di Francesco Brancati
[LPLC va in vacanza. Per non lasciare soli i nostri lettori durante la stagione estiva, riproponiamo alcuni pezzi usciti nei mesi o negli anni precedenti. Questo articolo è stato pubblicato il 20 febbraio 2018].
Il poeta non muore, sprofonda, ma non muore.
(Roberto Bolaño, I detective selvaggi, 414)
Nel 1958, in risposta a un questionario promosso dalla libreria parigina Flinker, Paul Celan estrometteva, con un’ironia obliqua a sufficienza da lasciare intravedere un sostanziale disdegno, il romanzo dal campo di azione della poesia e in particolare da quello della poesia lirica: «[…] questi poeti lirici! Alla fin fine, ma sì, bisogna pur augurargli che un bel giorno mettano nero su bianco un vero romanzo»[1]. Per il poeta rumeno la pratica della poesia era un esercizio da condurre risalendo a ritroso attraverso la concrezione e gli strati di accumulo di senso del linguaggio, per tentare di riesumare una verità della lingua (e nel linguaggio) sepolta e continuamente minacciata, posta sotto assedio. Nonostante la divergente opinione sulla funzione poetica del romanzo[2] e nonostante Celan non venga mai citato da Roberto Bolaño come modello o autore da lui particolarmente frequentato[3], almeno un aspetto della poetica celaniana sembra intrattenere un dialogo con la scrittura dello scrittore cileno. L’analogia riguarda le particolari condizioni di osservazione e decodifica della realtà nel suo farsi e apparire agli occhi del poeta posto nel suo particolare e disperatamente unico angolo di incidenza sul mondo:
Pur nella totale, irrinunciabile poliedricità dell’espressione, ciò che preme a questo linguaggio è di essere preciso. Esso non trasfigura, non «poetizza», esso nomina e instaura, cerca di delimitare il campo del possibile e del dato. Beninteso: all’opera qui non è mai la lingua stessa, la lingua in sé e per sé; bensì sempre e soltanto un io che parla dal particolare angolo d’incidenza della propria vita e che ricerca una delimitazione, un orientamento. La realtà non è, la realtà va cercata e conquistata[4].
La precisione invocata da Celan non viene ricercata né auspicata da Bolaño, in coerenza con lo stupendo finale de I detective selvaggi: aver ritrovato Cesàrea Tinajero corrisponde all’irrimediabile perdita del valore poetico della figura di Cesàrea e della sua opera. Tentare di capire e di precisare i contorni dell’esistenza (e quindi della scrittura) equivale, per Bolaño, a ucciderne la stessa essenza e a minare nel profondo le residuali possibilità che l’esperienza ha di farsi linguaggio, storia, narrazione. Eppure la stessa tensione della lingua poetica celaniana, composta da stupore e orrore in parti uguali, appare di frequente nelle pagine bolaniane e lo sguardo della poesia e sulla poesia, lo scrutare viscerale del detective, è sempre praticato con la lente di ingrandimento di chi guarda al mondo e ai libri «ferito di realtà e realtà cercando»[5]. Anche per Bolaño la realtà rimane una continua approssimazione della biografia all’esperienza e di quest’ultima alla poesia. Già Ruben Medina ha segnalato come la pratica della poesia per l’autore di 2666 sia fondamentale per analizzare e comprendere fino in fondo il suo posizionamento etico e stilistico. Riprendendo la famosa dichiarazione di Echevarrìa, egli afferma infatti che Bolaño ha sempre pensato sé stesso come un poeta ma un poeta la cui poesia «appare deliberatamente integrata in questa sorta di cassa di risonanza che è la sua scrittura, nel senso che Bolaño torna incessantemente sui suoi testi e riprende e dilata i personaggi, accettando implicitamente che la realtà o “finzione” che questi incarnano non sia mai completa né fissa, e che un tema periferico possa trasformarsi nel cuore di un’altra opera»[6].
