di Mauro Piras

[LPLC va in vacanza. Per non lasciare soli i nostri lettori durante la stagione estiva, riproponiamo alcuni pezzi usciti nei mesi o negli anni precedenti. Questo articolo è stato pubblicato l’11 giugno 2018].

Quello che abbiamo visto nascere in questi giorni è un governo di destra nazionalista. Oppure, se vogliamo dirlo in modo più neutro, è un governo guidato da un modello forte di “democrazia nazionale”. Questo vuol dire però che si colloca a destra, e propone politiche coerenti con questo ideale.

Il discorso pubblico lo etichetta piuttosto come sovranista, rinviando alla dicotomia euroscettici-europeisti, che secondo alcuni (tra cui l’attuale presidente del consiglio) avrebbe sostituito la contrapposizione tra destra e sinistra, rendendola irrilevante, dal momento che le posizioni sovraniste si trovano anche a sinistra, e viceversa. In realtà questa interpretazione, così diffusa, non è convincente.

È utile partire da una nozione di che cosa è “di sinistra”. Una nozione vaga, riferita al senso comune di questo momento, e non una teoria completa, che comprenda anche esperienze storiche molto diverse. Di solito si considera di sinistra una politica che tende a realizzare una eguaglianza inclusiva: che tenda cioè a trattare come eguali i cittadini e tutti quelli che sono coinvolti dalla politica di uno stato democratico. Una politica di questo genere cerca di riconoscere eguali diritti a tutti questi soggetti, eliminando discriminazioni di diritto e di fatto, rimuovendo ostacoli economici e sociali alla realizzazione dei diritti, creando pari opportunità economiche, sociali e culturali. Genera così una dinamica inclusiva, perché cerca di includere tra quanti godono realmente dei diritti (civili, politici e sociali) gruppi che, per vicende storiche, ne sono stati esclusi: i lavoratori, le donne, le minoranze religiose, etniche o di genere, i migranti ecc.

È ovvio, l’eguaglianza è un principio fondante della democrazia in generale. Però le politiche di sinistra sono guidate da una spinta fondamentale a realizzare l’eguaglianza. Nella storia delle democrazie moderne, due forze hanno teso e tendono invece a limitare questa spinta all’eguaglianza, generando politiche di destra: l’efficienza economica e l’identità nazionale. Le posizioni delle destre liberali economiche hanno spesso posto gli imperativi dell’efficienza economica davanti a quelli dell’eguaglianza, giustificando questa scelta anche sulla base dell’individualismo liberale in ambito politico e morale. Le posizioni delle destre nazionali hanno invece limitato gli imperativi dell’eguaglianza a partire dalla difesa di una identità storica data, delimitando i confini della cittadinanza e l’accesso stesso ai diritti; spesso hanno rifiutato gli imperativi dell’efficienza economica, e hanno rivendicato invece i diritti sociali, ma dentro la cornice dell’appartenenza nazionale. Ovviamente, questi quadri di riferimento si possono combinare in modi diversi. Ma in questo momento la spinta dominante che, in Europa e anche negli Stati Uniti, sta limitando il processo di inclusione egualitaria, è del secondo tipo: l’idea che guida i progetti di politica sociale, in alcuni casi apertamente anti-sistema, è l’idea di nazione. “America first”, “prima gli italiani”.

Anche il Contratto per il governo del cambiamento di Lega e Movimento 5 Stelle va in questa direzione. I punti del Contratto sono presentati in ordine alfabetico, ma in realtà c’è un disegno coerente che li tiene insieme: una politica volta al rafforzamento dei diritti sociali contro le politiche di austerità, indirizzata però principalmente ai cittadini italiani; coerentemente con questo, una chiusura nei confronti degli immigrati e dei diritti civili, e un rafforzamento delle politiche di sicurezza interna e esterna; una esaltazione del ruolo dello stato nazionale nella politica internazionale. A questo si aggiungono alcuni elementi di modifica dell’ordinamento istituzionale nel senso della “democrazia diretta” così come viene intesa dal M5S. L’orientamento prevalente è quello della “democrazia nazionale”, cioè di un ideale di democrazia sostenuto dalla centralità della appartenenza nazionale. Fa eccezione solo la proposta della flat tax, che però si colloca nella tradizione della classica destra liberista.

La svolta verso la “democrazia nazionale” non sorprende nel caso della Lega, che con Salvini ha costruito il suo rilancio proprio su questa idea, abbandonando il progetto federalista e spostando l’elemento identitario dal Nord (scomparso dal nome e dal simbolo) all’intera nazione. Per il M5S le cose sono un po’ diverse. Il movimento ha sempre cercato di sottrarsi alla dicotomia destra-sinistra, non solo con dichiarazioni esplicite (confermate dal capo dell’esecutivo in Parlamento), ma con una grande mobilità nelle posizioni politiche, capace di catturare consenso nelle aree più disparate. A un certo punto, nel corso della trattativa per il governo, qualcuno ha parlato di partito di centro. Ma anche questo è fuorviante, come lo schiacciamento sulle tematiche del populismo o dell’antipolitica o antisistema. In realtà, nel M5S convivono due anime fondamentali: una vicina all’ideale della “democrazia nazionale”, e una fondata invece su un ideale di “democrazia partecipativa” e di difesa dei diritti sociali. Questo precario equilibrio si è rotto nell’alleanza con la Lega, nettamente a favore del primo elemento. Certo, data l’alleanza e la presenza della tendenza nazionale in entrambi i partiti, era inevitabile. Ma non è solo questo. Anche gli altri elementi fondativi dell’identità dei Cinquestelle, in realtà, nell’evoluzione recente (già in campagna elettorale, se non prima) si sono mossi verso una posizione di destra.

