di Andrea Cortellessa
«Hai già in mente un piano di battaglia?». Così accoglie Primo Levi, nella sua casa-studio al terzo piano di Corso Re Umberto 75, l’amico critico Giovanni Tesio (che già in precedenza lo ha intervistato ma ora vuole incontrarlo più a lungo, al fine di preparare una sua biografia). È il 12 gennaio del 1987. Tre mesi dopo, in quello stesso luogo, la battaglia di Primo Levi si interrompeva: con una repentinità che lasciò molti increduli, non meno che traumatizzati. Perché a lasciarci in quel modo, a mezzo del Purgatorio, era quello che un’altra sua intervistatrice, la storica Anna Bravo, definirà «il Virgilio controvoglia del suo tempo».
Proprio il ruolo della guida controvoglia – come chi nel suo cammino veda solo tenebre davanti a sé, riservando la luce a coloro che lo seguono (come appunto Virgilio, nelle parole di un altro poeta latino, Stazio, raffigurava Dante nel XXI del Purgatorio) – è rappresentato dalla Descrizione di una battaglia che sono, nel loro insieme, le più di mille fitte pagine del terzo volume col quale si completano davvero, ora, le Opere complete di Levi (con la selezione di circa una metà delle interviste, conversazioni e pubbliche dichiarazioni da lui rilasciate fra il ’63 e l’87, tutte censite nella minuziosissima bibliografia di Domenico Scarpa che mette capo al volume). Ossia quello che (riprendendo un’espressione dello stesso Levi) il curatore del volume, Marco Belpoliti, chiama il suo «terzo mestiere» (una volta Levi, ridendo, dirà «ormai sono un “professionista”, sono diventato un “reduce” di mestiere, quasi un mercenario…»). L’etologo e lo zoologo di complemento amava paragonarsi, si sa, alla figura ibrida del Centauro: «le due facce della produzione letteraria di Levi, quella del favolista e quella del cronista di guerra» (come le definisce Ian Thomson nella più ampia e bella delle sue molte biografie, l’anno scorso finalmente tradotta da UTET), ma anche il chimico e l’umanista, l’uomo di fabbrica e lo scrittore, l’italiano e l’ebreo. E soprattutto il testimone e lo scrittore d’invenzione (quello che trova un equilibrio instabile nelle Storie naturali che, con atto mancato da manuale, nel ’66 Levi s’induce a firmare collo pseudonimo di Damiano Malabaila).
Come spiega nell’85 a Germaine Greer, re-inventare la realtà è ineludibile per chi a quella realtà si trovi a dare una “forma” (ben diversa la funzione della testimonianza, e appunto la sua forma, negli atti di parola adibiti a uso giudiziario, forense: come si vede nelle «dichiarazioni e deposizioni» a loro volta contenute in questo volume, e raccolte una prima volta tre anni fa, da Scarpa e Fabio Levi, in Così fu Auschwitz) ma, ai tempi e nell’urgenza testimoniale di Se questo è un uomo («sono tornato dal Lager», ricorderà Levi nel ’79, «con una carica narrativa patologica addirittura»), questa «distorsione della realtà» non era stata intenzionale, mentre in seguito (già nella Tregua, che gli costò in effetti – lo racconta Thomson – qualche protesta, da parte di alcune delle persone sulle quali aveva modellato i personaggi del libro) si fece sempre più consapevole ed elaborata. Di qui l’ambivalenza del suo rapporto con quello che Maria Anna Mariani – che con grande sensibilità e intelligenza paragona il “caso” di Levi a quello, non meno complesso, di Anna Frank – definisce «il peccato della finzione» (per se stesso tollerabile, nelle Storie naturali e dintorni, solo in quanto «versione allegorica della testimonianza»; pena, altrimenti, quella di sentirsi un «disertore»: così, ricorda Mariani, in un’intervista del ’78), e che in un incontro pubblico del ’75 lo stesso Levi confessa, con un sorriso, come «reato d’invenzione».
