolastiche quelle familiari, sociali e relazionali, con effetti spesso gravi sia sulla resa scolastica individuale, sia sull’andamento delle lezioni.

Si capisce che non è una problema astratto o lontano, ma solo chi è stato in classe con adolescenti in carne e ossa può sapere quanto è acuto il senso di frustrazione che viene dal vedere una lezione mandata all’aria da uno studente rumoroso, importuno o impertinente.

La professionalità di un docente gli impone di non essere emotivo e di non reagire come farebbe con un estraneo o un adulto, ma quando i comportamenti sbagliati riguardano numerosi studenti e sono frequentemente ripetuti – come spesso accade nelle classi difficili – l’impatto sul docente rischia di essere pesante.

Per evitare di essere travolto, i docenti devono essere in grado di gestire la classe e di ricondurla non solo all’ordine, ma anche a un buon clima di apprendimento. Ciò ha a che fare con il temperamento di ogni insegnante, ma sarebbe sbagliato pensare che il carisma o le doti di mediazione debbano essere gli unici strumenti in campo. In primo luogo perché ci possono essere docenti preparatissimi ma non molto carismatici (e non è un crimine), in secondo perché quand’anche il docente fosse un Napoleone della didattica, ci sono comunque giornate in cui le battaglie, senza adeguato supporto, si perdono e basta.

Quali sono gli strumenti a disposizione dei docenti? Non molti, e non particolarmente efficaci. Lo strumento principale è la sanzione: la nota, la sospensione o, più blandi ma spesso teatrali, i rimproveri. Un’altra possibilità è data dai compiti a casa punitivi, che però andrebbero banditi: utilizzare gli strumenti di apprendimento come sanzione fanno passare l’idea che l’apprendimento sia di per sé stesso una punizione.

Quali effetti sortiscono questi provvedimenti? Di solito nessuno. Una punizione che non serve a niente, però, non ha potere deterrente. Ecco allora che i regolamenti di istituto costruiscono quasi invariabilmente un ricettario di ulteriori pene, più serie, che vanno applicate quando uno studente prende troppe note o tiene comportamenti particolarmente gravi: le già menzionate sospensioni, il cinque in condotta o l’esclusione dalle gite (che però sono attività didattiche, non premi o balocchi).

In altre parole, la scuola cerca di disciplinare l’escalation sanzionatoria, in modo da riuscire, prima o poi, a intimorire uno studente quanto basta perché modifichi il proprio comportamento. L’arma finale, ovviamente, è la bocciatura.

È un sistema, questo, che ha una sua logica interna, ma ha tutti i difetti tipici delle minacce: se ad esse non si dà seguito, si perde la faccia e chi doveva essere intimorito si ritrova ancora più baldanzoso. E sono numerosi i casi cui alle minacce non si può o non si vuole dare seguito: per evitare un altro caso di abbandono scolastico, per non gettare via quel che un ragazzo può in ogni caso aver fatto di buono, o per dare fiducia a qualche segno di ravvedimento (per quanto si abbia sempre il ragionevole sospetto che questo sia puramente strumentale).

I docenti li vedono i limiti del sistema minatorio-sanzionatorio? Sì, li vedono benissimo. Siccome però non hanno altri strumenti, si tengono stretti questi, nella speranza, per quanto fioca, che il loro lavoro non finisca tutto quanto buttato a mare. Questa è la ragione per cui, quando il ministero interviene dicendo: “Non bocciate!”, un professore si sente tradito e lasciato in braghe di tela.

Il ministero ha un bel dire ai docenti che non devono arrivare allo scontro frontale con gli studenti, ma anche questa osservazione ha un sapore agro: difficilmente un insegnante ha voglia o gusto nel mettersi a litigare con uno studente, e se lo ha fatto è perché non gli rimanevano alternative, pur capendo benissimo che spesso uno studente è vittima di se stesso e di problemi più grandi di lui: immaturità, disagio familiare, background sociale impoverito, difficoltà di inserimento, e così via.

La cosa si può riassumere brevemente in questi termini: se un docente che vuole insegnare e una classe che non vuole imparare vengono chiusi in un aula e legati ben bene con attività e orari rigidamente predeterminati, quel che si otterrà sarà quasi sempre un manicomio in cui la punizione è – o almeno sembra – l’unico velo tra la possibilità di fare qualcosa ed il caos totale. Questo è tanto più vero nelle scuole che la classista società italiana destina alla funzione di ghetto – quali sono oggi alcuni tecnici e professionali.

