di Giuseppe Episcopo
[LPLC va in vacanza. Per non lasciare soli i nostri lettori durante la stagione estiva, riproponiamo alcuni pezzi usciti nei mesi o negli anni precedenti. Questo articolo è stato pubblicato il 6 dicembre 2017.
È stata appena pubblicata Canon/Archive: Studies in Quantitative Formalism, edizione statunitense di una raccolta di pamphlet curata da Franco Moretti, ideatore del LitLab di Stanford, e già uscita in Francia con il titolo La littérature au laboratoire. Francesco de Cristofaro, Paola Di Gennaro, Giuseppe Episcopo e altri stanno lavorando alla traduzione italiana, che uscirà nei prossimi mesi in una nuova collana di Digital Humanities dell’Università di Napoli Federico II. Pubblichiamo uno stralcio della postfazione di Giuseppe Episcopo].
1. “Chiedersi se una macchina possa pensare è un po’ come chiedersi che colore abbia il numero tre”. Lo diceva Ludwig Wittgenstein e la frase veniva pronunciata all’epoca della prima diffusione delle macchine analitiche, negli anni ’40. La fase pionieristica dei calcolatori elettronici – ancora lontani dal diventare quelle pròtesi emotive d’intrattenimento collettivo o individuale in cui si sono trasformati laptop, tablet e smartphone – era però già accompagnata da un cartiglio su cui era inscritto, ben visibile, quel timore e quella passione del nuovo che di lì a pochi anni avrebbe preso il nome di intelligenza artificiale. In ogni caso, l’origine dell’interrogativo sulla natura pensante delle macchine non è in rapporto di relazione diretta con le sole capacità computazionali espresse dai calcolatori. Dietro la domanda c’è anche altro: qualcosa che ha a che fare con la forma delle macchine, le loro dimensioni, il loro peso, con ciò che della crisalide umana a esse, nel loro aspetto, sfugge.
Nelle oltre trenta tonnellate di pannelli e materiale elettrico distribuito su un fronte di quasi cinquanta metri lineari è dispiegata tutta la distanza dei calcolatori digitali da ogni residuo di simulacro umano. Il primo computer a potersi fregiare del titolo di cervello elettronico, l’ENIAC, realizzava 5000 operazioni al secondo: se non poteva vantare le fattezze antropomorfe degli automi – figure che a partire dalla metà del Settecento avevano sorretto e guidato la dilagante paura della replica meccanizzata dell’uomo – il cervello elettronico s’impossessava, superandole, delle capacità di calcolo che un singolo scienziato era in grado di eseguire individualmente. Ecco allora che a metà del Novecento lo spazio perturbante occupato dall’automa romantico si sposta dalle apparenze antropomorfe degli artefatti meccanici e/o robotici verso un giudizio di tipo epistemico relativo alle capacità intellettive espresse da una macchina: la soglia perturbante passa dalla forma del simulacro alla simulazione dell’“intelligenza”.
Non è il caso di accennare al famoso fantoccio vestito da turco di cui parlano Edgar Allan Poe nel saggio Maelzel’s Chess-Player e Water Benjamin nella prima tesi Sul concetto di storia, e che sarebbe stato in grado di sbaragliare negli scacchi qualunque avversario: tanto più che il nano gobbo nascosto all’interno dell’automa uscirebbe a sua volta sconfitto contro un qualunque programma di simulazione. Né è il caso di ricorrere al raffronto tra Maria, l’androide dall’aspetto femminile di Metropolis, e HAL, il puro algoritmo euristico in forma di monolite di 2001: Odissea nello spazio. È invece il caso di contestualizzare il rapporto con la tecnologia ricordando, ad esempio, che nel mondo latino e greco è possibile incontrare automi e androidi in contesti “perfettamente rispettabili e tranquilli”. Qui, a descrivere un mondo classico la cui immagine di compostezza abbia nell’automa un inatteso elemento con cui l’armonia tra l’uomo e la natura triangoli, è Franco Lucentini, che affida all’Almanacco Letterario Bompiani del 1962 una riflessione sul topos di lunga durata dei doppi meccanici nel solco dei rapporti tra elettronica e letteratura:
Automata Venus, presso Servio, commentatore di Virgilio, vale “Venere favorevole”. Automatia è l’amabile dea inventata dalla modestia di Timoleonte, secondo Cornelio Nipote e Plutarco, per giustificare una serie di successi. E la fanciulla finta da Pigmalione si rivela, animandole Cipri le membra d’avorio, sposa e madre (di Pafo) esemplare.