All’interno dell’universo creato dallo scrittore cileno si assiste a un continuo strabordare delle storie, degli ambienti e dei personaggi da un romanzo a un racconto e da questi a un testo poetico o a una costola di un altro romanzo ancora. Quella di Bolaño è una letteratura labirintica che naturalmente deve moltissimo a Rayuela, a Borges e alla tradizione borgesiana maturata in Sud America negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. E un solido pilastro su cui si fonda la grandezza contemporanea dell’opera bolaniana consiste proprio nell’azione di rinnovamento consapevolmente operata dallo scrittore nei confronti delle categorie logore del postmodernismo. Se fatto arieggiare e liberato dagli odori mortiferi della biblioteca e dell’Opera aperta il labirinto si mostra per quello che è: una gigantesca isola, quasi un continente, nei cui viali assolati o nei bui cunicoli della capitale dell’orrore si aggirano senza scopo, come mossi da una insopprimibile necessità interiore, una moltitudine impaurita di esseri umani, individui i cui libri e le cui storie sembrano aver perso per strada l’intima motivazione del loro stesso essere racconto e narrazione. Il labirinto è, in fondo, un cimitero e la poesia e la letteratura sono i ferri del mestiere del detective-poeta, il bisturi con cui lo scrittore seziona le colpe storiche e individuali del proprio tempo in uno spazio che, come la Avenida Reforma di Amuleto, «si trasforma in un tubo trasparente, in un polmone cuneiforme da cui passano i respiri immaginari della città»[7] e appunto in un «cimitero del 2666, un cimitero dimenticato sotto una palpebra morta o mai nata, le acquosità spassionate di un occhio che per dimenticare qualcosa ha finito per dimenticare tutto»[8].
Ancora Celan diceva: «il poema rivela, ed è innegabile, una forte inclinazione ad ammutolire»[9] e una delle costanti del personaggio del romanzo contemporaneo – non solo bolaniano: basti pensare, per esempio, all’io narrante della prima sezione degli Esordi di Moresco – consiste proprio nella tematizzazione della paura (forse sarebbe meglio dire sgomento) per la sottrazione della voce o della consapevole scelta di non parlare[10]. Ciò nonostante i personaggi di Bolaño continuano a ritenere il «Pur-sempre»[11] della letteratura l’unica strada percorribile all’interno del complessivo movimento di disgregamento del senso ultimo e unico delle storie.
L’assoluta e ottimistica fiducia riposta da Bolaño nella letteratura intesa come fessura capace di restituire una attesa della realtà superiore alla sommatoria dei dati da essa ricavabili pone la poesia, intesa come genere letterario dai contorni nettamente definiti rispetto a quelli del romanzo, costantemente al centro di questo movimento immane di sfasatura e di ricollocamento del linguaggio, Nelle esperienze semi-biografiche dei tanti poeti falliti che affastellano le pagine dell’opera in prosa si rimane colpiti dalla consapevolezza con cui l’autore conduce la sua azione sperimentale nei campi della prosa e della poesia, quasi sempre mantenendosi al di qua del perimetro disegnato dal genere letterario entro cui sta operando, innovando le strutture profonde e le convenzioni di lirica e (soprattutto) romanzo secondo una lenta e decisiva azione di erosione interna al genere stesso[12]. Scrivere un romanzo poetico o un romanzo che ponga la poesia al centro del proprio discorso non è la stessa cosa che scrivere un romanzo in versi o una poesia romanzata: sul finire degli anni Novanta, mentre le ideologie terminali della morte dell’autore e della fine della storia ribadivano che le uniche strade percorribili dal romanzo fossero il pastiche autoironico, la commistione e il continuo riciclo di forme e motivi, secondo una prospettiva orizzontale e livellante tipica della cultura pop nordamericana, Bolaño rifonda il genere romanzesco ponendo la poesia e soprattutto l’idea di una condotta poetica dell’esistenza a fondamento e chiave di volta del genere. Che si tratti di prosa che narra le gesta di giovani e disperati poeti o di poesia propriamente intesa, lo sguardo dell’autore rimane sempre quello verticale del poeta e del detective, di colui che cerca la parola per determinare l’indefinito pulviscolo che rende realistica (e quindi possibile) la realtà. La scrittura bolaniana sembra in tal modo costruire una sorta di triangolo isoscele nel quale i continui scambi tematici e ambientali fra i due angoli congruenti della poesia e della prosa sono resi possibili dalla comune dipendenza di entrambi dall’angolo dell’esperienza – la matrice biografico-fantastica dell’autore – posto al vertice della figura.
