di Mauro Piras

[LPLC va in vacanza. Per non lasciare soli i nostri lettori durante la stagione estiva, riproponiamo alcuni pezzi usciti nei mesi o negli anni precedenti. Questo articolo è stato pubblicato il 4 giugno 2018].

Alla fine è nato. Il “governo del cambiamento”. Dovremo ancora capire di che natura è veramente. Se è quello che appare, cioè un’alleanza tra M5S e Lega, o se è invece il governo di un pezzo di centrodestra alleato con i grillini. Per il momento Berlusconi strepita e lancia anatemi, la Meloni è rimasta fuori e la Lega sembra aver giocato da sola. Ma c’è ancora una certa ambiguità, dentro Forza Italia. Bisognerà vedere il voto di fiducia per capire qualcosa degli equilibri che si sono creati dietro le quinte: vedere cioè se Forza Italia voterà contro o invece si asterrà, come sembra intenzionato a fare Fratelli d’Italia. Nel secondo caso verrà messo il sigillo a quello che si intuisce: solo la Lega si è alleata formalmente con i grillini, certo, ma cedendo qualcosa almeno a una parte di Forza Italia (Toti?) e del centrodestra in generale. Altrimenti non si spiegano alcune anomalie: il socio di maggioranza del governo (M5S) ha stranamente diviso i ministeri più o meno a metà con la Lega, e, a parte quello di Di Maio, ha lasciato al suo alleato tutti gli altri ministeri di maggior peso; inoltre, il ministro che ha sostituito Savona all’economia, Tria, viene dall’area ex craxiana del centrodestra, ha condiviso una parte del suo percorso politico con Brunetta, Sacconi, Quagliariello.

Mettendo tutto insieme, si vede che i problemi di questa alleanza sono stati sempre gli stessi fin dal 5 marzo: da un lato, farla digerire al centrodestra senza spaccare le coalizioni in periferia, senza romperlo definitivamente; dall’altro, far credere agli elettori grillini che Berlusconi e il resto del centrodestra ne sarebbero restati fuori del tutto. Con molte operazioni di maquillage, questa operazione è riuscita: i grillini si sono convinti che è un governo del tutto nuovo, del cambiamento, fin dall’inizio è stato fatto il miracolo di spacciare la Lega come una forza anti-establishment; Berlusconi ha dato il suo beneplacito, Toti ha manovrato perché la cosa si facesse senza spaccare il centrodestra, ma in modo che il matrimonio Lega-M5S fosse d’affari e non d’amore (anche se vigila inquieto dal di fuori, e lo stesso Salvini è stato tentato fino all’ultimo di sfuggire all’abbraccio con Di Maio, e forse lo è ancora).

Comunque è nato, ed è un governo politico, che esprime una maggioranza parlamentare corrispondente allo stato d’animo maggioritario espresso dall’elettorato. L’evidenza di questo dato politico doveva imporsi. Il percorso è stato accidentato, a rischio deragliamento in ogni istante, ma in fondo è la forza delle cose che si è imposta contro i recalcitranti, i confusi e gli incerti. È un governo politico, ma è, curiosamente, anche un governo “del Presidente”. Mattarella, una volta compresa questa possibilità, ha fatto di tutto per guidare le forze politiche a questa conclusione, anche contro i loro tatticismi miopi. Anzi, ha fatto lui stesso diverse mosse tattiche per metterli alle strette: l’incarico lampo a Casellati, per stanare Di Maio costringendolo ad abbandonare i “due forni”; il successivo incarico a Fico nato già morto; la minaccia di un rapido governo tecnico, indigeribile per i due “capipopolo”, costretti così finalmente a uscire dai giochini e aprire una vera trattativa; la stessa libertà data loro di elaborare il programma di governo (il “contratto”) prima ancora di aver trovato un Presidente del Consiglio incaricato, contro tutte le prassi costituzionali, serviva a legarli più strettamente, e rendere più difficile un loro passo indietro. Alla fine, nel momento più acuto della crisi, sotto gli attacchi eversivi di Salvini e Di Maio e, certo, sotto la speculazione finanziaria, la minaccia di portare il Paese a elezioni a fine luglio, cosa rischiosa per la Lega, che invece le elezioni le voleva (perché sale sempre più nei consensi) ma non quando i suoi elettori sono in vacanza. E soprattutto la mossa più importante: riuscire a separare Di Maio da Salvini, far capire al primo che il secondo lo stava portando alla rovina, e che andava isolato. La cosa è riuscita, Salvini ha dovuto fare un passo indietro, e alla cerimonia del giuramento abbiamo visto Di Maio felice, emozionato, in lacrime per la gioia di aver realizzato l’irrealizzabile, mentre Salvini mascherava la sua irrequietezza, quasi il suo fastidio, dietro pose piuttosto irrituali.

