di Carlo Tirinanzi De Medici

[LPLC va in vacanza. Per non lasciare soli i nostri lettori durante la stagione estiva, riproponiamo alcuni pezzi usciti nei mesi o negli anni precedenti. Questo articolo è stato pubblicato il 18 marzo 2018].

Una donna dai capelli biondi, selvaggi e pieni di nodi; una ragazza intelligente dal mento pronunciato che sa ridere di sé e del mondo intorno alla quale ruotano quattro vite di un unico personaggio, Archie Ferguson, il «sedicenne preso con la guardia abbassata» (p. 137) protagonista di 4321 di Paul Auster. Un romanzo lunghissimo (939 pagine nell’edizione italiana) che sembra sempre troppo corto in cui si coagulano la fascinazione per i possibili e la fantasia, la storia degli anni Sessanta, il rapporto tra soggetto e altro, tra carattere e identità, la dinamica caso/destino. Un romanzo metanarrativo che non sembra interessarsi a metadiscorsi buoni solo a perdere ore di sonno; una storia d’amore per una donna che è amore per la letteratura, quel perno capace di reggere (se non risolvere) tutte le contraddizioni.

Seguiamo Archie dall’infanzia ai ventiquattro anni, secondo uno schema che si rifà ai romanzi di formazione classici, anche nella maggior rilevanza (due terzi del libro) del periodo universitario di Archie, sebbene – se ne riparlerà – non ci sia vera maturazione. L’impianto biografico deve molto anche a Dickens (nominato infatti più volte, sempre con affetto), come anche l’intersezione di molteplici storie appena accennate (nel lessico della narratologia sarebbero sommari) che punteggiano la vicenda principale, a ricordarci che siamo tutti parte di quell’ur-romanzo che Auster chiama Il libro della vita terrestre — un libro dove sono inscritte tutte le vicende di tutti gli uomini che hanno calcato questo pianeta.

Uscito dritto dalla Biblioteca borgesiana, Il libro della vita terrestre sarebbe lunghissimo e tuttavia ancora incompleto, perché accanto alle «persone visibili» in carne ed ossa, ci sono quelle «invisibili» del regno del possibile. Il «mondo effettivo» (quello in cui viviamo tutti noi) rappresenta «solo una piccola parte di quello che sarebbe potuto succedere ma non [è] successo» (p. 936): per questo 4321 mette in scena quattro diverse versioni di Archie e del suo mondo. Di volta in volta giornalista, romanziere di belle speranze, tormentato expat in cerca di un’identità, Archie vive a New York o a Princeton, frequenta scuole private o pubbliche, gioca a basket o a baseball.

Il libro è diviso in 7 capitoli disposti in successione cronologica (dalla nascita di Archie nel 1947 al 1971; i sommari allargano il tempo del racconto dal 1900 al 1974), ognuno dei quali è diviso in 4 sottocapitoli (numerati 1.1, 1.2, ecc.) che osservano la vita di uno dei quattro Archie in quel periodo. Allora nella versione n° 1 il negozio di elettrodomestici del padre di Ferguson viene rapinato, finendo per interrompere l’ascesa economica della sua famiglia; nella n° 2 bruciato; nella n° 3 ancora bruciato, ma stavolta il padre muore nell’incendio; nella n° 4, invece, prospera fino a diventare la più grande catena di elettrodomestici del New Jersey. Man mano le linee narrative divergono sempre più dal capitolo 1.0, comune alle quattro versioni, come una città che cresce a raggiera; i personaggi sono più o meno sempre gli stessi, ma – come per Archie – i rapporti tra loro e le condizioni di vita saranno diversi a ogni versione.

