di Ugo Fracassa

 

[LPLC va in vacanza. Per non lasciare soli i nostri lettori durante la stagione estiva, riproponiamo alcuni pezzi usciti nei mesi o negli anni precedenti. Questo articolo è stato pubblicato il 29 giugno 2018].

 

Eric J. Leed, nel celebre saggio dedicato alla Mente del viaggiatore proponeva di concepire il viaggio, a partire dalle tradizioni culturali dell’Occidente, come paradigma dell’esperienza autentica e diretta. Ed il viaggio come antonomasia dell’esperienza è al centro di molti tuoi libri, da Campo del sangue a Vita di vita. Di certo, come recita il proverbio citato da Benjamin, “chi viaggia, ha molto da raccontare”: qual è la relazione che lega viaggio e racconto nella tua esperienza di scrittura?

 

La questione posta da Eric J. Leed è molto spinosa, basti pensare ai tanti fraintendimenti che possono nascere sulla parola ‘autenticità’. In letteratura conta ciò che resta sulla pagina ma se le parole non sono legittimate dall’esperienza rischiano di essere sterili. Tuttavia sarebbe lecito chiedersi: cosa è esperienza e cosa non lo è? Nella cultura novecentesca il viaggio è stato spesso percepito come protesi della realtà che l’intellettuale sentiva venir meno: e allora andava a cercarsela in Africa o in Oriente nel tentativo di provare un’ebbrezza a cui attribuiva valore estetico. Al contrario, io viaggio per trovare le ragioni del ritorno: voglio scoprire la stazione di partenza che può essere anteriore alla mia stessa nascita.

 

I viaggi che racconti sono però anche quelli, spesso drammatici, dei migranti, in particolare di alcuni adolescenti, “minori non accompagnati” per il legislatore, che sono diventati tuoi studenti alla Città dei ragazzi. Quanto conta, nel patto che stringi col lettore, la veridicità del narrato, il fatto che si tratti di “storie vere”? In altre parole, perché il verosimile non basta più per costruire libri che pure l’editore identifica e propone al lettore come romanzi?

Dovremmo distinguere fra la strategia editoriale di presentazione di un testo e la concezione dell’opera: negli ultimi anni i romanzi vengono lanciati come ‘storie vere’ perché la convenzione narrativa è stata messa sotto scacco dalla cosiddetta rivoluzione informatica e ciò che un tempo chiedevamo a Emil Zola oggi possiamo ottenerlo in tempo reale su Netflix. Tuttavia lo statuto della letteratura è rimasto lo stesso: la pagina scritta possiede leggi proprie che sono quelle di sempre. Io non mi considero uno scrittore d’invenzione. Parto sempre dalla mia vita che poi trasfiguro stilisticamente. Siccome insegno la lingua italiana agli immigrati, è questa la ragione per cui molti miei libri raccontano i viaggi che ho fatto con loro: in particolare La città dei ragazzi e Vita di vita rappresentano una specie di dittico.

 

Proprio nei due libri che citi ricorre la figura di uno dei tuoi studenti, Khaliq, che tornerà anche nel libro su don Milani, L’uomo del futuro (2016). Non sei stato il solo, in anni recenti, a raccontare il viaggio di migrazione in Italia e tuttavia colpisce, nella tua esperienza di vita e di scrittura, la volontà di “restituire” il viaggio: per far fede a una promessa, hai raggiunto Khaliq in Gambia, come ti era già capitato di fare e di raccontare per Omar e Faris, studenti marocchini, ne La città dei ragazzi (2009). Tale pratica sana la costitutiva asimmetria tra testimone, portatore di esperienza, e narratore che si assume l’onere del racconto?

 

I viaggi in Marocco e in Gambia, che sono alla radice della Città dei ragazzi e di Vita di vita, i cui riflessi ritroviamo prima nell’Uomo del futuro, dedicato a Don Lorenzo Milani, e poi specialmente in Tutti i nomi del mondo, nascono in effetti da una specie di sfida che ci siamo fatti, io e i miei studenti, nel tentativo di dare senso alla nostra amicizia. Omar e Faris, insieme a Khaliq, seppure in modo implicito, hanno ricordato a me lo statuto della letteratura: solo se la loro storia avesse preso forma scritta, sarebbe diventata vera agli occhi di tutti; altrimenti avrebbe corso il rischio di restare una favola. La scrittura senza esperienza potrebbe risultare sterile, frutto soltanto di un gioco di polso, ma vale anche il contrario: una vita senza scrittura sarebbe vuota, muta, cieca, sorda. In questo senso come scrittore sento il bisogno di una certificazione delle mie parole: perfino se questa tensione si rivelasse velleitaria, non riuscirei a farne a meno.