Abolire la bocciatura e lasciare tutto invariato quindi potrebbe sì essere un miglioramento (perché senza la paura della bocciatura molte tensioni degli studenti sarebbero automaticamente alleviate), ma un docente vivrebbe questa cosa con il terrore di perdere il poco controllo che gli rimane sulle classi più riottose – terrore ampiamente visibile nelle levate di scudi che menzionavamo all’inizio.

Ma non è soltanto questo. Le ragioni più profonde che portano a difendere la bocciatura sono altre ancora. Oggi molte tensioni nascono dall’esito rigidamente binario dello scrutinio (promosso o bocciato, con la dilazione della rimandatura a settembre che cambia ben poco la cosa). Ciò costringe a buttare sui piatti della bilancia materie diversissime tra loro, portando ad annullare i buoni risultati in alcune per colpa di quelli cattivi in altre (è l’effetto della bocciatura), oppure a nascondere le difficoltà in alcune poche materie per non disperdere i buoni livelli raggiunti nelle restanti (sono le famose insufficienze che passano a sei). Questo stato di cose ha due conseguenze fatali.

La prima è che in questo continuo “mercanteggiamento” gli studenti finiscono per tenere comportamenti opportunistici, calcolando quali materie è necessario studiare e quali si possono invece lasciare andare (a dispetto degli sforzi del docente, che con un’ulteriore massiccia dose di frustrazione si trova a dover avallare voti in cui non crede “per decisione di Consiglio”).

La seconda è che se un diploma deve attestare il raggiungimento di certi livelli di istruzione, promuovere chi si è comportato male, non si è impegnato abbastanza o non ha una preparazione sufficiente sembra una vera e propria truffa, alla quale un docente scrupoloso non si vuole prestare. È un’obiezione fortissima, inoppugnabile, profondamente avvertita e vissuta: “Quello non ha fatto nulla tutto l’anno, ha disturbato, risposto male, mandato all’aria il lavoro di tutti, e gli devo dire pure «Bravo, sei promosso», mettendolo sullo stesso piano di chi ha lavorato davvero?”.

Se non si supera questa obiezione, non si va da nessuna parte. Finché esisteranno un premio e una punizione impropri, quali sono promozione e bocciatura, qualsiasi altra considerazione sarà spazzata via da questo semplice ragionamento.

Come si fa, allora? La soluzione più semplice e immediata è quella di abolire non solo la bocciatura, ma anche lo scrutinio collegiale che ha luogo nel Consiglio di classe di giugno. Ogni professore indica il proprio voto, e quello rimane, senza chiacchiere inutili.

A quel punto la “retribuzione” non è più decisa da promozione o bocciatura, ma dal voto finale, che è la somma di tutti i voti senza correttivi impropri (i sei “regalati”): chi ha studiato prende un bel voto, chi non si è dato da fare ne prende uno che ne denuncia il mancato impegno. Tutte le materie contribuiscono, nessuna fa da cenerentola, quel che uno studente semina poi raccoglie.

Se si pensa che ciò dia troppo potere agli insegnanti, basta inserire dei correttivi, nemmeno troppo difficili da implementare. Nel corso del quinquennio si lascerebbe ai docenti la piena libertà di decidere i voti secondo scienza e coscienza (non collegialmente), mentre per l’esame alla fine del quinquennio si istituirebbe una commissione di valutazione interna, costituita da professori della scuola che conoscono la didattica impiegata durante i cinque anni e possono quindi preparare le prove di valutazione per ogni classe. Tali prove sarebbero corrette anonimamente non dal docente di classe, ma dai suoi colleghi, evitando così che possibili aspetti “personali” possano incidere sull’obiettività della valutazione. In questo modo, l’unica cosa a contare davvero sarebbe la reale preparazione di ogni singolo studente. Lo schema è replicabile, se si vuole, alla fine di ogni anno scolastico o anche alla fine di ogni quadrimestre, se si vuole avere un monitoraggio costante.

