di Angelo Ferracuti. Fotografie di Giovanni Marrozzini

 

[E’ da poco uscito per Ediesse/Libertà Edizioni Gli spaesati. Reportage dalle zone del terremoto del Centro Italia, di Angelo Ferracuti e Giovanni Marrozzini. Il libro verrà presentato domani al Festivaletteratura di Mantova. Pubblichiamo un estratto del capitolo dedicato alle Marche].

 

Sono passati nove mesi dal 26 ottobre 2016 e alla baraccopoli di Muccia ci sono persone che vivono ancora nelle roulotte. All’inizio del grande piazzale c’è l’ufficio postale, più avanti un container e il gazebo con dentro quattro biliardini e il tavolo da ping pong, la fila di caravan e in fondo la mensa gestita dai carabinieri. In alto, sulla sinistra, altri container, quelli una volta occupati dagli operai della Quadrilatero, la società che ha realizzato la strada Foligno- Civitanova Marche. Ci vivono ancora ottanta persone, in bilocali di sedici metri quadri. Sopra al campo, sul crinale verdeggiante del Monte Muccia, a quota 750 metri, si scorge la chiesa rurale del Santuario della Madonna di Col de’ Venti. Quando arrivo tre anziani stanno conversando sotto la veranda, una di loro che vive nella vicina roulotte è sola, la casa in paese è lesionata, mi dice che qui le ore non passano mai, entra ed esce di continuo, e non basta stare intere mattinate o pomeriggi a guardare la televisione, perché anche il tempo è precario, non è più lo stesso neanche quello. «È cambiata la vita» dice arresa la donna anziana grassoccia, «è cambiato tutto. Ci vedi come stiamo, no?» fa ancora allargando le braccia intimidita. «Fortuna che lunedì ricomincio a tenere mia nipote di cinque anni, non vedo l’ora».

 

Dal camper esce Giancarlo, un signore anziano dal fare attivo, capelli bianchi lisci tirati all’indietro, maglia chiara, pantaloncini neri e un paio di occhiali ovali dalla montatura classica, l’aria da tabagista incallito. «Abitavo a Muccia, poi il 29 me ne sono tornato a Roma» comincia a raccontare mentre siamo seduti intorno a un tavolo nella veranda, «dopo quattro mesi sono tornato giù perché non mi pareva giusto deportare la gente». Dice che il terremoto è una cosa naturale, si deve accettare, «il problema sono i politici, hanno una visione e la impongono, mettono le persone nei bilocali di quattro metri per quattro, la gente si accontenta, ma chi aveva un orto o le galline, è fregato». Lui è una specie di disubbidiente, un difensore civico. «Ho due computer, scrivo, sono portavoce di diverse associazioni, faccio politica con il Partito radicale».Va tutti i giorni a controllare quello che non funziona a dovere dove stanno costruendo le casette, scatta fotografie, invia le relazioni agli amministratori, poi fa la sua vita qui dove ha trovato un ruolo, una sua dimensione. Anzi, contrariamente a molti altri, sembra stare a proprio agio. «Sono l’unico che dentro la roulotte sta felice e tranquillo, prendo la vita come viene» confessa divertito. Intanto ha messo la moka sul fornello, accanto c’è il forno a microonde, di lato alcune bottiglie di vino smezzate, e lui continua a fumare una sigaretta dietro l’altra mentre parla nei modi pannelliani che certamente ha imparato al partito, quando era attivista e presidente del Circolo di cultura omosessuale Mario Mieli. Qui al campo ci sono anche molti stranieri, novanta famiglie di rumeni, polacchi e albanesi, persone che lavoravano in queste zone. «La gente comune non parla, ha timore, molti non conoscono i propri diritti e vanno per favori, il voto di scambio nei piccoli paesi è la norma», sostiene, «sono italiani anche qui». Ma i sentimenti che si vivono sono altalenanti, uno stato di cattività secondo lui. «In questi giorni sono venuti a trovarmi degli amici e quando sono andati via, la prima notte che sono rimasto da solo, alle 4:30 ho avuto un attacco di panico. Se non sto sotto stress e mi rilasso, succede che mi sento male». Dice che gli mancava il respiro, allora è uscito a farsi un giro qua intorno, mentre la gatta lo seguiva. La chiama «zoccola», ha il pelo chiazzato nero e rossiccio, vive con lui nella roulotte. È un uomo inquieto Giancarlo, uno che non trova pace. Una sera in un cinema  romano, all’inizio degli anni Settanta, quando era ancora un ragazzo, alla proiezione del Decameron ha conosciuto Pier Paolo Pasolini, nei mesi successivi ha cominciato a frequentarlo. «Mi ha rovinato la vita» dice adesso con divertito orgoglio, «la sua visione è diventata la mia». Rampollo di una famiglia di bottegai, capo area della Motta e poi dell’Alemagna, manager nelle aziende, fin quando non ne ha potuto più di indossare giacca e cravatta, allora è tornato a Muccia, nella casa che era stata dei suoi nonni, i genitori di sua madre, facendo di tutto per sbarcare il lunario, «direttore, accompagnatore, sempre alla Riserva di Fior di Monte». Racconta ancora: «durante il terremoto di ottobre stavo scrivendo al computer nella roulotte, ho bestemmiato, sono uscito, ho messo gli scarponi in macchina, poi c’è stato quello grosso» racconta.