Il romanzo lascia sullo sfondo gli eventi storici, che pure compaiono di frequente: l’esecuzione dei Rosenberg, gli omicidi di JFK e Martin Luther King, le lotte per i diritti civili e il Vietnam. Anche quando la Storia e il protagonista sono vicini, come nel caso delle proteste studentesche alla Columbia, Archie osserva gli eventi da fuori. I due piani sembrano non intersecarsi, tanto che per un recensore la Storia è «pura tappezzeria».[1] Non è del tutto sbagliato: Archie resta sempre ai margini degli eventi, ma a farne un metro di giudizio si cade in una forma di moralismo engagé che scherma il senso del libro. Da un lato, come si dirà, il fuoco è sul soggetto; dall’altro quella di Archie è una postura comune, oggi come allora — al di là dell’impressione di fare la storia, in quanti sessantottini possono dire di averla fatta, ora che le speranze di quel tempo sono andate sistematicamente deluse?

Del resto Auster riconosce un rapporto tra vita privata e pubblica e la illustra con l’immagine dei cerchi concentrici (pp. 687-9): il più esterno è il mondo –la guerra in Vietnam e le sue implicazioni sovranazionali –; poi ci sono la nazione americana, New York, la Columbia e infine Ferguson stesso e i suoi amici — la sua quotidianità. Come in una plongéee gli eventi sgocciolano da un cerchio all’altro: sono «cinque mondi, cinque realtà separate, ma tutte collegate tra loro» (p. 689). Inoltre il romanzo si apre su una data dal valore simbolico, il 1 gennaio 1900 e si chiude con un elenco di eventi pubblici, resa icastica di come il cerchio maggiore contiene i minori. Manca la Storia come entità, perché essa è composta di uomini, di singoli individui. Altri personaggi (a partire da Amy-1) hanno una vita più attiva e riescono ad agire sugli altri cerchi (spesso in modo imprevedibile).

La relazione tra i cerchi ricorda quella tra vita e letteratura proposta da 4321. Esplicita nella figura di Thoreau, scrivere può voler dire che «forse le parole che ti ronzavano in testa avrebbero iniziato a cantare sulla pagina […] e il mondo avrebbe cominciato a sembrare diverso» (497; anche la «fedeltà» ai suoi principi etici è vista come un effetto della scrittura che si rifrange nel comportamento quotidiano). Il rapporto è ambiguo: ma c’è.

Altrettanto ambiguo è il rapporto tra Archie e l’autore. Entrambi nati nel 1947, entrambi scrittori, entrambi ebrei; entrambi hanno visto un amico morire al campeggio estivo; entrambi scrivono solo su una macchina da scrivere portatile marca Olympia; somiglianze che hanno spinto alcuni a parlare di «narrazione pseudoautobiografica».[2] Entrambi scrivono della propria infanzia: prima di 4321 Auster aveva pubblicato due memoir, Diario d’inverno e Notizie dall’interno, ma proprio questo fatto ci permette di apprezzare il passaggio alla finzione vera e propria in una delle tante mise en abîme del libro: Archie-3, scrive un memoir sulla propria infanzia e sente che «l’autobiografia era troppo penosa» (p. 597). Contestualmente si accorge come, nello scrivere di sé, l’io si moltiplichi: l’uomo che vive da un lato, dall’altro il personaggio, mentre lo stesso uomo che vive stacca una parte di sé per costruire l’io dello scrittore:

Scrivendo di sé […] Ferguson si era ritrovato dentro un nuovo rapporto con se stesso. Sentiva un legame più intimo con i suoi sentimenti e allo stesso tempo si sentiva più lontano, quasi distaccato, indifferente, come se durante la stesura del libro fosse diventato paradossalmente una persona più calda e più fredda, più calda perché si era aperto e aveva mostrato le sue viscere al mondo, più fredda perché poteva guardare quelle viscere come se appartenessero a un altro, un estraneo, uno senza nome. (p. 597)

«Un estraneo», cui a questo punto nulla impedisce di far vivere cose differenti. La finzione è il vero centro del romanzo, che – un po’ come un altro romanzo su strade non prese, Se una notte d’inverno un viaggiatore – è anche un inno al romanzo non sperimentale. 4321 infatti è tendenzialmente componibile (è possibile leggere le storie dei diversi Ferguson in sequenza: 1.1, poi 2.1 e così via), ma in tal modo si perderebbe il senso d’interrelazione tra i Ferguson – il contrasto delle diverse reazioni a eventi simili – dovuto alla giustapposizione. Insomma la strutturazione sperimentale è alla base del romanzo ma non è Se una notte o Rayuela perché viene aggirata (qui forse la coesistenza di moderno e postmoderno nella letteratura contemporanea teorizzata da Donnarumma trova un’ulteriore conferma). Il piano metatestuale è presente (riflessioni sulla letteratura, sull’atto dello scrivere, una valanga di romanzi e poesie solo nominati oppure indagati a fondo), ma non governa gli altri. È una parte del romanzo, così come i romanzi sono parte della vita.