I professori sarebbero così sgravati dal rito ormai vuoto dello scrutinio collegiale e dai continui mercanteggiamenti per il voto, gli studenti invece da quella sciocca ragioneria delle medie e dei crediti che oggi – non è un’iperbole – li ossessiona. Ancora, senza la paura della bocciatura e delle sue pessime conseguenze verrebbero meno tantissimi dei comportamenti infantili e oppositivi che oggi caratterizzano i nostri studenti. Per i residui comportamenti sbagliati ovviamente bisognerebbe pensare a nuove forme di sanzione, ma neanche questo è un problema. Si potrebbe introdurre la detention tipicamente anglosassone, in virtù della quale chi si comporta male rimane a scuola più a lungo e si dedica ad attività socialmente utili. Dare al voto di condotta lo stesso valore di quello di una materia, come già si fa, troverebbe in questo quadro un significato reale. Ma sarebbe facile immaginare anche altre punizioni senza troppi problemi.

Certo, non basterebbe soltanto questa semplice riforma: nel momento in cui si crea un sistema in cui è solo la preparazione reale a contare davvero, alle scuole viene chiesto di essere davvero efficaci e ai professori davvero pronti, preparati e motivati. Ma non sarebbe una bella sfida?

[Immagine: Rok Bicek, Class Enemy].

6 thoughts on “Perché i professori difendono la bocciatura

  1. Come si è detto, l’articolo è già stato pubblicato per la prima volta mesi fa e dunque non avrei molto da aggiungere oltre a quello che è già stato detto a quel tempo. Aggiungo solo che nell’articolo non si discute di un fenomeno importantissimo e che deve essere analizzato seriamente e a lungo: i genitori “protettivi” che pretendono che i docenti diano ai loro figli sempre sufficienze e promozioni anche se immeritate, anche a costo di venire alle mani con i docenti, di ricorrere a tribunali e simili. Di solito si dice che questo fenomeno è dovuto al lassismo post-sessantotto che se non sei bravo non è colpa tua ma colpa della società e dell’ambiente, dell’idea egualitarista che nella vita tutto sia dovuto gratuitamente e a tutti e così via…

    Secondo me invece non è esattamente così, la mia idea è che i genitori hanno orrore della bocciatura perché non è sentita dalla società come un anno in più per impegnarsi a raggiungere requisiti finali indispensabili per il lavoro che ogni ragazzo in quanto diverso, può raggiungere in tempi e modi diversi ma al contrario come un evento “simbolico” privato reso pubblico tramite gli scrutini appesi fuori dalle scuole e visibili a tutti e dunque visto come un fallimento sociale e dunque qualcosa di degno di disprezzo. Se ci pensate bene in vari altri campi sociali legati ai ragazzi questa “esposizione pubblica dei risultati” manca e guarda a caso, non si fanno ricorsi a istruttori e tribunali in quei casi. Negli esami per la patente i nomi dei promossi e bocciati all’esame di guida non vengono esposti in pubblico fuori dalle scuole guida, nelle competizioni sportive per ragazzi non vengono esposti in pubblico fuori dalle scuole i nomi dei ragazzi che non si sono qualificati alle corse e così via.

    A questo si aggiunga il fatto che oggi il mondo del lavoro è molto più cambiato rispetto a quello della scuola e ci sono pochi posti di lavoro rispetto al numero di giovani che lo cercano, le aziende e lo stato sono costretti a mettere sempre più requisiti per selezionare aspiranti lavoratori. In tal modo però si è finito per chiedere requisiti di diplomi anche per lavori in cui non c’è bisogno di tutte le cose teoricamente imparate con quel diploma (diploma peraltro basato su conoscenze e capacità legate molto più ai lavori di cinquant’anni fa che a quelli attuali). Ad esempio basti pensare che oggi ai concorsi per operatori ecologici e per bidelli si richiede necessariamente il diploma di maturità. Chiaramente è ovvio che i genitori dicono così ai docenti “promuovete nostro figlio anche se non sa le equazioni di secondo grado perché per fare lo spazzino sapere le equazioni di secondo grado non è indispensabile ma avere il diploma di maturità è indispensabile eccome!” Allora qui si capisce che, se non si vogliono cambiare radicalmente il sistema dell’esame di maturità rendendolo veramente oggettivo e misuratore della presenza di reali requisiti per il mondo dell’università o del lavoro, occorre lasciare che siano concorsi, università e azienda a controllare con test in entrata se i ragazzi hanno i requisiti che prima dovevano essere dimostrati col diploma, in questo modo si salva la scuola da questo meccanismo perverso delle promozioni a tutti i costi, altri modi migliori non sembrano esserci…