Eppure, a ben vedere, la figura scissa del Centauro – che riproponeva, con simile cortocircuito mitologico-allegorico, la metafora del Visconte dimezzato di quel Calvino che Levi sentirà sempre vicino – non è così esatta. C’è infatti una terza postura appunto, meno visibile perché in qualche modo situata all’intersezione fra le prime due: un po’ come nel paradosso topologico del nastro di Möbius, evocato da Belpoliti e illustrato da Escher. Non a caso nel ’75 scelse un’immagine dell’artista olandese, Levi, per la copertina del Sistema periodico; e due anni dopo, in uno dei racconti “kafkiani” poi raccolti in Lilìt, La bestia nel tempio (ricorda Thomson come il paragone con Kafka, ben prima della traumatica versione del Processo che Levi accetterà di dare nell’83 all’einaudiana «Scrittori tradotti da scrittori», fosse stato fatto per la prima volta nel ’62 da un critico finlandese), raffigura la condizione di chi si trovi prigioniero in un luogo “impossibile”, tanto diverso dal Lager in quanto insieme aperto e chiuso da quello che è tanto un occultamento che uno svelamento, un luogo “indescrivibile” che dunque Levi si vede costretto a disegnare con un proprio disegno, un’immagine che ricorda Escher appunto (o, ancor più da vicino, un quadro di René Magritte, La firma in bianco). Quel luogo è la propria stessa opera, che Levi da un certo momento in avanti vive come «una memoria-protesi già data, pronta per ogni occasione» (così Belpoliti): un «surrogato» che, nel rinviare ogni volta al proprio vissuto, da esso finisce anche, paradossalmente, per allontanarlo (come dice Levi alla radio tedesca nell’86).
In queste condizioni, il «mestiere» dell’intervistato poteva ben trasformarsi in una routine appunto carceraria, soffocante (come è capitato ad altri scrittori, che nelle interviste ripetono sempre lo stesso formulario). Invece, come dice Belpoliti, leggendo questo libro sterminato e abissale è stupefacente constatare come Levi ogni volta riesca a ruotare il proprio stesso prisma: «variando, aggiungendo, chiosando, quasi come in un lunghissimo commento alle storie raccontate per iscritto». Il fatto è che col tempo a mutare è il contesto – sociale, politico, storico; ma anche il suo personale, esistenziale – attorno a lui. E così ogni volta diversa è la battaglia che si trova ad affrontare: la più cruciale certo è quella contro il negazionismo (che alla fine lo farà decidere di riaprire il dossier-Auschwitz, col capolavoro senza ritorno che sarà I sommersi e i salvati); ma Levi non si sottrae dal combattere il sionismo nazionalista e fascista – così da lui definito, con puntiglio, nell’82 – di Begin, il terrorismo delle Brigate Rosse, l’imperialismo americano in Vietnam, il nuovo genocidio in Cambogia e l’insidia dei nuovi razzismi, non solo di matrice antisemita.
Ogni volta si vede costretto a interpretare, dunque, il medesimo doppio legame (come intitola – con metafora chimica ma anche psicologica – l’ultimo suo progetto narrativo, che resta purtroppo tuttora inedito). Da un lato contestando quelle che Anna Bravo ha definito le «parole della pigrizia», cioè l’uso indiscriminato e superficiale del Lager – e dei propri stessi concetti e definizioni, come quella della «zona grigia» – come metafora inerte (di volta in volta dell’alienazione in fabbrica, delle violenze delle forze dell’ordine, dei crimini di altri Stati). Ma, dall’altro lato, usando egli stesso l’esperienza concentrazionaria come metafora; o meglio, usandola come strumento per indagare la realtà fuori di essa. Il Campo come specchio della società, insomma, o – dice Levi a Nicola Tranfaglia nell’81 – sua «metafora» (in qualche modo anticipando le riflessioni di Giorgio Agamben sulla sua natura di «paradigma biopolitico»). Uno strumento da impiegare con cautela, però, dal momento che – dice Levi a Ferdinando Camon – «il lager era uno specchio della situazione esterna, però uno specchio deformante». Ricorda Maria Anna Mariani un’altra meno nota intervista (su «Lotta continua» nel ’79, dopo la polemica sulla Chiave a stella), a Virgilio Lo Presti, dove Levi dice che il Campo era «l’estremizzazione della società, non dico industriale, ma della società tout court…». E dei Sommersi e i salvati dirà, a Risa Sodi, che se è un libro «politico», e «morale», è perché «fa dei paragoni tra i problemi morali di ieri e di oggi» (frase questa dell’intervistatrice, cui Levi risponde semplicemente «sì»).
Il fatto è che Levi, avvitandosi sempre più nel suo «terzo mestiere», si rende sempre meglio conto di usare se stesso – la propria biografia e la propria opera, più in generale il simbolo che incarna – come uno strumento. Proprio come quella di Anna Frank, la sua era divenuta un’«icona della Shoah». Un’icona necessaria, però. Nel 1964 Vittorio Sereni – ricorda Maria Anna Mariani – recensendo La tregua paragona appunto ad Anna Frank (la cui figura ha rievocato qualche anno prima nella poesia Amsterdam, poi negli Strumenti umani) l’icona-Levi: entrambe le loro opere mostrano come in certi casi, e in determinate condizioni, proprio l’unicità del rispettivo “caso” mostra appieno «il potere universalizzante della parola sopravvissuta, la sua capacità di moltiplicare la memoria individuale». Dice Sereni: «il racconto di quelle vicende si ribalta regolarmente sul passato rifrangendosi in milioni di destini individuali, nelle singole infinite storie». (Molto più avanti, nei Sommersi e i salvati, lo stesso Levi tornerà, in termini analoghi, sul “caso” Frank.)