 

Del resto, la tua esperienza di scrittore è anche, o forse sopratutto, esperimento con la scrittura. Già alla fine degli anni Novanta Filippo La Porta registrava nei tuoi primi titoli l’apparente centralità del “traliccio romanzesco”, per quanto picaresco, a fronte della cruciale scommessa giocata a livello della forma letteraria, una forma mista di narrazione e riflessione, di autobiorafia e invenzione. Nel più recente Tutti i nomi del mondo finisci per costruire il libro intorno al modello scolastico dell’appello. A che punto sei con la tua personale sperimentazione formale e, più in generale, a quali torsioni credi che la forma romanzo possa venire piegata senza comprometterne la tenuta?

 

L’espressione ‘sperimentazione formale’ mi fa venire qualche brivido sulla pelle, forse perché d’istinto la collego a un artificio, ma in realtà capisco benissimo il senso e l’opportunità della tua domanda. Provo a sintetizzare la mia opera che, come sai, inizia nei primi anni Novanta del secolo scorso. C’è una trilogia del Comandante (Soldati del 1956, Bandiera bianca e Il nemico degli occhi). Quando questo personaggio muore, nasce un’altra serie romanzesca su padri e figli (Secoli di gioventù, La città dei ragazzi e Vita di vita). Potrei individuare un trittico tedesco (Campo del sangue, Un teologo contro Hitler. Sulle tracce di Dietrich Bonhoeffer e Berlin). L’elemento pedagogico è stato presente sin dall’inizio con l’esordio del 1992 su Lev Tolstoj (Veglia d’armi), insieme a quella forma mista di narrazione e riflessione, come l’hai giustamente definita, soprattutto in certi testi: Compagni segreti. Storie di bombe, viaggi e scrittori e Peregrin d’amore. Sotto il cielo degli scrittori d’Italia. Tuttavia negli ultimi anni i temi in qualche modo riconducibili alla scuola, sia direttamente sia in chiave metaforica, hanno prevalso: Elogio del ripetente, L’uomo del futuro. Sulle strade di don Lorenzo Milani e Tutti i nomi del mondo. Nel mio prossimo libro, che uscirà a settembre dalla Piemme, tornerò a occuparmi del priore di Barbiana: Il sogno di un’altra scuola. Don Lorenzo Milani raccontato ai ragazzi. Ho pubblicato anche alcuni racconti che definirei dell’inquietudine: Uomini pericolosi, Papaveri rossi (compreso in Racconti politici, Einaudi), L’11 settembre di Eddy il ribelle, Nel regno intermedio. Credo che il romanzo non finirà mai, perché è un respiro dell’uomo, ma le sue forme continueranno a cambiare sotto i nostri occhi.

 

A proposito dell’ “elemento pedagogico” cui facevi cenno ti propongo la seguente riflessione: il cosiddetto “libro per ragazzi”, che negli ultimi decenni ha conosciuto una notevole fioritura ed ha spesso rappresentato un laboratorio per la produzione narrativa in generale, ha assunto dimensione letteraria nel momento in cui ha saputo liberarsi dalla tutela pedagogica. Nella tua personale esperienza di scrittore che si rivolge principalmente ad un pubblico adulto, come vivi la relazione tra empito pedagogico ed espressione letteraria? Si tratta di una relazione problematica, pacificata, elettiva?

 

 Anche sulla definizione di ‘libro per ragazzi’ ci sarebbe molto da discutere. L’sola del tesoro di Robert Louis Stevenson, Kim di Joseph Rudyard Kipling, Lord Jim di Joseh Conrad, ma ne potremme citare molti altri, sono libri per ragazzi? Prendiamo anzi l’opera in questo senso più importante per noi italiani: Pinocchio di Carlo Collodi è davvero destinato ai bambini? Certo che sì, ma chi dicesse di no avrebbe le sue buone ragioni. E cosa pensare di Penny Wirton e sua madre, uno dei risultati più sofisticati di Silvio D’Arzo? Siamo di fronte a capolavori universali che, oltre a costituire la spina dorsale della letteratura moderna, possono essere letti con profitto da tutti: adulti e adolescenti. Nel mio caso direi che il genere favolistico può avermi garantito una libertà operativa, sia ideativa sia formale, che altrimenti sarebbe stato più difficile ottenere: penso specialmente all’11 settembre di Eddy il ribelle, ma anche all’ultimo, Il sogno di un’altra scuola, nel quale ho immaginato una classe di ragazzi che al termine di ogni capitolo si rivolge a me con domande e commenti utili per approfondire l’argomento.

 

 

Quando ci si rivolge al modello favolistico, il lieto fine è forse il più critico dei precetti di genere, quello per il quale si rivela maggiormente problematica la riproposizione nel romanzo e nelle forme narrative meno standardizzate. Tuttavia una recente fortuna del “lieto fine” si registra proprio nei racconti di migrazione, che immancabilmente si concludono su una nota felice, foriera per il/la giovane protagonista di una riuscita integrazione nel nuovo tessuto sociale. Vita di vita, per tornare al libro del 2014, si chiude invece su una nota amara, il fallimento educativo ed esistenziale di Santino, studente borgataro.