Per contro, quando la Vénus d’Ille di Mérimée (1832) viene già semovendosi dal piedistallo verdastro: i suoi passi sono pesanti come quelli dell’Uomo della sabbia, il criminale automaturgo di Hoffmann (1807); o del Frankenstein di Mary Shelley (1818); e le sue intenzioni parimenti omicide. Perché un destino di distruzione pesa ormai su tutti gli automi indistintamente: sia che vadano attorno seminando essi stessi la morte, sia che una fine orrenda (a Olimpia Coppelia, nel racconto di Hoffmann, cadono gli occhi; l’Eve Future di Villiers, ancora verso il 1890, è arsa “viva” in un incendio) li disfaccia scoprendone gl’intimi congegni.[1]
Stiamo divagando nel più canonico dei modi, lasciando cadere nell’attrazione gravitazionale della questione iniziale i dati che entrano nella sua orbita. La frase di Wittgenstein che ha dato l’abbrivio al discorso resta sì sospesa ma si arricchisce, grazie alle parole di Lucentini, di altre necessarie questioni: quelle relative al ruolo delle dominanti culturali e al peso delle trasformazioni diacroniche a cui esse sono soggette. Il punto allora è che nel destino toccato alle macchine che sono troppo a ridosso all’umano, al punto che sembrano volerne usurpare il posto – siano esse automi, androidi, o cervelli elettronici – si legge il destino delle digital humanities nella fase della loro espansione. Tutti indistintamente accolti da entusiasmi o catastrofismi ridotti nella loro portata critica perché tesi a osservare troppo da vicino l’oggetto nuovo che faceva tutt’uno con la tecnologia.
Qui però il discorso smette di essere ellittico perché è proprio per evitare di cadere nella valle accademica del perturbante che nel 2010 gli articoli nati a Stanford diventano i pamphlet del LitLab. Lo ricorda, ricostruendone la genesi, Franco Moretti: «Una nota rivista accademica ci aveva commissionato un articolo sui nuovi approcci critici che, una volta concluso, le abbiamo inviato. Le così tante richieste di correzioni con cui l’articolo ci è tornato indietro, però, sembravano il segno di un chiaro rifiuto. Sconfortante. Solo pochi anni fa il mondo accademico si teneva alla larga dalla critica computazionale: difficile non concludere da parte nostra che fosse stato respinto non semplicemente l’articolo in questione, ma un intero approccio critico».[2] Le digital humanities si trovavano a doversi difendere sia dai timorati della tecnologia che dai profeti del futuro, dal momento che entrambi – malgrado la distanza delle loro posizioni finali – lavorano sugli stessi oggetti, ovvero sul materiale immaginario che è il primo prodotto delle macchine, gli uni inseguendo gl’incubi, gli altri la visionarietà. Un po’ di distanza, ed è quanto ci ha fatto guadagnare Lucentini con il confronto tra gli androidi del mondo classico e quelli del mondo moderno, non guasta.