Il cosiddetto sovranismo, in primo luogo: in astratto, non è necessariamente di destra, perché un recupero di sovranità per gli stati contro le organizzazioni internazionali, i poteri economici sovranazionali, l’Unione Europea ecc. viene spesso rivendicata anche da sinistra. In concreto, però, si tratta di ridare sovranità (concetto già problematico, da un punto di vista democratico e inclusivo di diritti eguali) agli Stati-Nazione: gli stati di cui si parla non sono neutri, ma hanno costruito la loro forza con l’abbinamento di questi due elementi, cioè radicando il potere statale nelle comunità nazionali. Quindi insistere sul potere degli stati porta inevitabilmente a mettere la nazione al di sopra di un ideale inclusivo di eguaglianza. Non è possibile dissociare questi elementi, perché il successo delle politiche di contenimento del capitalismo da parte degli stati nazione, nel secondo Novecento, è stato dovuto proprio alla forte integrazione con l’elemento nazionale.

In secondo luogo, gli ideali di democrazia partecipativa da cui è partito il M5S si sono trasformati. All’inizio, la mobilitazione dei cittadini per iniziative pubbliche (per l’ambiente, lo sviluppo sostenibile, contro la corruzione ecc.) era il suo segno distintivo, e la partecipazione diretta della base, tramite i meet-up, le consultazioni on-line e la formazione di gruppi di militanti e quindi di un nuovo ceto politico, erano i suoi caratteri distintivi. E una causa principale del suo successo, a fronte della chiusura delle forze politiche tradizionali. Da quando il M5S è entrato in campagna elettorale per le politiche di quest’anno le cose sono cambiate: i nuovi regolamenti hanno dato ampio potere al Capo politico (Di Maio) e il rapporto con la base è diventato sempre più il rapporto tra un capo e il suo popolo, pur preservando la liturgia delle consultazioni on-line. La democrazia diretta quindi, l’ideale del M5S a cui hanno intitolato anche un Ministero, non viene più confusa come prima con la democrazia partecipativa, ma con la rappresentanza virtuale: il popolo è il sovrano e decide direttamente, sulla carta, ma siccome di fatto non decide è il suo portavoce, cioè il suo capo, a parlare direttamente in nome del popolo. Il capo rappresenta il popolo nella sua stessa persona, quindi quello che vuole il capo è quello che vuole il popolo. Questo spostamento rende molto più conciliabile questa posizione con quella della destra di ispirazione nazionale: l’importante è esprimere politicamente la volontà di un popolo che trova la sua unità nell’identità nazionale.

Infine, una serie di spostamenti politici, avvenuti negli ultimi anni, hanno portato il M5S a posizioni più moderate rispetto all’opinione pubblica, e quindi a far emergere la componente conservatrice del suo elettorato. Il primo passo è stato il voltafaccia improvviso per il voto della legge sulle unioni civili, giustificato per ragioni di procedura (o tattica) parlamentare, ma in realtà motivato dalla percezione che l’elettorato grillino in fondo non era in accordo con quella legge. Poi, c’è stata la posizione assunta sui migranti e sullo ius soli, che ha abbandonato le aperture iniziali al mondo degli immigrati, e ha assunto posizioni ben più di destra, sempre in sintonia con l’elettorato: durante la campagna elettorale i volantini del M5S recitavano “zero ingressi”, e ovviamente non davano nessuno spazio allo ius soli. Infine, la posizione esposta di recente da Di Maio sul problema del lavoro è del tutto coerente con questa evoluzione: l’importante è garantire rapporti armoniosi tra datore di lavoro e lavoratore, non difendere i diritti del secondo contro il primo.

L’elettorato grillino è interclassista, e non si riconosce nella dicotomia classica destra-sinistra, ma è profondamente conservatore: vuole protezione e sicurezza, all’interno della comunità che sente propria. Ecco perché, seguendo invece quella dicotomia, il programma del suo governo si colloca a destra. Il cambiamento, che quell’elettorato vuole, è il cambiamento della classe politica, della prassi della politica, è il “diritto di voce” del popolo: la protesta del popolo contro l’élite deve essere ascoltata. La contrapposizione popolo-élite, insieme al tema del sovranismo, ha fatto parlare forse troppo di populismo. Invece il problema è riconoscere che questo lessico è di destra, perché conservatore. La prospettiva della sinistra, infatti, deve partire dal rifiuto di queste entità sovraindividuali, pure ipostasi, come il popolo o la nazione, perché vede in esse il modo per comprimere i diritti individuali, siano essi civili, politici o sociali. La sinistra non può che partire dal riconoscimento che il singolo, nella sua individualità e fragilità, è sempre minacciato dalle forze sociali che lo dominano dall’esterno.