 

Quando ci incamminiamo per fare un giro negli immediati dintorni, arriviamo fino all’area delle Soluzioni abitative di emergenza (Sai) di Pian di Giove dove gruppi di operai stanno lavorando sulla distesa sterrata, gru si spostano lungo la superficie, sento rumori di rimorchi e betoniere. Sull’altro lato della strada, piccole case di legno vicino a quelle lesionate, la vita prima e la vita dopo, una vicina all’altra, a pochi metri da quelle disabitate piene di crepe. La routine quotidiana è ricominciata, c’è una bambina in un giardinetto che gioca a palla, la nonna seduta che la controlla, in quella successiva una donna anziana con molta naturalezza sta pulendo la verdura. Il terremoto ha esposto le persone, è come se avesse cancellato la loro intimità e tutti fossero costretti a vivere più scoperti, più vicini uno all’altro. Tiene in mano un coltello e taglia la bieta con calma e meticolosità. Si chiama Giovanna, è allegra e addolorata insieme, così alterna momenti di abbattimento ad altri in cui improvvisamente scherza e ride persino delle sue disgrazie. «Mi hanno detto: ma lei signora perché non vuole andare al mare? (si riferisce al trasferimento in albergo, n.d.a.). E io ho risposto: ci vado il mese di luglio al mare. Sono stata quattro mesi nel container, ma non ci riuscivo più», dice con un’espressione di sofferenza facendo una smorfia di disappunto. «Una donna di novant’anni in una stanza piccola, con mio figlio, lui sentiva caldo e io freddo». Dietro c’è la casa di prima, la polvere si è già impossessata delle pavimentazioni esterne, dentro i mobili sono caduti, in terra è pieno di calcinacci e oggetti, restano i quadri obliqui appesi alle pareti. Solo il tubo dello scarico collega le due case, da quella di legno all’altra dall’intonaco giallo, come un cordone ombelicale. «Mia figlia mi è morta a marzo» racconta mentre mi fa visitare la sua casetta, «mio figlio se n’è andato a settembre, in mezzo c’è stato il terremoto, sono rimasta da sola». Impreca guardando verso il cielo agitando il coltello da cucina che impugna con la mano destra, una piccola disperazione nello sguardo. «E su, Signore, basta!» dice alzando la voce. La casa di legno è strettissima, c’è una cucina con lo spazio cottura pulita e in ordine, l’odore di cucinato, e due porticine danno accesso alle camere, neanche una finestra, giusto lo spazio per contenere i letti, stretti dalle pareti, e quello sufficiente per muoversi. «Fino a ottobre provo a stare qui», dice ancora addolorata, «poi vado al ricovero».

 

 

 

 

I container della Quadrilatero stanno in alto, ci sia arriva prendendo una strada brecciata in salita. Stamattina sembrano disabitati quando incontro Sena, una donna bosniaca di mezza età ma giovanile e spiritosa, capelli biondi, il viso roseo e gli occhi chiari. «Vengo dalla guerra, da un paese vicino Sarajevo» dice mentre mi fa accomodare nella stanza dove vive e già in due neanche ci si muove. La porta si apre verso l’interno e urta il piccolo porta abiti rivestito con il telo di plastica, chiuso ai lati con una cerniera lampo. Ha fatto la notte al ricovero degli anziani a Serravalle, dove lavora, ma non è riuscita ancora a riposare. La stanza due metri per tre è molto stretta, da una parte c’è il suo letto e una piccola finestra, sul lato sinistro una rete con sopra il materasso, sul tavolino che sta in mezzo, davvero minuscolo, la sveglia, le creme di bellezza e due cornici con dentro le foto dei famigliari. Dice che qui cerca di starci il meno possibile, ci torna solo a dormire, «in questo buco», così lo definisce, ma d’inverno stare fuori è più difficile perché fa freddo e fa buio presto, «nelle casette dovrò ricominciare a cucinare, non ricordo più come si fa». La osservo mentre a stento riesce a destreggiarsi in uno spazio così angusto. «A ottobre fa un anno che sto qui, per sei mesi hanno vissuto con me anche mio figlio e la sua compagna, si alternavano sulla brandina, meglio non parlarne». Sono arrivato da pochi minuti e già mi sento soffocare, non vedo l’ora di aprire quella maledetta porta e uscire fuori a prendere una boccata d’aria, questo penso mentre lei mi sta preparando il caffè, inginocchiata davanti a un fornelletto a gas, la caffettiera fumante gorgoglia già. «Qui è la mia vita, ormai» sostiene arresa Sena, «tutti questi anni di sacrifici e non ho più nulla, ho questo buco» dice quasi deridendosi. La sua casa si trovava in centro storico, «lì ci sono tutti i mobili, tutte le mie cose» mi spiega. «Mio marito è morto quattro anni fa, prima del terremoto, facevo tutto da sola, oltre al lavoro all’ospizio andavo anche a pulire le case» dice ancora sconsolata. Mi guardo intorno, osservo di nuovo la piccola stanza, povera di cose, e mentre sto bevendo il caffè Sena dice una cosa che mi colpisce molto: «qui dentro non c’è neanche uno specchio».

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