Ciò che conta sono in primo luogo le storie: quelle storie che costituiscono l’unica eredità del nonno di Ferguson, metà sbruffonate e metà ricordi. Solo nelle prime dieci pagine ci sono tre storie sul nonno paterno di Archie; due sulla nonna paterna; due sugli zii; tre sulla famiglia della madre; una sul nonno e una sulla nonna materni; una su Mildred, sorella di Rose. Ognuna è liquidata in poche righe, ma mentre le leggi immagini, desideri migliaia di pagine che la sviscerino. Auster (aiutato da uno stile limpido e scorrevole) è bravo a stimolare la curiosità sin dalla prima frase del romanzo:

Secondo la leggenda di famiglia, il nonno di Ferguson partì a piedi da Minsk, sua città natale, viaggiò a ovest fino ad Amburgo passando per Varsavia e Berlino, comprò il biglietto per una nave chiamata Empress of China che attraversò l’Atlantico in mezzo a violente tempeste invernali ed entrò nel porto di New York il primo giorno del ventesimo secolo». (p. 3)

Nella pagina dopo, sempre parlando del nonno, leggiamo che questi era

[…] un gagliardo lavoratore […] che cercò fortuna a Manhattan e Brooklyn, a Baltimora e Charleston, a Duluth e Chicago, impiegato in varie mansioni, scaricatore di porto, marinaio semplice su una nave cisterna nei Grandi Laghi, addetto agli animali in un circo itinerante, operaio alla catena di montaggio in una fabbrica di lattine camionista, scavatore, metronotte». (p. 4)

La strategia dell’elenco, utilizzata spesso nei sommari, diventa vertigine, rimanda alla molteplicità di fatti e storie che intersecano il nostro andare per il mondo. Le storie accadute si mischiano a quelle d’invenzione, e contano egualmente entrambe: Archie ha

la sensazione costante che i bivi e le parallele delle strade prese e non prese fossero tutti percorsi dalle stesse persone nello stesso momento, le persone visibili e le persone ombra, che il mondo effettivo fosse solo una piccola parte di quello che sarebbe potuto succedere ma non era successo. (p. 936)

Quello che è accaduto e quello che avrebbe potuto accadere sono separati da un diaframma sottilissimo, il caso. Le svolte nella vita dei personaggi avvengono per eventi casuali apparentemente insignificanti: un tizio si rompe una gamba e la madre di Archie-3 ottiene il suo primo incarico come fotografa; le foto di quel matrimonio saranno viste da uno degli invitati che le chiederà di collaborare alla rivista di cui è direttore, dando inizio all’ascesa artistica della donna (p. 216). Un attimo di distrazione della guidatrice costa ad Archie-1 il pollice e due falangi dell’indice (p. 318) in un incidente d’auto. La svista di un impiegato dell’immigrazione dà alla famiglia di Archie il cognome attuale, Ferguson, mentre il nonno voleva farsi chiamare Rockefeller.

L’inatteso (Auster preferisce questa parola a “caso”) governa le vite delle persone, le trasforma continuamente in modi imprevedibili, incomprensibili, spesso dolorosi, ma rifiutarla non serve a nulla. Quando Amy lascia dopo anni di convivenza Archie-1, questi fatica ad adattarsi alla trasformazione.[3] Non è solo l’amore, è il mondo che cambia e questo è insopportabile. Archie-1 prova un sentimento simile a quello di Archie-4 quando viene respinto da Rhonda, un’amica di colore, su base razziale (sono gli anni in cui emerge l’orgoglio nero): «Ti prego, dimmi che è perché ti sto antipatico. Questo lo accetterei. […] È la fine del mondo, Rhonda». «No, macché», replica. «È l’inizio – l’inizio di un nuovo mondo – e tu devi solo accettarlo» (428).