  2. Aggiungo soltanto che attualmente l’esposizione pubblica dei voti viene difesa per una questione di trasparenza, ovvero che esponendo pubblicamente i voti quantomeno le raccomandazioni, o i regali, sono palesi. Questa argomentazione è corretta, tuttavia occorre dire che questa trasparenza sarebbe ugualmente rispettata se al posto di esporre pubblicamente i nomi e cognomi di ciascuno studente venissero esposti pubblicamente accanto ai voti solamente numeri di matricola ognuno conosciuto soltanto dallo studente al quale viene assegnato. In questo modo la trasparenza è rispettata in quanto se gli studenti sanno che in matematica ci sono durante l’anno tre studenti chiaramente insufficienti e agli scrutini finali i voti insufficienti sono diventati due allora si scoprono subito raccomandazioni, regali e casi illeciti simili.

  3. Aggiungerei che non solo i nomi e cognomi dovrebbero essere sostituiti da una matricola e ordinati ovviamente in modo casuale, ma anche i singoli voti dovrebbero essere scritti alla rinfusa: al 7 di matematica di Mario Rossi (matr. 35753) dovrebbero succedere il 6 di chimica di Paolo Ferrari (matr. 297476), il 5 di fisica di Ambrogio Fumagalli (matr. 764109), l’8 di italiano di Antonio Esposito (matr. 6382642). In questo modo solo chi è veramente interessato, sia per amore di giustizia sia per amore di pettegolezzo, ai voti altrui farebbe la fatica di ricostruire le pagelle dei compagni. Sarebbe altresì utile che i quadri dei voti fossero scritti con inchiostro giallo su un cartoncino dello stesso colore).
    Scusate, ma l’ossessione per la privacy spesso fa perdere il senso del ridicolo (e nel frattempo ogni volta che ci colleghiamo alla rete Google e Facebook acquisiscono dati su di noi e conoscono il colore delle mutande che indossiamo.)

  4. @Alessandro Montani:

    ma chi ha mai parlato di “ossessione per la privacy”? Io ho parlato di una cosa ben diversa, ovvero del far comprendere alla società che la bocciatura dovrebbe essere considerata solo “come un anno in più per impegnarsi a raggiungere requisiti finali indispensabili per il lavoro che ogni ragazzo in quanto diverso, può raggiungere in tempi e modi diversi” e non come un fallimento in una presunta competizione selvaggia in cui si fa a gara a chi prende voti più alti possibili in tutte le materie possibili nel minor numero di anni possibile. L’esposizione pubblica dei voti con sostituzione dei nomi e cognomi con i numeri di matricola è da tempo presente alle università per comunicare i risultati degli esami scritti e nessuno trova un’ “ossessione” o “ridicola” questa prassi. Aggiungo inoltre il fatto che nel Regno Unito è proibito ai colloqui di lavoro chiedere l’età al candidato e nei curriculi molti non mettono neanche la loro data di nascita, anche qui non c’entra nulla la privacy ma una cultura che fa comprendere che la competizione non si fa a scuola ma in altri ambienti.

    Per il resto come ho già detto in passato io sostituirei il sistema delle bocciature e del diploma con la creazione di un sistema simile a quello delle certificazioni linguistiche. Quando studi una lingua, la tua scuola di lingue ti forma. Quando ti senti pronto, dopo esserti confrontato con il tuo docente e aver fatto magari delle simulazioni, ti iscrivi ad una sessione di esami di un ente certificatore, distinto dalla tua scuola di lingue (e in tal modo i “giudici di gara” sono distinti dagli “allenatori” e quindi si evita che sia l’ “oste” a decidere se il “vino” è buono o no). La stessa cosa si potrebbe fare nella scuola: qualcuno potrebbe raggiungere un C1 in Italiano, un B1 in matematica, un B2 in fisica e così via. Alle facoltà ci si iscrive in base ai livelli delle varie materie: per le facoltà scientifiche ti serve almeno un C1 in matematica e fisica e così via. In questo modo la scuola si concentrerebbe sulla formazione e non sulla certificazione e ogni studente potrebbe formarsi in modo personalizzato e con i proprio tempi.