Il suo programma politico rifiuta la “democrazia diretta”, tanto più se trasformata in “democrazia virtuale”, perché sa che i diritti individuali di libertà si preservano in un equilibrio difficile con i diritti di partecipazione politica, e che questi, a loro volta sono a rischio se i primi non sono garantiti; ecco perché una sinistra progressista e storicamente consapevole difende la democrazia rappresentativa, la spinge sempre più avanti nel senso dell’inclusione democratica, ma non accetta di barattarla con miracolose palingenesi di democrazia diretta.

Il programma politico di una forza di sinistra rifiuta, in ogni caso, la superiorità dell’idea di nazione (e di qualsiasi comunità) rispetto alle libertà individuali, perché vede in essa un freno alla spinta inclusiva che proviene dall’ideale di eguaglianza, che tende a coinvolgere nel processo democratico e nella partecipazione alle istituzioni tutti i soggetti che da queste, dall’uso del loro potere sui cittadini, sono coinvolte; non può quindi rifiutare l’estensione dei diritti civili, di nessun genere (unioni civili, diritto di immigrazione, ius soli ecc.) perché vede in essi la base dell’esercizio di qualsiasi diritto, anche di quelli sociali; rifiuta quindi la separazione di diritti sociali e diritti civili che le nuove forze politiche propongono, in Italia e in Europa.

Il programma politico di una forza di sinistra, infine, cerca di vedere le forme di dominio che passano attraverso le relazioni culturali, sociali ed economiche, le denuncia e individua misure che limitano queste forme di dominio, promuovendo l’eguaglianza anche su questi terreni. Questo è il fronte su cui la sinistra europea è arretrata negli ultimi decenni, soprattutto sul terreno delle relazioni economiche. Tale arretramento non nasce da una semplice deriva neoliberista, come si dice spesso troppo semplicisticamente, ma dal punto di svolta fondamentale che ha segnato le nostre economie: la perdita di potere dello stato sovrano nel controllo dei processi economici, sempre più integrati a un livello sovranazionale. L’indebolimento del potere statale ha portato a limitare politiche di redistribuzione che, nelle condizioni attuali, non sono più praticabili. La sinistra non può non tenere conto dei danni al sistema economico che possono derivare da una gestione troppo disinvolta di questo passaggio, perché questi danni (aumento eccessivo del debito, aumento dei tassi, diminuzione degli investimenti, scaricamento dei costi sulle generazioni successive) ricadono in primo luogo sui ceti più deboli. Il M5S, così come tutti i movimenti che propongono ingenuamente la contestazione degli equilibri finanziari, non è in questo di sinistra: perché propone semplicemente di “fare un passo indietro” alla gestione del capitalismo anteriore alle crisi degli anni Settanta e Ottanta, senza farsi carico dei contraccolpi. E perché, come detto, questa politica sociale è ancorata al predominio dell’appartenenza nazionale (non è un caso che l’ultima versione del Reddito di cittadinanza, che è in realtà un Reddito di inclusione, sia limitata ai soli cittadini italiani). Coerentemente con questa lettura non di sinistra dei problemi sociali, il M5S è del tutto insensibile alle forme di dominio che passano per le relazioni culturali (discriminazioni di genere, religiose, etniche), come a quelle che passano per le relazioni sociali (si veda il già citato elogio dell’armonia tra datore di lavoro e lavoratore da parte di Di Maio).

Il quadro quindi è questo: a fronte di una sinistra che, in tutta Europa, non ha ancora trovato gli strumenti per affrontare le iniquità economiche prodotte da questa fase del capitalismo, abbiamo dall’altra lato: delle destre liberiste che negano il problema (ormai però piuttosto malridotte); delle energiche destre nazionali che illusoriamente propongono come soluzione il ritorno al sogno dello “stato sovrano” capace di dominare l’economia; dei movimenti antisistema che in realtà propongono lo stesso sogno e finiscono per confluire, come è successo in Italia, nell’area delle destre nazionali. Questa è la vera linea di distinzione: nonostante le sue difficoltà nel trovare gli strumenti, la sinistra deve difendere il suo progetto di una democrazia rappresentativa progressista, mantenendo chiara la linea di divisione tra destra e sinistra sull’idea di eguaglianza inclusiva, e facendo così ammenda dei propri errori su questo terreno. Ma senza favorire il riconoscimento di certe forze come progressiste, rischiando così di fare proprio il loro gioco: in questo momento, Lega e M5S stanno lavorando per dividersi il campo della politica secondo una sorta di nuovo bipolarismo, tra destra nazionalista (Lega) e centrosinistra sovranista (M5S), per così dire. Questa operazione deve essere ostacolata contrapponendo a questo progetto un’idea progressista di democrazia rappresentativa, fondata su una nuova idea di stato sociale e sulla difesa della prospettiva internazionale e europeista.

 

(Firenze, 10 giugno 2018)

 

[Immagine: Matteo Salvini].

 

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