2. “Se una macchina possa pensare” non credo se lo sia mai chiesto Franco Moretti. Il solo accostare la caratura e l’integrità dello studioso alla natura della domanda porta a sorridere: incubi e sogni visionari non appartengono alle sue pagine né costituiscono parte della sua formazione. C’è invece la geografia, alla quale spetta il compito di indicare in modo concreto, fuori da tentazioni utopiche, una via di sintesi tra intuizione e costruzione logica; ci sono i formalisti russi e la Teoria del romanzo di György Lukács che, come afferma Moretti in molte recenti interviste, illuminano con pari chiarezza due percorsi: uno che attraversa l’universo testuale e un altro che lavora secondo categorie storico filosofiche.[3] Se questi costituiscono gli assi primari del sistema di approccio alla creazione letteraria, Moretti impone al piano cartesiano che essi intersecano un moto di rotazione che porta a comporre una struttura sulla cui superficie accogliere insieme agli oggetti letterari l’ecosistema al quale appartengono. Non si tratta più e solo di tenere in considerazioni le condizioni storiche e sociali in cui un romanzo o una serie di romanzi nascono: si pensi all’Atlante del romanzo europeo (1997), in cui vengono accolti e presi in carico dall’analisi una molteplicità di elementi che pertengono alla morfologia della cultura, di dati numericamente quantificabili e geograficamente localizzati (industrializzazione del libro, storia della lettura, composizione delle biblioteche, ambientazione dei romanzi, spazi storici reali) che portano alla nascita di una – se mi si passa il termine – metodologia ecdotica che s’incarica di leggere e restituire non un testo o un genere ma l’organismo culturale del romanzo. Quanto questo comporti una ridefinizione della letteratura comparata come disciplina è quasi secondario.[4] È innanzitutto un problema di metodo: ed è qui che Moretti sposta in alto l’asticella del lavoro del critico perché pone come suo oggetto il genere più alto di realtà – la geometria dell’atlante – e questo comporta la necessità di raffinare l’oggetto di lavoro attraverso strumenti teorici che siano essi stessi definiti dal campo d’analisi in cui vanno a operare.
Riprendere le forme letterarie riorganizzando il materiale dal quale sorgono, nel quale si sviluppano e del quale si nutrono comporta un processo di elaborazione in cui, come sul tavolo dell’anatomista, il corpo narrativo è sezionato nei tessuti di cui è composto. Questo per il corpo narrativo (è il caso del Romanzo di formazione e del Borghese, quest’ultimo già più sbilanciato verso un modello computazionale), ma quando si arriva al corpus, ovvero alla collezione e alla collazione dei dati, alla scomposizione in dati degli oggetti culturali, i risultati portati dal metodo quantitativo arrivano a definire un oggetto che si pone per se come il campo d’analisi più utile a un approccio diacronico e spaziale della teoria dei generi letterari. Perché se il corpus è sostanzialmente anonimo e dissolve l’interazione tra logica interna della narrazione e realtà sociale, ebbene è proprio il suo grado di astrazione che consente ai ferri del mestiere di agire dal punto di partenza vantaggioso della pluralità dei grafici, delle mappe e degli alberi (La letteratura vista da lontano, 2005). Sono tutte dimensioni che consentono di ripensare i processi che sottendono ai cambiamenti delle forme in letteratura in termini quantitativi, spaziali e morfologici. Si consideri allora anche il ruolo che riveste l’applicazione della teoria dell’evoluzionismo alla letteratura, che libera alla possibilità di osservare in parallelo forme e cambiamenti, di leggerle con continuità. A infondere la ricerca di Moretti di una metodologia evoluzionistica hanno contribuito gli studi di Ernst Mayr, che nel combinare evoluzione e geografia portano a distendere la dimensione diacronica su un piano. Moti di traslazione, certamente, alla cui realizzazione giungono anche i contributi della scuola francese di geografia e della Scuola delle Annales. Con la dimensione dello spazio nasce l’idea che i processi che sottendono ai cambiamenti delle forme in letteratura non dipendano dall’avere il tempo dalla propria parte – come per l’evoluzione in senso stretto – ma che la specializzazione del gene letterario nasca da precise condizioni geografiche. Il capitolo La letteratura europea (1993), presente nel primo volume della Storia d’Europa curato da Carlo Ginzburg, era un cantiere del riadattamento dei generi letterari, messi alla prova della geografia sociale e delle componenti storiche. Non è un caso, allora che vent’anni dopo, arricchito del sottotitolo “Geographical Sketch” apra il volume Distant Reading.