L’inatteso: la discontinuità fondamentale del romanzesco che governa il genere fino all’inizio dell’Ottocento, e che sopravvive poi nella variante dell’incontro amoroso, ancora attiva oggi specie in forma lowbrow e midcult (Miele di McEwan, Alta fedeltà di Hornby). La prima che mi viene in mente: due persone si sfiorano per anni in una conoscenza superficiale fatta di rapidi scambi di battute a qualche festa, saluti per la strada. Poi per una serie di circostanze imprevedibili e improvvise cambiano entrambi città, finendo in due posti diversi; si ritrovano a bere un aperitivo e scoprono di non potere più fare a meno l’una dell’altra. I progetti di entrambi sono cancellati, sconvolti, un tempo nuovo e imprevisto si apre davanti a loro; ciò che avevano pianificato potrebbe scivolare oltre l’orizzonte del non accaduto. A simple twist of fate, direbbe Bob Dylan. Il romanzo del Novecento predilige l’evento epifanico, che apre una voragine solo momentanea nell’esistenza: in tal caso i due di cui sopra tornano a essere due estranei, come se non fosse mai accaduto nulla, tranne forse per qualche cicatrice. Magari per paura di quel tempo nuovo o della «fine del mondo» paventata anche da Archie. Auster non ha simili timori e sa che quel che succede è successo per sempre; negarlo o rimuoverlo non avrebbe senso. Il che non vuol dire che non si possa agire su quanto è accaduto — l’evento è immutabile, le sue conseguenze dipendono da noi. I due riprenderanno a parlarsi, capiranno che è possibile risolvere? La scelta è loro.

«Le cose», ha detto in un’intervista, «accadono senza che le abbiamo previste e bisogna far loro spazio invece di meravigliarsi».[4] E non sempre sono sorprese positive, anzi: la vita è una cosa fragile, come dimostrano le morti degli Archie dall’uno al tre, tutte dovute a incidenti stupidi: un ramo che si spezza durante un temporale; una macchina di cui non si è accorto perché ha guardato dal lato sbagliato della strada prima di attraversare; un incendio dovuto a una sigaretta. Di loro resterà solo una pagina bianca nei capitoli seguenti, la loro storia è finita. Davanti a questi eventi, leggiamo, gli dei restano in silenzio (p. 204) o al limite scrollano le spalle (p. 770).

Diventa necessario fare i conti con la fragilità della vita, con l’aleatorietà del nostro percorso nel tempo e nel mondo. Auster, ancor più di Roth, non feticizza mai le proprie origini ebraiche, ma vedremo che qui l’idea di “accettazione” è indubbiamente centrale. Manca invece il dio che preordina e decide, il dio cui rendere grazie anche nella tragedia, come ci rivela una delle pagine più cariche del libro ambientata al funerale di un amico di Archie-4:

[…] niente scemenze cristiane su un luogo migliore, niente fiabe sull’aldilà per Ferguson e la sua gente, quelli erano ebrei, gli ebrei folli, ribelli, e per loro c’era una vita sola e un luogo solo, questa vita e questa terra, e l’unico modo di affrontare la morte era lodare Dio, lodare il potere di Dio anche quando moriva un ragazzino di quattordici anni, lodare il loro Dio del cazzo finché gli occhi non gli uscivano dalle orbite e le palle gli cascavano a terra e i loro cuori non si rinsecchivano. (p. 275)

Dopo che suo padre è morto nell’incendio del negozio, Archie-3 lancia una personalissima sfida a Dio: si comporterà male, malissimo, attendendo la giusta punizione per il suo comportamento. Ma questa non avviene: Archie è solo, come siamo soli tutti, e l’unica verità è che «nulla è certo» (p. 71). Siamo sempre a rischio di essere investiti, di rimanere intrappolati in una casa bruciata o crollata, di lasciare nel Libro della vita terrestre un capitolo bianco.