 

La reazione rabbiosa di Santino, nel finale amaro di Vita di vita, corrisponde proprio al desiderio da parte mia di tenere aperti i conti: etici, esistenziali, pedagogici ed estetici. Guai se pensassimo di poterli chiudere in un precetto, oppure in una convinzione inossidabile. In particolare nel caso di quell’opera, in cui raccontavo la vittoria di Khaliq rispetto alla sua origine oscura, sentivo obbligato il riscontro di chi invece, come l’adolescente inquieto, manda all’aria la partita e ti mette con le spalle al muro. Del resto qualsiasi educatore impegnato a fare sul serio – simile in questo ad ogni genitore –  deve prevedere la sconfitta, quasi sempre più utile dell’apparente buona riuscita. Don Milani identificava tale esito drammatico addirittura quale “giorno glorioso”, quando la scuola, da lui raffigurata in modo allegorico come una vecchietta, si prende una “legnata” dall’allievo riottoso che, rifiutandola, conquista così la propria autonomia.

 

Oggi la scuola è il luogo dove precipitano tensioni diffuse nella società – penso al vasto fenomeno del cosiddetto “bullismo”, ma anche agli episodi sempre più frequenti di scontro tra genitori ed insegnanti. Altrove quelle tensioni si manifestano con preoccupante cadenza nello scatenamento di una violenza cieca – le sparatorie nei college statunitensi – fenomeno che sancisce il terrore di cui è permeata la quotidianità nel mondo occidentale. Ciò ha offerto, a scrittori e registi, la possibilità di tornare a raccontare il conflitto come costitutivo della dinamica sociale – La classe era l’allusivo titolo del bel film di Laurent Cantet uscito nel 2008. Per la tua esperienza di scrittore e insegnante, credi che raccontare la scuola sia un buon modo per rappresentare il presente, o forse il futuro, del nostro paese?

 

La scuola, non essendo un’isola staccata dal mondo, riflette tutte le tensioni presenti nella società. La crisi etica contemporanea (perdita di prospettive ideali, deflagrazione del desiderio, adulti fragili) possiamo decifrarla negli occhi di molti adolescenti all’interno del gruppo classe: basta convocare i genitori, quando ci sono, per comprendere la natura profonda e lacerante del disagio dei nostri studenti. L’insegnante oggi è molto più solo rispetto al passato, ma proprio a causa di tale condizione ha una responsabilità maggiore: deve richiamare i giovani alla concentrazione e al rigore, ripristinando le gerarchie di valore nel mare magnum del Web. Detto questo, bisogna anche dire che in letteratura il contenuto conta quando il due di coppe nel gioco della briscola: zero punti. Resta essenziale lo stile, l’unicità espressiva del singolo autore, quindi il tema-scuola è ad alto quoziente di rischio. Gli stereotipi e la retorica sono dietro l’angolo.

 

Hai spesso dichiarato di condividere la frase di Albert Camus – che gli studi postcoloniali avrebbero revocato in dubbio – secondo la quale la sola giustificazione per chi pratichi il mestiere di scrittore consisterebbe nel parlare per coloro che non possono farlo. Più radicale l’aut aut davanti al quale Sartre, per bocca di Antoine Roquentin, pretendeva di porre chiunque nutrisse ambizioni letterarie: “Ma bisogna scegliere – diceva – o vivere o raccontare”.
Dal momento che il tuo curriculum di scrittore/ insegnante/ viaggiatore parrebbe dimostrare il contrario, quale commento ti sentiresti di proporre a conclusione di questa nostra conversazione ?

 

Sono sempre stato dalla parte di Albert Camus contro Jean Paul Sartre. ‘Scrivere a nome di chi non può farlo’: questa sua frase, da me spesso citata, non va intesa come una regola da perseguire. E’ una propulsione emotiva, una piattaforma poetica, una sensibilità estetica. Credo che persino Edward Said, nel momento in cui ci metteva in guardia da ogni atteggiamento monoculare, chiamando in causa prima Conrad poi Camus, lo sapesse. Per me Camus è la crosta sui ginocchi del portiere di calcio abituato a giocare per strada, come lui da bambino in Algeria: la radicalità della sua vocazione espressiva mi commuove assai più dei sottili discernimenti di Sartre, il quale poteva addirittura teorizzare la negazione dei gulag affermando: ‘Anche se tali campi esistessero, non dovremmo parlarne né scriverne, per non togliere la speranza ai lavoratori di Billancourt’. E’ proprio dalla scissione fra vita e racconto che si sviluppa il tarlo del Novecento: l’idea di un artista separato, privilegiato e superiore il quale, nel caso in cui commetta un danno, si concede il lusso di non pagare il prezzo del risarcimento, credendo di poterlo fare in virtù della sua visione esclusiva. Al contrario, per tornare al senso di quello che dicevamo all’inizio, scrivere è una secrezione dell’esperienza vitale. Gli altri non sono l’inferno. Siamo noi i mostri. Per questo dobbiamo condividere la sorte comune.

 

 

[Immagine: Eraldo Affinati]

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