La recente traduzione, a opera di Ilide Carmignani, di Tre[13], la penultima raccolta poetica di Bolaño[14] consente finalmente al lettore italiano di decifrare quei meccanismi lirico-narrativi generatori di uno spazio letterario in cui tutto si tiene e nel quale le storie «si perdono tra mille rivoli intrecciandosi continuamente all’interno dello stesso libro o addirittura tra un libro e l’altro»[15]. Ma tali psichedelici labirinti non prevedono nessun Minotauro e nessun valore aprioristicamente affidato alla poesia in quanto impasse culturale o castello d’avorio dal quale disporre il proprio umanistico sentire verso il mondo circostante: il poeta costruisce la realtà donandole qualità poetica e tale qualità si rifrange su ogni aspetto della biografia umana, ponendo costantemente in dubbio la narrazione e la stessa possibilità di esistenza della poesia, attraverso la lente di un’esperienza umana integralmente accettata fin dentro la disperazione[16].
Il libro contiene tre componimenti diversi per struttura, luogo e data di composizione, dallo stesso Bolaño riuniti in un unico volume con l’intento espresso di sottolineare le affinità tematico-stilistiche dei testi, unificati da un senso di aspettazione e mistero che attraversa la raccolta dall’inizio alla fine.
Il primo dei tre, la Prosa dell’autunno a Girona, sarà poi raccolto da Bolaño nella seconda parte dell’Università sconosciuta (quella che racchiude gli scritti del 1980-1981) e in entrambi i contesti appare come il fortunato ritrovamento di un manoscritto delle poesie di uno dei diversi Arturo Belano che affiorano nei romanzi e nei racconti dello scrittore. È difficile infatti leggere la Prosa, che reca la data del 1981, senza immaginare che l’autore che la compone sia proprio il narratore di Sensini – uno dei più riusciti racconti della raccolta Chiamate telefoniche – il giovane scrittore-poeta ventottenne che, partecipando a un concorso letterario, conosce il quasi sessantenne scrittore argentino Luis Antonio Sensini e intrattiene con lui un sempre più intenso rapporto epistolare. Il narratore, dopo aver perso «un posto come guardiano notturno in un camping di Barcellona»[17] (esattamente come il Belano dei Detective e come lo stesso Bolaño), decide di partecipare a un concorso letterario per motivi non immediatamente riconducibili alla chiamata imperiosa della musa della letteratura:
Vivevo di quel che avevo risparmiato durante l’estate e anche se non spendevo quasi niente i miei risparmi si andavano assottigliando con il passare dell’autunno. Fu forse questo a spingermi a partecipare al Concorso Nazionale di Letteratura di Alcoy, aperto a scrittori di lingua spagnola, non importa quale fosse la loro nazione o luogo di residenza[18].
Gli indicatori spaziali e temporali non costituiscono mai, per Bolaño, un dato inerme alla materia narrata; viceversa il tempo e lo spazio diventano le casse di risonanza delle azioni e degli stessi pensieri dei personaggi. Il deserto del Sonora, le prigioni in Israele, il sagrato di una chiesa di Pistoia acquistano spessore nelle parole del narratore proprio in quanto elementi estensivi in grado di confermare o correggere, con la loro presenza, l’idea del personaggio che li attraversa o vi staziona. Si può ipotizzare che Bolaño abbia desunto tale procedimento dalla poesia del tardo simbolismo francese, da Rimbaud e poi da Mallarmé e che se ne sia appropriato, trasferendo il meccanismo dal discorso in versi a quello in prosa con esiti che riescono a offrire una postazione privilegiata da cui osservare i pantani del romanzo postmoderno (specie nordamericano[19]). Così l’indicazione Girona non è una semplice specificazione toponomastica di matrice biografico-naturalistica; essa costituisce piuttosto il paesaggio necessario alla vicenda del narratore di Sensini e insieme alla determinazione temporale «autunno» instaura un concreto elemento di identità fra i racconti di Chiamate telefoniche e la prima sezione di Tre, la Prosa dell’autunno – appunto – a Girona:
La situazione reale: stavo da solo in casa, avevo ventotto anni, ero appena tornato dopo aver passato l’estate fuori dalla provincia, a lavorare, e le stanze erano piene di ragnatele. Non avevo più un lavoro e i soldi, col contagocce, mi sarebbero bastati per quattro mesi. Non avevo nemmeno speranze di trovare un altro lavoro. Alla polizia mi avevano rinnovato il permesso di soggiorno per tre mesi. Non autorizzato a lavorare in Spagna. Non sapevo che fare. Era un autunno benigno[20].