In coda a questa rapida sequenza condotta attraverso delle sonde campione, dovremmo allora chiederci quali siano i tratti distintivi che competono alle digital humanities di Stanford, cosa faccia il LitLab che Moretti ha fondato nel 2010 con Matthew Jockers. Innanzitutto, il LitLab arriva alle metodologie informatiche e alle strategie computazionali attraverso una lunga pratica della teoria della letteratura, ovvero partendo dalla «grande tradizione formalista – e qui parla Moretti –, dai formalisti russi alla stilistica di Spitzer e di Auerbach, da alcuni aspetti dello strutturalismo e dai recenti progressi nel campo della linguistica dei corpora. Questo lignaggio è quello a cui siamo più vicini in termini di oggetti e di categorie (“morfologia”, “genere”, “registro”, “sistema”, “stile”): e poiché la forma è l’elemento ripetibile della letteratura, è a questa che ci rivolgiamo per mettere in moto il processo di quantificazione».[5] La seconda grande area intellettuale a cui il LitLab fa riferimento è costituita dall’epistemologia, qui intesa come una forma di conoscenza che mette in dialogo i modelli delle scienze naturali, (dalla genetica alla teoria di rete, al concetto di entropia sviluppato da Claude Shannon nella teoria dell’informazione) con la teoria sistemica di Edgar Morin, con i concetti elaborati da Thomas Kuhn (“misura”), da Alexandre Koyré (“strumento”), da Georges Canguilhem (il “normale” e il “patologico”). Terza componente distintiva è quella che Moretti chiama la funzione “Bourdieu”, costituita sì dalla congiunzione delle componenti empiriche e sociologiche nello studio letterario ma che allo stesso tempo «rappresenta anche qualcosa di meno evidente e piuttosto misterioso: la quasi totale assenza dalle digital humanities, e anche dal nostro lavoro, di quell’altro approccio sociologico che è la critica marxista».[6]
Un’ulteriore differenza è nell’approccio ai risultati prodotti dagli algoritmi: il che vuol dire che i dati stessi vengono interrogati e non subiti, i concetti presi e trasformati in una serie di operazioni grazie alle quali vengono misurati in base agli oggetti a cui si riferiscono. Oltre all’approccio anche la progettazione degli script algoritmici: è il caso di Correlator, realizzato e progettato da Ryan Heuser e Le-Khac Long. Non è il caso di parafrasare Moretti, cediamogli nuovamente e volentieri la parole: «Abbiamo qui un prodotto tipico di ciò che potrebbe essere chiamata “immaginazione programmativa”; una forma di pensiero che fonde insieme formulazione e operazionalizzazione dei concetti, lasciandoli spesso semi-impliciti in quanto concetti, liberandone però il loro pieno vigore in quanto algoritmi. Chi appartenga a una generazione più vecchia potrà non cogliere la chiarezza della distinzione categorica; ma negli anni a venire il contributo principale della critica computazionale agli studi letterari potrà ben provenire da queste creature centauro, metà script e metà teoria. Correlator è il messaggero di una nuova specie».[7]
Infine le domande, e tra queste la più importante: perché – diversamente da quanto accaduto nelle scienze pure negli ultimi vent’anni – le digital humanities, a fronte della enorme quantità dei dati raccolti, non hanno prodotto teoria? Moretti, anche qui, non falsifica i risultati ma li pone in questione. Per questo a Stanford è già in programma per il 2018 la conferenza dal titolo, programmatico e metodologico, di Findings.
Forse, allora, anche se Moretti non si è mai chiesto se una macchina pensa, l’ambizione più alta della sua ricerca è inscritta nella frase di Wittgenstein. Dall’elaborazione dei dati di un corpus è possibile derivare il colore del “numero tre” in uno specifico contesto? Il paradosso informatico della domanda sul pensiero delle macchine è efficace nella sua ricaduta logica: cosa bisogna chiedere all’analisi quantitativa? La critica computazionale è capace di produrre pensiero altrui? Le digital humanities sono uno strumento che permette di produrre una nuova teoria?