Resta il problema più grave, quello da cui è nata la fase più violenta della crisi, che ha rischiato di rompere l’equilibrio istituzionale tra partiti e Presidente della Repubblica: il Presidente del Consiglio non è un politico, non ha, almeno per ora, autonomia politica, perché non è uno dei leader più significativi di una delle due forze, non ha dietro di sé consenso, voti, correnti, gruppi in Parlamento ecc. In astratto tutto bello (per il grillino che deve mostrare di detestare tutto ciò) ma abbiamo visto a quali danni può portare: nel momento più delicato, quando si doveva trattare sul nome di Savona, sulla sua collocazione, Conte non poteva trattare, perché non aveva nessun margine di autonomia politica, poteva solo eseguire degli ordini. E quindi tutto è saltato. Perché una trattativa si fa tra due persone che hanno un qualche potere, in modo che entrambe, di fronte alle difficoltà inevitabili del confronto, abbiano dei margini per decidere discrezionalmente. Se in quel momento a parlare con Mattarella ci fossero stati Salvini o Di Maio forse l’esito sarebbe stato diverso. La guida del governo, nonostante l’uscita dalla crisi istituzionale, continua a essere nelle mani di una persona che, per il momento, non ha autonomia politica. Certo, ora che il governo è formato, con Di Maio e Salvini ministri, non c’è più una grave forzatura istituzionale, dal momento che decidono insieme in Consiglio dei Ministri. Ma chi lo guida effettivamente? I due leader politici, perché “investiti dal voto popolare”.

Qui si viene al nodo istituzionale più preoccupante, dietro questo governo: il potenziale eversivo della cultura politica di M5S e Lega. Quello che è successo nel momento più acuto della crisi, in cui Di Maio e Salvini hanno praticato senza vergogna un vero e proprio squadrismo istituzionale, non è frutto solo di tattica politica e di scatti di nervi. Ha le sue radici in una visione della politica incoerente con la democrazia parlamentare e quindi con la nostra Costituzione. Questa visione è, per quanto frammentaria e “volgare” possa sembrare, una cultura politica. Non bisogna fare l’errore di pensare che una cultura politica debba fare necessariamente parte di una venerabile tradizione filosofica e storica per essere tale. Una cultura politica è un atteggiamento fondamentale, orientato da alcuni principi di base, che viene assunto con una certa costanza, anche se il quadro concettuale è vago e confuso, e “poco colto”. È una pratica. Inoltre, nel caso del M5S, c’è anche un riferimento a una tradizione politica venerabile. La Lega di Salvini ha rotto brutalmente l’equilibrio istituzionale, attaccando senza mezzi termini il Presidente della Repubblica, perché questo suo linguaggio fa parte da sempre della sua pratica, perché la sua cultura politica è fondata sull’appello diretto al popolo scendendo al livello più basso dei suoi umori: rispondere alla pancia, subito. In ogni caso, della sua cultura fa parte l’idea che il partito è espressione diretta della “volontà popolare”. In questo si è realizzata la convergenza con i 5S, che giustificano questa idea con il riferimento alla democrazia diretta: solo il popolo è sovrano, i suoi rappresentanti sono semplici portavoce, a loro non è stata delegata in alcun modo la sovranità. Il problema è che quando il popolo non parla direttamente, ma parlano per lui i suoi portavoce si instaura una rappresentanza “virtuale”: i portavoce rappresentano il popolo per se stessi, quindi quello che dicono vale come la volontà popolare, non contano le procedure istituzionali, le regole, i ruoli istituzionali. Quando il popolo parla la legge tace; ma il popolo parla, virtualmente, tramite i suoi portavoce. Quindi, quando i portavoce parlano, la legge tace. Anche se la legge è la Costituzione, anche se la figura a cui si parla è il Presidente della Repubblica. Ecco perché Di Maio si è sentito legittimato, in modo del tutto sincero, a sferrare quegli attacchi inauditi: quando il Capo politico parla, parla il popolo. Poiché si ragiona in termini di democrazia diretta e non rappresentativa, la sovranità passa direttamente dal popolo ai suoi capi, non è mediata dalle procedure. Se si innesta una cultura politica fondata sulla democrazia diretta in una costruzione fondata sulla democrazia rappresentativa rischiano così di saltare in ogni momento i vincoli procedurali che, nella seconda, servono a garantire la condizione di eguaglianza tra i cittadini, e le loro libertà fondamentali. E poiché il regime è rappresentativo, chi parla impone in modo autoritario la propria posizione, ma non è “tutto il popolo”: è un partito. La peggiore degenerazione della democrazia secondo lo stesso Rousseau: il potere è usurpato da una “consorteria”. Questa cultura politica della democrazia diretta mal digerita, male inserita nelle istituzioni rappresentative, usata in modo spregiudicato da politici guidati da imperativi di breve durata, ridotti solo all’orizzonte della tattica, è un potenziale eversivo di cui si rischia di perdere il controllo, e nella crisi istituzionale successiva alla sera del 27 maggio si è visto bene. Il Paese rischiava di spaccarsi in due fazioni ostili, senza mediazioni: le due piazze che dovevano confrontarsi stavano per diventare questo. Il problema è che se questa è la cultura politica del nuovo governo (e l’idea di introdurre il vincolo di mandato, nel “contratto”, lo confermerebbe) il rischio di questa guerra civile larvata è sempre presente.

Dobbiamo sperare invece che, dopo l’andata a Canossa di Di Maio, dopo la sua ascesa solitaria al Quirinale che ha portato allo scioglimento della crisi, quest’ultimo decida di riportare il M5S dentro il profilo istituzionale e anche un po’ “centrista” assunto nella prima fase del dopo elezioni. Questo darebbe un equilibrio al governo, e lo aiuterebbe anche a realizzare le riforme, senza bloccarsi di fronte all’irrealizzabile e senza generare conflitti inutili, che come minimo porterebbero alla fine del governo stesso e di tutti i suoi sogni. Se non addirittura a una definitiva crisi delle istituzioni democratiche rappresentative.

 

(Firenze, 3 giugno 2018)

[Immagine: Di Maio (e Salvini)].

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