D’altra parte non tutto è soggetto al caso: gli uomini vi si rapportano da una prospettiva individuale che varia solo relativamente. Per questo nelle versioni di Archie emergono alcune costanti. Oltre ai personaggi che in varia misura ricorrono, sebbene in posizioni diverse, e alla Storia, che da lontano influenza sempre tutto, ritornano le loro passioni e la loro disposizione d’animo, il carattere. Le personalità variano leggermente in base ai casi della vita, ma al fondo i personaggi restano in buona parte uguali a se stessi. Tutti i Ferguson hanno un rapporto ottimo con la madre, sono sportivi appassionati (ora baseball, ora basket), sono affascinati dalla scrittura (di volta in volta fiction, giornalismo, critica cinematografica), hanno a cuore la giustizia sociale.

Per questo il libro non si fa mai romanzo di formazione classico, perché il carattere è già fissato e se “maturità” vale “compromesso” è da evitarsi a ogni costo (Archie ammira Thoreau proprio perché non ha mai rinunciato ai suoi principi). Anche il rapporto con la società è, se non assente, non oggetto di dialettica narrativa: Ferguson è un figlio dei suoi anni, e come tale rigetta la società americana. Ma è un presupposto mai messo in discussione, una precondizione.

La scelta di limitare l’arco biografico all’infanzia e alla prima giovinezza serve a fissare il momento in cui le possibilità sono massime e tutto è ancora da decidere, ma si tratta di mutamenti esterni al soggetto, dovuti ai suoi legami e relazioni. I quattro Archie sentono, pensano e si comportano tutti diversamente, eppure hanno un fondo comune nella loro interiorità, nel loro modo d’interrogarsi sul mondo.

Di qui anche un certo senso di “superficialità” del racconto. 4321 non è un libro introspettivo, nonostante i numerosi indiretti liberi, piuttosto è interessato al rapporto con gli altri — infatti sono gli incontri a cambiare la vita dei personaggi. È come per il protagonista del racconto Destra, sinistra o sempre dritto?, scritto da un Archie-4 liceale: posto di fronte a scelte diverse che lo conducono a situazioni differenti, «si rende conto […] che la sua vita è diventata così noiosa e priva di avventura solo per colpa sua, che per vivere la vita appieno dovrebbe passare più tempo con gli altri» (pp. 537-8).

Gli incontri permettono in primo luogo al soggetto di comprendersi, vi si specchia e vi si confronta; gli incontri lo muteranno, certo, ne muteranno l’identità che si forma in relazione con l’altro (di qui inclinazioni e passioni diverse dei vari Archie, compreso l’orientamento sessuale). E su tutti, è il rapporto con Amy a mettere in risalto la dicotomia tra carattere e identità, tra io e altri. È lei la costante centrale: la «straordinaria Amy dalla chioma selvaggia e gli occhi lucenti» (716), la cui risata indimenticabile è allo stesso tempo forte e «intelligente», «allegra» e «pensierosa», «una risata che rideva di se stessa proprio mentre rideva di ciò di cui stava ridendo» (p. 251), «ardente, impavida, consapevole della natura eccezionale con cui era venuta al mondo» (153). Archie, al quale non interessano «le ragazze sane e normali», che «gli ricord[ano] i sobborghi, diventati troppo prevedibili peri suoi gusti», non vuole stare con una ragazza «prevedibile» (p. 148), ed ecco Amy, «con le sigarette arrotolate e la risata potente» (p. 480).

La prima descrizione è cinematografica, al rallenty,[5] ma vira subito sullo psicologico (l’irruenza di Amy, la sua mancanza d’imbarazzo). Auster non lesina nessuno stratagemma da narratore consumato per farci capire quanto questo momento sia importante, quanto Amy sia importante per Archie (e riesce a farlo diventare anche per noi, stimolando la nostra capacità di immedesimazione). Il momento dell’incontro tra i due merita di essere riportato per intero:

[…] poi sentì la sua voce per la prima volta, Ciao Archie, e in quel momento capì, al di là di qualsiasi dubbio, che erano destinati a diventare amici, ovviamente era una supposizione assurda, perché cosa ne poteva sapere in quel momento, fatto sta che lo sentiva, lo intuiva, era certo che stesse accadendo qualcosa di importante e che lui ed Amy Schneiderman avrebbero intrapreso un lungo viaggio insieme (154)

Questo brano nega e riafferma la primazia dell’imprevisto sulle nostre vite: è un incontro inaspettato, ma è come se fosse già destino, come destino sono i tratti ineliminabili del nostro carattere. E così, di volta in volta amante, amica, addirittura sorellastra, Amy è la persona con cui confrontarsi. Refrattaria ai compromessi come Archie, capace di capire Archie come lui sa capire lei; condividono passioni e interessi (anche quando li declinano in modo diverso); nonostante gli screzi e le bizze che increspano ogni rapporto la ragazza è senz’altro «La compagna indispensabile che gli era entrata nella pelle» («The indispensable other who dwelled inside his skin», p. 153). Al «bisogno selvaggio di essere se stessi» (p. 497) si oppone la duplicazione di sé nell’altro, un altro simile e radicalmente diverso che ti vive sotto la pelle riportandoti alla natura relazionale della vita. Non a caso in tutte e quattro le versioni Amy è sempre presente in una posizione rilevante, partecipa ai twist of fate di Archie che trova in lei ciò che noi troviamo nei quattro Archie — il reticolo dei possibili, dei diversi modi di guardare il mondo.

E altrettanto non a caso la storia tra i due finisce sempre per interrompersi., perché la finzione non è un sostitutivo dell’esistenza (pena la psicosi). Ne è parte, ma primum vivere. E agire laddove è possibile — Archie-1 perde la borsa di studio che gli consentiva di frequentare Princeton, ma organizza (complice, ancora una volta, una dose di inatteso) una nuova vita a New York. Anzi: primum ridere. Perché Archie-3 esce dalla propria ossessiva sfida con dio grazie ai film di Stanlio e Ollio. La risata di Amy sottolinea questo aspetto non distruttivo (come spesso si considera l’ironia) ma quasi maieutico. La risata consapevole della propria fragilità, la «punta di umorismo che avrebbe trasformato un tema banale in una lettura interessante» (173) sono ciò che ci proteggono dal caos del mondo. È il modo di accettare le cose, la maniera di «fare spazio», senza né rifiutarle (dissociandosi dal reale) né considerare ineluttabili le loro conseguenze (e perdere la speranza).

“Accettare” può anche significare, almeno se sei uno scrittore come Archie-4, costruire varianti dell’accaduto, ipotizzare altre versioni di sé a cui capitano cose diverse (il meccanismo del libro è spiegato nella mise en abîme delle ultime pagine). E non è – come in Celati – un modo per trovare «sollievo», un cercare «finzioni a cui credere» per coprire il vuoto di senso dell’esistenza. Archie-4 elabora altre tre versioni di sé per esplorare ciò che avrebbe potuto essere e così capire chi è lui — ma li fa morire tutti. Alla fine resta di nuovo solo, perché le finzioni non sostituiscono la vita.

Non per questo sono meno importanti, perché rispondono al bisogno di ognuno di «vivere la vita appieno» (538). Come puoi essere sicuro di averlo fatto, se per una porta aperta chiudi cento portoni? Le immagini di incroci si ripetono lungo tutto il libro: alle pp. 263 ss. un Ferguson adolescente spiega a un amico che dovendo decidere di percorrere una strada,

[…] non saprai mai se hai fatto la scelta sbagliata. Avresti bisogno di conoscere tutti i fatti in anticipo, e l’unico modo per disporre di tutti i fatti è essere in due posti nello stesso momento, ma è impossibile. […] Quindi ecco perché la gente crede in Dio. […] Solo Dio può vedere la strada principale e quella secondaria allo stesso tempo, ragion per cui solo Dio può sapere se hai fatto la scelta giusta o quella sbagliata. (p. 265)

Dato che le competenze divine ancora non le abbiamo, come fare? O si rinuncia, convincendosi che questo è il migliore dei mondi possibili, o ci si mette seduti a piangere; Auster, che è Auster, invece esplora le strade non prese, secondo l’abusata poesia di Robert Frost qui evocata non per protestare una differenziazione dalla massa (e di massa, come il film che l’ha resa celebre), ma per non dover scegliere, almeno fino a un certo punto, per verificare (a posteriori) le diverse possibilità non colte.