Del resto i rapporti tra silloge poetica e scrittura in prosa non si limitano a una pura ripresa di temi, luoghi e situazioni. In realtà la poesia della Prosa – una prosa a cui l’autore assegna il ruolo di poesia – svolge la funzione di estendere in profondità la vertigine percepita dai personaggi di romanzi e racconti i quali spesso appaiono incerti sul significato profondo che ispira le loro stesse azioni e parole. La poesia restituisce la precisione confusa dell’Erlebnis di Belano-Bolaño, l’esperienza vissuta che il lettore di Chiamate telefoniche o dei Detective può solo ipotizzare, venendo a mancare in quei testi una rappresentazione estroflessa o joyciana dei moti interiori del personaggio. È questa differente postura della voce narrante a legittimare la lettura della Prosa in quanto testo poetico, in assenza dei procedimenti stilistico-retorici propri del genere. La realtà viene percepita nel suo farsi dal soggetto poetico che ne testa, passo dopo passo, i meccanismi di apprensione:
Da questo lato del fiume tutto quello che ti interessa mantiene la stessa meccanica. Le terrazze aperte per ricevere più sole possibile, le ragazze che parcheggiano il motorino, gli schermi coperte da tende, i pensionati seduti nelle piazze. Qui il testo non ha coscienza di nulla se non della propria vita. L’ombra che provvisoriamente chiami autore a malapena si scomoda a descrivere come la sconosciuta ha sistemato tutto per il suo momento Atlantide[21].
Lo stesso fluttuante meccanismo di indefinitezza e di narrazione che procede per continui tentativi di messa a fuoco dell’immagine si ritrova, quasi trasfuso e insieme ricompattato, nel secondo testo di Tre, la lunga cavalcata dei Neochilenos. Questa volta la parola conserva il ritmo di una vera e propria epica, una epopea cavalleresca che trapassa, da sud a nord – «Il nord che calamita i sogni»[22] – il Cile, narrando il chiaro valore e le alte imprese di una band di musicisti rock impegnati in un tour tra le città e gli angoli sperduti del continente sudamericano, dove suoneranno in locali fatiscenti e semivuoti. Il fascino primitivo dei Neochilenos consiste in prima misura nella costruzione della partitura ritmica, scandita in versi brevi, dove l’assenza di uno schema di rime viene compensata dagli accorti accostamenti fonetici e dalle rutilanti ripetizioni lessicali (assai efficacemente trasferite in italiano nella traduzione di Carmignani). E, soprattutto, la poesia svolge un ruolo fondamentale nel tono del racconto e nella distanza con cui il narratore guarda ai fatti narrati. La strategia retorica qui adottata dal narratore ricorda da vicino quella del Juan García Madero dei Detective: Arturo Belano e il suo equivalente nei Neochilenos, il cantante Pancho Ferri, rappresentano il versante della scrittura bolaniana compromesso con la biografia e con la perdita progressiva dell’ottica intransigente della poesia (i sogni che escono dalla «bocca aperta»[23] dei Neochilenos: «I sogni: scie / Fossili / Colorate con la tavolozza / Dell’apocalisse»[24]). I Detective selvaggi sono proprio il romanzo-epopea che attraverso la narrazione esorcizza il progressivo e irrimediabile compiersi di tale perdita – e una delle modalità che Bolaño adopera per disinnescare le minacce del patetismo o di una insostenibile emersione del vissuto consiste nel ricorso alla poesia e alla postura poetica come orizzonte da cui osservare la storia individuale e collettiva. Su un fragile crinale tra prossimità dell’emozione e presa di distanza risiede, allora, la poesia. L’occhio della poesia strappa alla realtà osservabile soltanto lacerti di esistenze e di oggetti, di pensieri emersi dalla caotica dimensione in cui i personaggi si trovano a vagare come pellegrini calamitati da un magnetismo senza speranza.