3. La domanda su che colore abbia il numero tre non ha nulla di paradossale se sottende un problema di metodo. Problema che vorrei leggere in analogia con le questioni di resa prospettica che nella storia dell’arte hanno accompagnato lo studio della trasposizione degli oggetti tridimensionali in uno spazio bidimensionale.
Negli stessi anni in cui Erwin Panofsky sottoponeva a rilettura la storia della prospettiva nell’arte occidentale il matematico, studioso dell’arte, filosofo, e teologo russo Pavel Florenskij pone al centro della propria indagine la costruzione e la composizione dello spazio nelle opere d’arte. Come Panofsky, anche Florenskij s’incarica di affrontare un problema di natura solo apparentemente tecnica come quello delle leggi geometriche che regolano la prospettiva e, come Panofsky, considera la prospettiva come una risposta a una concezione spaziale calata nel piano della rappresentazione. Argomentando diffusamente la distanza dalla realtà fisica dello spazio euclideo-kantiano, Florenskij si muove attraverso un percorso costituito dagli studi geometrici e matematici sulla proiezione dei corpi e, ricorrendo sia alle geometrie non euclidee che ai modelli matematici, giunge infine a sostenere che se si vuole mantenere la reciproca univocità fra rappresentato e rappresentazione si perde la continuità dell’immagine rappresentata: «Viene trasmesso il contenuto dello spazio, ma non la sua organizzazione».[8]
Questo è anche il problema con cui Franco Moretti si trova a doversi confrontare nel momento in cui intende trasmettere l’organizzazione insita in un corpus e non, armonizzati in un rapporto costante e univoco, i contenuti espressi dai data. Come spiega Florenskij, infatti, l’assunzione di una prospettiva che armonizzi il contenuto equivale all’assunzione di una prospettiva che è tanto «incapace di abbracciare il movimento» quanto incapace di uscire dall’«arbitrio del singolo con il suo singolo punto di vista».[9] Lavorare allora con strumenti – nel caso di Florenskij l’obiettivo critico è la prospettiva lineare – legati a delle premesse coerenti con la percezione quattrocentesca dello spazio vuol dire entrare in rapporto con la realtà a partire dalla condizioni determinate nel Rinascimento, quando l’elaborazione della prospettiva piana può essere portata a compimento perché trova nella nozione di Cartesio di spazio come sostanza estesa, omogenea, infinita la condizione necessaria alla sua realizzazione. Se il concetto di prospettiva rovesciata contraddice la prospettiva lineare, le icone russe del XIV, XV e XVI secolo divengono nella loro libera relazione con lo spazio e il tempo il modello di una nuova proposta prospettica: policentricità della rappresentazione, discontinuità, separabilità dei singoli elementi e reciproca interconnessione attraverso curvature spaziali. L’opera pittorica risulta così una varietà topologica percorsa da campi di tensione e costruita come se “l’occhio guardasse le varie parti cambiando di posto”. La prospettiva rovesciata consente di accogliere quelle rese visive che apparirebbero incongruenti, contraddittorie e scorrette se misurate con le linee di fuga della prospettiva rinascimentale. A dispetto di questa supposta “scorrettezza”, l’addio alle linee e ai punti di fuga consente di trasporre nella rappresentazione le proprietà geometriche del rappresentato, il che quindi vuol dire riuscire a portare all’interno del campo iconico i rapporti di varietà tra superfici curve e curvatura spaziale. Infine, e in ciò consiste uno dei motivi più innovativi di Florenskij, la prospettiva rovesciata aumenta il numero delle dimensioni rappresentate introducendo nel proprio orizzonte «la variabile tempo». Ecco allora che «rappresentare lo spazio sul piano è possibile, ma non lo si può fare altrimenti che distruggendo la forma del rappresentato».[10] Si recupera così, infine, una rappresentazione viva, in cui «ha luogo un continuo fluire, scorrere, un cambiamento, una lotta; essa [la rappresentazione viva] continuamente luccica, scintilla, pulsa, ma non si arresta mai sulla contemplazione interiore di un morto schema della cosa».[11] È un discorso che potremmo seguire leggendovi in trasparenza la proposta del distant reading e la pratica dei pamphlet del LitLab: una nuova forma di prospettiva che abbandona il “morto schema della cosa” nell’elaborazione degli oggetti culturali costruiti su corpus e corpora miscellanei (non solo testi, ma anche le stesse immagini, le descrizioni, i cataloghi, le schede catalografiche, pagine di giornali).
