a cura di Maria Teresa Carbone
[LPLC va in vacanza. Per non lasciare soli i nostri lettori durante la stagione estiva, riproponiamo alcuni pezzi usciti nei mesi o negli anni precedenti. Questo articolo è stato pubblicato il 13 marzo 2018.
Secondo rilevazioni già obsolete – settembre 2017 – Instagram avrebbe 800 milioni di utenti nel mondo. Più donne che uomini, più urbani che rurali, più giovani che anziani. Così sta scritto nella voce di Wikipedia dedicata all’applicazione di condivisione delle immagini (questo è Instagram: un’app, non un social), ma i dati sono così vecchi – 2014, quando la popolazione instagrammica era meno della metà di quella attuale – da suonare inconsistenti.
In fondo, degli abitanti di questa entità sovranazionale più popolosa dell’intero continente europeo sappiamo solo che hanno un congegno per fotografare – uno smartphone, per lo più – e che lo usano ogni volta che vedono un oggetto degno di attenzione: se stessi, i loro gatti e i loro cani, la torta di compleanno, il sole al tramonto, la stazione di servizio illuminata di notte, la hall dell’aeroporto in attesa dell’imbarco. E sappiamo che questa massa di immagini (circa cento milioni di foto caricate ogni giorno, pare) non è neutra. Di certo sta cambiando il mondo – le facce, i vestiti, le architetture, gli arredi, oggi sono curati per essere instagrammabili al meglio. Ma forse cambia anche gli occhi degli adepti di questa neofotografia, nella misura in cui lo scatto, prima, e il confronto con gli altri scatti, poi, guidano lo sguardo a una maggiore attenzione. (Non a caso una ricerca britannica del 2017 condotta su 1500 adolescenti ha concluso che Instagram è massimamente ansiogeno).
Nasce da qui l’idea di una piccola indagine condotta presso scrittori, fotografi e cultori a vario titolo della materia. Dopo gli interventi di Francesco Pecoraro, Emmanuela Carbé, Sabrina Ragucci e Hypermediacy, ecco il dialogo con Helena Janeczek. La sua pagina Instagram è questa].
Perché sei su Instagram? Da quando? Eri già su Facebook o altri social?
Ero già su Facebook e Twitter, anche se Twitter l’ho sempre usato in modo sopratutto passivo. Ho cominciato a sbirciare Instagram, perché ero attratta dall’uso nuovo della fotografia, colpita che molti dimostrassero questa capacità di far convergere una sensibilità estetica acquisita in altri campi – in primis quello letterario – sulle loro immagini. Ho controllato: la mia prima foto l’ho postata il 30 dicembre 2016.
Come definiresti la tua galleria: diario? album? portfolio? Autobiografia…?
Mi sento più spettatrice che attrice e infatti passano giorni che la app non la guardo proprio. Per me postare immagini continua a essere un gioco, un passatempo occasionale che mi mette di buon umore. Continua a entusiasmarmi che quella potenziale destinazione mi incoraggi a muovermi con gli occhi più aperti. Non ho grandi pretese, sono una fotografa del tutto improvvisata che si stupisce se uno scatto le pare riuscito. Pubblico perlopiù immagini raccolte in giro, foto perfidamente promozionali di gatti e libri, gatti senza libri e libri senza gatti. Sì, ho postato anche un paio di selfie, il primo per immortalarmi accanto a un gorilla di plastica blu cobalto in un albergo dall’improbabile arredo postmoderno. Poco prima avevo fatto qualche scatto alla filosofa Agnes Heller, ma non era il caso di rendere pubblica quella “paparazzata”. Metto degli hashtag, ma non sono certa di saperli usare in maniera appropriata. Penso che il mio profilo potrebbe somigliare a una sorta di diario, se i diari fossero pubblici.
Con quale strumento scatti le tue fotografie?
Con un iPhone.
In base a quali criteri metti i like alle foto? Interagisci con gli altri anche attraverso commenti o messaggi diretti?
Metto like alle immagini di cui apprezzo la qualità estetica, ma pure a quelle più banali, se la foto o la didascalia che la accompagna racconta qualcosa che mi piace. Commento raramente e non uso i messaggi diretti.
Il tuo modo di fare fotografie o di concepire la fotografia è cambiato da quando sei su Instagram? Nei tuoi percorsi attraverso Instagram ti capita di soffermarti su gallerie di immagini lontane dalle tue?
Tendo a fare più foto, ne conservo un numero superiore di quelle che finisco per pubblicare. Tutto scorre su Instagram e non mi va di partecipare alla corsa. Curo maggiormente il modo di ritagliare le foto, qualche volta uso dei filtri, anche se in genere preferisco farne a meno. L’opzione che più mi piace è poter trasformare uno scatto in un’immagine in bianco e nero.
Seguo dei profili piuttosto eterogenei. Non mi spiacerebbe scoprirne dei nuovi, magari lontani da quelli selezionati per amicizia o conoscenza, ma finora non mi ci sono ancora dedicata.
Cosa pensi di Instagram come fenomeno sociale? Cosa significa secondo te?
Viviamo in un’epoca che ha reso la fotografia un gesto immediato, una narrazione di sé che, però, viene declinata in modi molto diversi. Le tue foto, per esempio, restituiscono qualcosa di te attraverso una ricerca formale e uno sguardo molto attenti che c’entrano ben poco con un selfie con gli amici in pizzeria.
Forse il formato a misura di smartphone favorisce una tendenza a inquadrare dettagli, scorci e still life a discapito delle, pur frequenti, vedute paesaggistiche più ampie. Nel confronto con la fotografia che ho maggiormente frequentato – il fotoreportage, la street photography, la fotografia sociale novecentesca – mi colpisce che, non solo su Instagram, siano diventate marginali le immagini che includono presenze umane, quasi a dimostrazione che l’idea di uno spazio abitato assieme agli altri, di una società, si sia davvero liquefatta.
In questa collezione contemporanea di immagini, o presento me stesso, i miei amici parenti cani e gatti, o mostro oggetti e porzioni di un mondo esterno che, lì per lì, sembra spopolato.
Instagram, per come lo frequento, mi pare comunque un social più rilassante e pacifico di Facebook o Twitter, proprio perché limita l’uso tossico della parola e la condivisione di contenuti non creati dagli utenti. Però basta cercare il profilo del “Signor Distruggere”, per non dire di Salvini, per rendersi conto che è una pace apparente.
[Immagine: Foto di Helena Janeczek].