Il riuso di un modello di poesia basata sulle illuminazioni e le correspondances, che a fine secolo sembrava aver esaurito la sua capacità di aggiungere qualcosa all’eterno già detto della letteratura, viene rinnovato attraverso una visuale ancora più netta di quella prospettata dalle terre desolate del modernismo o dalla babelica e autoindulgente tautologia del postmodernismo: la foresta dei simboli non nasconde nessun significato che il poeta possa decifrare e disvelare poiché l’ordine che ferisce chi cerca di scrutare al suo interno («ferito di realtà», appunto) è assolutamente arbitrario e nessuna corrispondenza può dirsi segretamente fondata su basi che non siano quelle del caos e della gratuità efferata della casualità. Bolaño lo afferma chiaramente nei Neochilenos («E allora capimmo / Che noi Neochilenos / Saremmo stati sempre / Governati / Dal caso»[25]), come nei Detective selvaggi, attraverso le parole di Joaquín Font, dopo il suo ritorno a casa in seguito al soggiorno presso la clinica psichiatrica:
Capii allora, con umiltà, con perplessità, in uno slancio di messicanità assoluta, che eravamo governati dal caso e che in quella tempesta saremmo annegati tutti, e capii che solo i più astuti, di certo non io, sarebbero rimasti ancora un po’ di tempo a galla[26].
Ma all’abbandono senza remore alle ideologie ironico-nichilistiche della ripetizione e del caos Bolaño contrappone strenuamente l’argine della letteratura e della poesia. Di tale postura si trova conferma nella terza parte del libro, Una passeggiata per la letteratura, vera e propria sintesi del Bolaño-pensiero, emerso su carta direttamente dalla dimensione obliqua del sogno. Ultimo testo composto in ordine cronologico (1994), la Passeggiata compendia in 57 brevi componimenti i modelli di riferimento ideali dello scrittore, concentrando in un componimento non esteso i miti, le figure e gli stilemi che troveranno ampio sviluppo nei grandi romanzi degli anni successivi (la concezione e la prima stesura dei Detective selvaggi iniziò a occupare Bolaño in quegli stessi anni di Blanes). Il profilo del Bolaño-lettore, presente in filigrana nella Prosa dell’autunno a Girona e nei Neochilenos acquista adesso un ruolo di primo piano. Allo scrutinio biografico-letterario degli autori incontrati in sogno Bolaño sovrappone la patina della reinvenzione poetica, mediante l’elaborazione cognitiva dell’esperienza vissuta in prima persona dall’autore, posta in dialogo con momenti della letteratura occidentale percepiti come attitudinalmente analoghi.
La realtà osservata tramite la letteratura nel viaggio sentimentale di Bolaño diventa allora il setaccio con cui indagare le ossessioni care all’autore dell’origine della malattia, delle cause del male e dell’orrore. La storia svela in filigrana il paradigma della violenza che in ogni epoca ha costantemente contrassegnato le vite degli uomini e lo scrittore, attraverso la poesia, opera il tentativo estremo di scrutare nelle fibre più riposte di tale orrore (anche ammutolendo, anche sviando e non trovando le parole di fronte a Ciudad Juárez). Dopo aver sognato «i Cadaveri e le Spiagge Dimenticate»[27], Bolaño riconosce in Kafka e in Baudelaire due dei maggiori esploratori che lo avevano preceduto nel suo viaggio «in tutto il mondo»[28]. Lo scrittore praghese è infatti colui il quale arriva a «osservare»[29] la fine di ogni cosa:
Ho sognato che era la fine del mondo. E che l’unico essere umano a osservarla era Franz Kafka. Nel cielo i Titani lottavano fino alla morte. Da una panchina di ferro battuto nel parco di New York Kafka vedeva ardere la fine del mondo.