Pensiamo alla questione mettendola in parallelo con quanto scrivono Franco Moretti e Leonardo Implett proprio nel saggio che ha come suo oggetto il repertorio di rappresentazioni iconografiche che compongono il progetto Mnemosyne di Warburg: Totentanz. Operationalizing Aby Warburg’s Pathosformeln, Literary Lab Pamphlet 16 November 2017 (https://litlab.stanford.edu/LiteraryLabPamphlet16.pdf). Quello che allora andremo a proporre è un esercizio d’indagine quantitativa rivolta a un testo di letteratura secondaria. Non si tratta, sgombriamo il campo da equivoci, di voler lavorare in competizione con il saggio di Moretti e Implett e gli strumenti da loro adottati, e non solo perché la loro proposta interpretativa, come chiarisce il titolo, va nella direzione di operazionalizzare i concetti di Pathosformeln nel corpus di Mnemosyne. Quel che qui si vuol proporre con un breve lavoro di text mining ha invece lo scopo di velocizzare le conclusioni mostrando (quasi a volerlo visualizzare) come il metodo di analisi portato avanti da Moretti (qui con Implett) sia essenzialmente, profondamente descrittivo e lentamente euristico. S’intende accedere al metodo, aprendone un fianco, per mostrare come esso aderisca al corpus di partenza e che lo elabori nell’unico modo in cui sia possibile essergli fedele, distruggendo, come indica Florenskij per la prospettiva rovesciata, la forma del rappresentato.
Procediamo. Il documento del LitLab è composto di 8.707 parole, di queste 2.558 sono presenti in una sola occasione. I primi cinque lemmi per numero di ripetizioni sono: figure (che compare 72 volte); body (46); Warburg (42); pathos (41); cluster (37). Mettiamole ora a confronto visivo con le altre 245 parole che le seguono per numero di occorrenze.
Distese anche queste sul piano, nella forma in cui le ricostruisce visivamente il word cloud, attribuendo una maggiore dimensione alle parole con più occorrenze, non sfuggirà la particolare posizione di minoranza che caratterizza il secondo termine che compone l’espressione Pathosformeln, come poi dimostrano le appena 14 presenze della parola formeln e le 13 volte in cui nel testo compare la parola formula. Uno sbilanciamento significativo, a testimoniare che nella definizione delle formule del pathos tutto il peso concettuale sia caricato sugli stati passionali e la loro esplosione. Secondo aspetto che spicca visivamente è la predominanza della parola figure che nel testo compare al plurale per 18 volte. Figure e figures sono anche le espressioni che attraversano il testo con maggiore frequenza. Il rapporto tra numero di occorrenze e frequenza potrà apparire ovvio, non lo è. La parola cluster, ad esempio, pur essendo tra le prime cinque, è totalmente assente dal testo per tutti i primi sei capitoli: compare solo a partire dal settimo – il capitolo “Clusters” – e per gli ultimi tre capitoli avrà una distribuzione relativa altissima nei diagrammi del rapporto di frequenza/occorrenza. Si osservi nel grafico la parabola seguita dalla linea in celeste, quella che identifica il termine cluster, appiattita sullo zero fino al segmento 7.