Con Risa Sodi, nell’87, Levi rivendica il proprio uso «politico» (nonché «morale») della memoria: al pari di quello di Hermann Langbein, militante comunista, che la usa addirittura (ma queste sono parole dell’intervistatrice) «come atto di guerra». Ma l’intervista più rivelatrice, anche per la particolarità dell’interlocutore (uno studente quindicenne, Marco Pennacini, nipote di due partigiani uccisi a Mauthausen che morirà lui stesso, in un incidente, quattro anni dopo), è quella in cui Levi nel ’75 confessa apertamente che, se dovesse riscrivere allora Se questo è un uomo, ne farebbe «una cosa completamente diversa»: lo «scriverebbe oggi con riferimento preciso al fascismo attuale» (quello che, dice a Giorgio Bocca nell’85, in televisione, «ritroviamo intorno a noi annidato in dieci forme diverse») e, dice proprio, «lo strumentalizzerebbe». Un uso strumentale che, aggiunge, è appunto quello che fa di sé «quando vengono dei ragazzi a parlargli». «Il fatto è», prosegue, «quando ho scritto Se questo e un uomo ero convinto che valesse la pena di documentare queste cose perché erano finite. Adesso non sono più finite: bisogna parlarne di nuovo».
In un incontro pubblico a Pesaro, nell’86, gli viene chiesto se non sia stanco di condurre quella battaglia senza respiro. Se non avverta il bisogno di una tregua. Ma Levi testardo risponde: «preferisco, entro i miei limiti, combattere: naturalmente non con il mitra, finché è possibile, non con il coltello, combattere con i mezzi democratici di cui siamo fortunatamente provvisti, combattere scrivendo, combattere discutendo». Anche l’uso di sé, e della propria storia, era «meraviglioso ma fallace» – come dice della memoria nei Sommersi e i salvati – e «come tutti i paralleli storici» i suoi «zoppicano», come dice nell’82: non di meno facendone uno quanto mai pesante (fra il comportamento dell’esercito d’Israele, a Sabra e Chatila, e quello dell’Armata Rossa che nel ’44 permise ai nazisti di finire il lavoro sporco coi partigiani polacchi).
Qualche settimana fa ho assistito a una bellissima conferenza di Carlo Ginzburg sull’atto della «comparazione». Termine questo più produttivo, e senz’altro meno scivoloso, di «metafora». Si comparano due cose diverse, al fine di evidenziarne i tratti che hanno in comune: altrimenti non sarebbe una comparazione, bensì una tautologia. Ed è proprio l’unicità di un «caso» che, in determinate condizioni, può farne un «paradigma» (come era per lui, negli anni Sessanta, studiare i processi per stregoneria come «una forma elementare di lotta di classe»). Ci ho pensato, pochi giorni dopo, quando al ballon d’essai di Matteo Salvini, di procedere a un censimento su base etnica dei Rom residenti in Italia, Enrico Mentana ha risposto, in un tigì in prima serata, mostrando l’atto di autodenuncia come israelita, nel ’38, del padre di Liliana Segre gasato ad Auschwitz pochi anni dopo.
Virgilio non è più con noi, è vero, ma – come aveva fatto con Dante alla fine del Purgatorio – prima d’andarsene ci ha mostrato la strada della libertà. Che vuol dire responsabilità, certo. Ma anche coraggio.
Primo Levi, Opere complete volume III. Conversazioni, interviste, dichiarazioni, a cura di Marco Belpoliti, bibliografia di Domenico Scarpa, indici di Daniela Muraca, Torino, Einaudi, pagg. XXXV-1342, € 85; Maria Anna Mariani, Primo Levi e Anna Frank. Tra testimonianza e letteratura, Roma, Carocci, pagg. 164, € 17; Ian Thomson, Primo Levi. Una vita, traduzione di Eleonora Gallitelli, Torino, UTET, pagg. 806, € 35
Una versione più breve di questo articolo è uscita sul «Sole 24 ore-Domenica» lo scorso 8 luglio
“ 26 aprile 1984 – Kafka, Descrizione di una battaglia, nella Medusa di Mondadori, dove è finito? (Basta piangere sui libri perduti) “.