Mentre Baudelaire, nella Passeggiata, continua a rappresentare il simbolo di una perdita irreparabile – il momento in cui nella storia della poesia occidentale viene consumato un delitto che tuttora tormenta chi inabissandosi nei versi prova a individuare il colpevole o perlomeno le cause che hanno portato alla violenza, scoprendo poi la percentuale di colpa avuta in quel crimine: («Ho sognato che Baudelaire faceva l’amore con un’ombra in una stanza dove era stato commesso un delitto. Ma a Baudelaire non importava. È sempre così, diceva»[30]). A Baudelaire d’altronde Bolaño dovette fare ritorno in quel lucidissimo e straziante resoconto costituito dal discorso Letteratura + malattia = malattia, pronunciato dallo scrittore pochi mesi prima di morire e confluito nel postumo Il gaucho insopportabile[31]. Nel testo, dopo aver proposto la sua lettura della poesia di Mallarmé Brise marine, identificando nel viaggio il momento zero di un apprendistato poetico da cui è necessario ripartire ogniqualvolta si è giunti a leggere tutti i libri e a consumare tutti i rapporti sessuali («la carne es triste, ¡ay!, y todo lo he leído»[32]), Bolaño insiste sul viaggio come unico antidoto alla malattia intesa come «rassegnazione a vivere o rassegnazione a quello che è […] sconfitta»[33]. Nella conferenza trova dunque spazio il presupposto teorico implicito alle grandi epopee necessarie ai personaggi dei Detective selvaggi e di 2666, quell’incessante brusio interiore che spinge giovani poeti e critici affermati a vagare da un capo all’altro del pianeta alla ricerca indistinta di un’epifania. E penso sia significativo che uno degli archetipi principali di questa tensione venga da Bolaño fatto risalire a Baudelaire e, di conseguenza, alla poesia. È un sentimento assolutamente poetico (vale a dire baudelairiano) quello che costituisce l’impalcatura dei romanzi maggiori dello scrittore cileno e che rende tanto imprevedibili le psicologie delle diverse figure che animano quei mondi. La poesia Le voyage, ultimo componimento della sezione La mort dei Fleurs du mal, letta da Bolaño in Letteratura + malattia = malattia, oltre a contenere il celebre verso che fungerà da esergo a 2666 (v. 112: «une oasis d’horreur dans un désert d’ennui!»[34], «un’oasi d’orrore in un deserto di noia!») può essere intesa, insieme agli altri componimenti dei Fleurs du mal che trattano del motivo – fondamentale anche a Baudelaire – del viaggio, come l’ipotesto costante delle grandi narrazioni bolaniane; una lettura della conferenza effettuata tenendo Una passeggiata per la letteratura fornisce allora una ulteriore conferma:
Il viaggio, tutta la poesia, è come una barca o una tumultuosa carovana che punta dritto verso l’abisso, ma il viaggiatore, lo possiamo intuire dal suo disgusto, dalla sua disperazione e dal suo disprezzo, vuole salvarsi. Quello che finalmente trova, come Ulisse, come il tizio che viaggia in una lettiga e confonde il soffitto con l’abisso, è la propria immagine […][35]. E con questo verso, davvero, ne abbiamo a sufficienza. In mezzo a un deserto di noia, un’oasi di orrore. Non c’è diagnosi più lucida per esprimere la malattia dell’uomo moderno. Per uscire dalla noia, per sfuggire al punto morto, l’unica cosa che abbiamo a portata di mano, e non così vicino, anche in questo bisogna sforzarsi, è l’orrore, cioè il male. […]. Un’oasi è sempre un’oasi, soprattutto se uno esce da un deserto di noia. in un’oasi si può bere, mangiare, curarsi le ferite, riposare, ma se l’oasi è di orrore, se esistono solo oasi di orrore, il viaggiatore potrà confermare, stavolta in modo inoppugnabile, che la carne è triste, che arriva un giorno in cui tutti i libri sono stati letti e che viaggiare è un miraggio. Oggi, tutto sembra indicare che esistono solo oasi d’orrore o che ogni oasi va alla deriva verso l’orrore[36].