Ultima osservazione, desunta anch’essa a colpo d’occhio. La predominanza della parola figure può sembrare necessaria e ancora una volta ovvia: è chiaro che in un saggio che abbia a che fare con immagini, con un repertorio tratto dall’arte figurativa, con rappresentazioni, si parli di “figure”, di figure umane, delle figure presenti nelle rappresentazioni iconografiche. In buona sostanza, è ovvio che si parli di figure e che parlando di figure il saggio ne affronti i simboli, si confronti con il disegno e le sue tecniche, abbia a che fare con gli strumenti di rappresentazione e con il repertorio teorico e linguistico che appartiene alla storia dell’arte. Non è così. Perché la parola figure, soprattutto in un testo con un forte apparato extra testuale, è lì a indicare semplicemente un rimando all’immagine da consultare. In più di 60 casi su 72 figure indica semplicemente un rimando: sta per “si veda la figura 1.1”, ecc.
Cosa rimane allora al centro del lavoro? Le emozioni attive mostrate dal corpo – ovvero il pathos –, i corpi stessi, ma sezionati geometricamente in segmenti che indicano la gestualità e il movimento degli arti e del tronco. La lettura da lontano, la lettura mirata a “operazionalizzare” un concetto isola e denuda le figure rappresentate, ne fa una sorta di sagoma trasformandole in qualcosa che rende possibile scomporre l’architettura complessa degli oggetti estetici. È un processo di forte astrazione, quello seguito da Franco Moretti, che corre dei rischi proprio perché ambizioso. Questo, però, non comporta necessariamente né l’apertura di una linea di conflitto con la filologia, né traccia una linea di separazione dalle scienze del discorso. Da questo punto di vista, Moretti trova in Gianfranco Contini proprio il più insospettabile degli alleati. Torniamo al volume da cui siamo partiti e da cui abbiamo tratto la citazione di Wittgenstein, l’Almanacco Letterario Bompiani: nell’inchiesta “Le due culture”, dedicata all’intervento dei calcolatori nel campo letterario, Gianfranco Contini è l’unico tra i linguisti e i filologi intervistati a esprimere una posizione che non si schieri a difesa della “superbia” di quelle che lui stesso chiama “le cosiddette scienze dello spirito”. Afferma, anzi, e con estrema chiarezza che: «Di per sé, ovviamente, la macchina incide solo sull’economia della ricerca; ma, appunto perché consentirà indagini quantitative fin qui negate, il suo significato euristico sarà rilevante».[12]
Note
[1] Franco Lucentini, Automatopoietica, in Almanacco letterario Bompiani, a cura di Sergio Morando, Bompiani, Milano 1962, p. 152.
[2] La citazione è tratta da Franco Moretti, Literature, Measured. Literary Lab Pamphlet 12, April 2016. La traduzione italiana sarà presente nel volume edito dalla Federico II University Press.
[3] Si veda, ad esempio, Ruben Hackler e Guido Kirsten, Distant Reading, Computational Criticism, and Social Critique. An Interview with Franco Moretti, in «Le foucaldien», 2/1 (2016).
[4] Nello stesso giro di anni sono pubblicati: La République mondiale des Lettres (1999) di Pascale Casanova; What Is World Literature? (2003) di David Damrosch; Death of a Discipline (2003) di Gayatri Spivak.
[5] Franco Moretti, Literature, Measured. Literary Lab Pamphlet 12, April 2016.
[6] Ivi.
[7] Ivi.
[8] Pavel Florenskij, La prospettiva rovesciata (1920), in Id., La prospettiva rovesciata e altri scritti, a cura di N. Misler, Gangemi, Roma 2003, p. 121.
[9] Id., Le porte regali. Saggio sull’icona, a cura di E. Zolla, Adelphi, Milano 1977, p. 74.
[10] Id., La prospettiva rovesciata, cit., p. 121.
[11] Ivi, p. 132.
[12] “Le due culture. Inchiesta”, in Almanacco Letterario Bompiani, cit., p. 144.
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