E poi tornare a quello che si è, arricchiti dall’esplorazione del possibile tipico delle finzioni, che diventano parte della nostra vita. Che del resto è fatta – come la scrittura – di slanci e di fermate, di controllo e rischio.[6] Per questo «Alla lunga, le storie valgono forse quanto i soldi» (p. 4): perché, come dice un cartello appeso in aula dalla professoressa Monroe contro la rovina del mondo, la difesa è una sola: l’atto creativo.

Ridere, scrivere, inventare. Accettare e combattere. Avremmo tutti bisogno di quattro vite per capire meglio gli altri e noi stessi o, visto che nessuno è dio e non tutti siamo scrittori, almeno di una Amy impavida e ardente, dal mento pronunciato e i capelli selvaggi e la risata forte, con la quale ridere e confrontarci. Comunque sia, abbiamo Paul Auster, e non è poco.


[1] A. Brondino, Paul Auster, 4321. Solo un altro romanzo familiare americano?, «Doppiozero», 3 dicembre 2017, url http://www.doppiozero.com/materiali/paul-auster-4-3-2-1

[2] F. Fiorletta, 4321 e il grado zero di Paul Auster, «Nazione indiana», 30 ottobre 2017, url https://www.nazioneindiana.com/2017/10/30/4321-grado-zero-paul-auster/

[3] «Nei momenti in cui era più forte riusciva a dirsi che era meglio così, che la persona che Amy era diventata non era più quella con cui avrebbe voluto o potuto vivere, perciò non doveva rimpiangere niente. Nei momenti in cui era più debole, Amy gli mancava, gli mancava come gli erano mancate le dita mozzate dall’incidente, e adesso che lei non c’era più, spesso gli sembrava di avere un altro pezzo di corpo in meno. Quando non era né forte né debole, pregava che arrivasse qualcuno a occupare l’altra metà del letto e a guarirlo dall’insonnia», p. 830. E oltre: «Gennaio […], febbraio […] i giorni più bui, più freddi dell’anno […], un tempo che lasciava presagire solo cose tristi», p. 871.

[4] R. Staglianò, P. Auster, 4321: Paul Auster e il crepuscolo americano, «il Venerdì di Repubblica», 4 ottobre 2017, url http://www.repubblica.it/venerdi/interviste/2017/10/04/news/paul_auster_4321_nuovo_romanzo_trump-177365266/

[5] «[…] lei che scendeva dalla Chevrolet dei genitori, la testa biondo scuro che emergeva dal sedile posteriore, poi la scoperta sorprendente che era alta, […] una ragazzona con un viso decisamente bello, né carino né stupendo ma bello, naso solido, mento deciso, occhi grandi […] e una strana camminata sgambettante […] come se fosse impaziente di partire alla carica, una camminata da maschiaccio, pensò lui, ma seducente e insolita, segno che era una da non sottovalutare, una ragazza diversa da gran parte delle ragazze di sedici anni perché si muoveva senza neanche un filo d’imbarazzo», pp. 153-4.

[6] Ferguson osserva che «in ogni capoverso che scriveva Thoreau combinava due impulsi opposti e inconciliabili che Ferguson definì l’impulso a controllare e l’impulso a rischiare. Era quello il segreto, per lui. Il controllo da solo avrebbe prodotto risultati asfittici, soffocanti. Il rischio da solo avrebbe prodotto caos e incomprensibilità. Ma se li mettevi insieme magari azzeccavi qualcosa, forse le parole che ti ronzavano in testa avrebbero iniziato a cantare sull pagina, sarebbero esplose le bombe, sarebbero venuti giù i palazzi e il mondo avrebbe cominciato a sembrare diverso», p. 497.

 

 

[Immagine: Paul Auster]

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