L’istituita equivalenza tra viaggio e poesia chiarifica il senso intimo dell’ideologia dell’autore: la poesia è una barca, lo strumento che consente di attraversare l’abisso enorme della noia dove il poeta scorge Santa Teresa/Ciudad Juárez, l’oasi dell’orrore che espande tentacolare le sue ombre sulla stessa possibilità di esistenza della poesia e quasi impone il silenzio allo scrittore che la osserva. Ma il viaggio, dice Bolaño, è necessario anche quando ci si è istruiti a sufficienza circa le illusioni della carne e dei libri. Nonostante la consapevolezza che quella dell’arte è, in fondo, una «povera bandiera»[37] che «si oppone all’orrore che si somma all’orrore, senza cambiamenti sostanziali, nello stesso modo in cui, se all’infinito si aggiunge altro infinito, l’infinito rimane lo stesso infinito»[38], il poeta persiste a ripercorrere le stesse strade di una «battaglia»[39] da altri prima di lui «persa in anticipo»[40], intestardendosi come Kafka nella convinzione della assoluta necessità del viaggio per trovare «con un po’ di fortuna il nuovo, quello che è sempre stato lì».
Sono, d’altronde, la stessa barca e la stessa poesia a costruire il viaggio, l’epopea vissuta dall’autore e dai personaggi, ed è soltanto in questo tratto di spazio ancora non tentato, nella porzione infinitesimale che separa la tensione dalla scoperta dal disvelamento – quando l’arsi non è stata ancora battuta – che la scrittura bolaniana dichiara a gran voce la sua entelechia. Il suo accasamento nei pressi di una tradizione dispiegatasi innanzitutto per similarità attitudinale.
Per questa strada, allora, la poesia inventa il suo futuro.
Note
[1] Paul Celan, La verità della poesia. «Il meridiano» e altre prose, a cura di Giuseppe Bevilacqua, Torino, Einaudi, 2016 [1993], p. 38.
[2] Per Bolaño, al di là delle occasionali dichiarazioni sul romanzo, varrà piuttosto la concreta esperienza di scrittura.
[3] Ma quasi sicuramente le riflessioni compiute da Celan riguardo l’opera büchneriana dovettero esercitare un certo fascino sullo scrittore cileno; in una intervista concessa ad Eliseo Álvarez, in risposta a una domanda sui silenzi letterari, dopo aver parlato di Kafka, Rulfo e Rimbaud, Bolaño si trattiene a lungo su Büchner, con considerazioni sul silenzio che ispirano un certo sapore celaniano: cfr. Le posizioni sono le posizioni e il sesso è il sesso, intervista di Eliseo Álvarez in Roberto Bolaño, L’ultima conversazione, traduzione di Ilide Carmignani, con un saggio di Nicola Lagioia, Roma, Sur, 2017 [ma: 2012], pp. 65-66. Il nome di Celan compare inoltre nell’elenco di scrittori tedeschi paragonati ai generali in 2666 e nel Terzo Reich.
[4] Paul Celan, La verità della poesia, cit. pp. 37-38.
[5] Ibid., p. 36.
[6] Ruben Medina, Un Poeta latinoamericano, in «Quimera» 314, gennaio 2010. Cito dalla traduzione di Gabriella Saba disponibile presso l’archivio Bolaño all’indirizzo: http://www.archiviobolano.it/bol_poesia_medina.html.
[7] Roberto Bolaño, Amuleto, traduzione di Ilide Carmignani, Milano, Adelphi, 2010, p. 16.
[8] Ibid., p. 71.
[9] Paul Celan, La verità della poesia, cit. p. 15.
[10] In curiosa concomitanza con i meccanismi di rappresentazione dell’io possibile e le strategie narrative proprie dell’autofiction.
[11] Paul Celan, La verità della poesia, cit. p. 15.
[12] Bolaño infatti ha sempre continuato a percepire prosa e poesia come generi fra loro separati (così come era convinto sostenitore dell’esistenza di un canone di ascendenza bloomiana); tra le numerose dichiarazioni dell’autore sull’argomento ricordo l’intervista concessa dall’autore a Melanie Jösch nel dicembre 2000: “Se vivessi in Cile nessuno mi perdonerebbe questo romanzo”, in «Primea Linea», dicemre 2010, traduzione di Carmelo Pinto, http://www.archiviobolano.it/bol_int_josch.html.