  5. Ma a nessuno viene in mente che la bocciatura di per sé non è una punizione, ma un modo per dare più tempo a chi ne ha bisogno (per ragioni a volte anche solo parzialmente dipendenti dalla sua volontà) di raggiungere obiettivi disciplinari e acquisire competenze sociali adeguati? Non è impossibile, lavorando bene con famiglie e studenti, impostare in questo modo il discorso. Se però noi insegnanti continueremo a maneggiare la bocciatura come un’arma impropria continuerà a esserci qualcuno che si fa male (noi o loro). Non è un’arma: è uno strumento. Non possiamo usarla per minacciare. Il fraintendimento temo che nasca da fatto di porre l’obiettivo del nostro lavoro nell’insegnare: anche insegnare è uno strumento; l’obiettivo è che i ragazzi imparino. Nella mia esperienza – che non qualificherò ipocritamente come modesta, per quanto possa anche esserlo – ho visto che creare le condizioni per cui i ragazzi ci percepiscano come membri-guida di una squadra che condivide il comune obiettivo di far progredire il più possibile tutto il gruppo, è possibile e dà frutti. Ma occorre evitare il muro contro muro, rinunciare piuttosto a un po’ di programma per curare le relazioni e tentare di sciogliere i nodi (o almeno non ignorarli, affrontarli: verbalizzarli in modo assertivo ma non sanzionatorio , dunque creando spazi per tentare di capirsi) quando si presentano. A quel punto, se si è dato molto sul piano che ai ragazzi sta più a cuore (quello delle relazioni), si può pretendere molto – proporzionalmente alle dotazioni di ciascuno – su quello didattico. Se l’obiettivo è far acquisire competenze, e il lavoro dell’apprendimento è percepito come un lavoro serio, è possibile che il ragazzo percepisca la prospettiva della bocciatura non come una sanzione, ma come un ‘tempo supplementare’ per non rimanere indietro in quella acquisizione: o crediamo che sia indifferente far uscire dalla scuola incapaci con un diploma o persone competenti? Prima però dovremmo essere davvero convinti noi che quella che si svolge tra noi e i ragazzi tra i banchi di scuola non è una guerriglia, ma un impegnativo trekking in cordata.

  6. @Marco Bernardi,
    la sua affermazione ” la bocciatura di per sé non è una punizione, ma un modo per dare più tempo a chi ne ha bisogno (per ragioni a volte anche solo parzialmente dipendenti dalla sua volontà) di raggiungere obiettivi disciplinari e acquisire competenze sociali adeguati” è purtroppo di fatto falsa in quanto ci sono motivi molto seri e tutt’altro che stupidi che obbligano a ritenere la bocciatura nelle modalità attuali come una vergogna da evitare con ogni mezzo, anche illecito, e non un’anno in più per raggiungere lo scopo del diploma. Oltre alla “cultura della competizione” causata dalla prassi sbagliata dell’esporre pubblicamente i voti finali con nomi e cognomi (e che non è affatto l’unica garanzia di trasparenza per evitare raccomandazioni o voti regalati, per fare questo basta usare solo i numeri di matricola come all’università) c’è un motivo ancora più importante che spinge i genitori a promuovere ad ogni costo i propri figli: nel mondo del lavoro in Italia la giovane età è un vantaggio enorme, e ogni anno perso è un danno irreparabile; presentarsi come neodiplomati a 20 anni, anche se si è usciti con 100 e lode dalla maturita, significa precludersi molte strade, anche se si è stati bocciati non per non aver studiato ma perché si ha avuto una grave malattia per quasi tutto un anno, oppure se si credeva in buona fede, magari spinti da docenti che sbagliavano, che la scuola buona era il liceo scientifico, e poi ci si è accorti che era meglio il liceo linguistico. Il ragionamento dei datori di lavoro è: “se sei più rapido è perché sei più attivo e se sei più attivo è perché sei più giovane e dunque sei mentalmente più elastico e ti posso formare come dico io.” Ovviamente questo ragionamento è spesso anti-meritocratico perché esclude i meritevoli meno giovani e anche qui le soluzioni per risolvere questo problema ci sono: in molti paesi esteri come ad esempio in Inghilterra è illegale chiedere l’età al candidato e sul curriculum vitae spesso non viene messa la data di nascita.

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