[13] Roberto Bolaño, Tre. Prefazione di Andrés Neuman, traduzione di Ilide Carmignani, Roma, Sur, 2017.
[14] L’ultima pubblicata in vita l’autore, nel 2000. La successiva Universidad Desconoscida sarà edita postuma nel 2007 (e giungerà in Italia, presso Sur, nel 2019. Anche Los perros romanticos, l’antologia contenente le poesie di Bolaño scritte tra il 1977, anno di arrivo dell’autore in Europa, e il 1990 sarà pubblicata a giugno 2018 dal coraggioso editore romano).
[15] Nicola Lagioia, Uno scrittore per il ventunesimo secolo, Postfazione a Roberto Bolaño, L’ultima conversazione, cit., p. 121 (disponibile on line con il titolo Nicola Lagioia racconta Roberto Bolaño all’indirizzo: www.minimaetmoralia.it/wp/saggio-roberto-bolano/).
[16] Del resto sarebbe questa una lezione assai preziosa per i giovani poeti italiani. Se integralmente accettata consentirebbe loro di capire che aver seguito due corsi universitari di Estetica e uno di Letterature comparate e aver svolto un Erasmus a Parigi o Berlino non sono condizioni in sé sufficienti a garantire il diritto di cronaca e l’orizzontale punto di vista dell’io. Ma la situazione rimane sconfortante: un recente articoletto di Simone Di Biasio contribuisce in tal senso allo stupidario quotidiano: www.huffingtonpost.it/simone-di-biasio/chi-sono-i-giovani-poeti-italiani/.
[17] Roberto Bolaño, Chiamate telefoniche, traduzione di Barbara Bertoni, Milano, Adelphi, 2012, p. 15.
[18] Ivi.
[19] Raffaelle Donnarumma, Ipermodernità. Dove va la letteratura contemporanea, Bologna, Il mulino, 2015, pp. 111-114.
[20] Roberto Bolaño, Tre, cit., p. 47.
[21] Ibid., p. 43.
[22] Ibid., p. 103.
[23] Ibid., p. 131.
[24] Ivi.
[25] Roberto Bolaño, Tre, cit., p. 133.
[26] Roberto Bolaño, I Detective selvaggi, cit., p. 434.
[27] Ibid., p. 181.
[28] Ibid., p. 185.
[29] Ibid., p. 171. L’originale spagnolo “contemplare” conserva anche il significato di “fare esperienza” e di “meditare” in senso mistico o ultrasensoriale, come nell’espressione «contemplare i misteri della fede».
[30] Ibid., p. 185.
[31] Roberto Bolaño, Il gaucho insopportabile, traduzione di Ilide Carmignani, Milano, Adelphi, 2017.
[32] «La carne è triste, ahimè! e ho letto tutti i libri». Cito dalla traduzione latinoamericana di Alfonso Reyes, la stessa utilizzata da Bolaño; Ibid., pp.128-129.
[33] Ibid., p. 130.
[34] Charles Baudelaire, Les fleurs du mal, in Oeuvres complètes I, texte établi, présenté et annoté par Claude Pichois, Bibliothèque de la Pléiade, Paris, Gallimard, 1975, p. 133.
[35] Bolaño cita a questo punto i versi 109-112 de Le voyage, nella traduzione del poeta Antonio Martínez Sarrión: «¡Saber amargo aquel que se obtiene del viaje! / Monótono y pequeño, el mundo, hoy día, ayer, / mañana, en todo tiempo, nos lanza nuestra imagen: / ¡en desiertos de tedio, un oasis de horror!», Roberto Bolaño, Il gaucho insopportabile, cit., p. 135 e l’originale francese in Charles Baudelaire, Les fleurs du mal, cit., p. 133: «Amer savoir, celui qu’on tire du voyage» / Le monde, monotone et petit, aujourd’hui, / Hier, demain, toujours, nous fait voir notre image: / Une oasis d’horreur dans un désert d’ennui!».
[36] Roberto Bolaño, Il gaucho insopportabile, cit., pp. 135-136.
[37] Ibid., p. 139.
[38] Ivi.
[39] Ivi.
[40] Ivi.
[Immagine: Roberto Bolaño, ©Effigie/Leemage].