di Michelangelo Zaccarello

 

In un tweet del 18 luglio scorso, poi rimosso dal suo profilo, l’on. Giorgia Meloni sosteneva letteralmente che fra le proposte del suo partito c’è quella di «abolire il reato di tortura che impedisce agli agenti di fare il proprio lavoro». Dietro lo sconcertante paradosso logico, c’è il fastidio per la sentenza del 2015 con cui la Corte Europea dei Diritti Umani ha sanzionato l’Italia per il cosiddetto “caso Cestaro”, risalente ai fatti della Caserma Bolzaneto in occasione del G8 del 2001. La Corte è un organo istituito nel 1949 per garantire il rispetto della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo del 1950 (ratificata dalla nostra legge 848/1955): l’articolo 3 di quest’ultima, inerente alla proibizione della tortura, recita appunto «Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti». I giudici di Strasburgo non si limitarono a dare ragione ai ricorrenti, ma puntarono il dito contro l’inadeguatezza del nostro sistema giuridico, che non prevedeva il reato di tortura e permise dunque che molti dei responsabili dei fatti di Genova non fossero stati puniti. Nei giorni successivi alla sentenza del 2015, infatti, l’attuale Ministro dell’Interno Matteo Salvini manifestò davanti a Palazzo Chigi per sostenere la protesta del Sindacato Autonomo di Polizia, sostenendo – nel suo consueto stile – che le Forze dell’Ordine debbono essere libere di «prendere per il collo un delinquente e [se] questo si sbuccia il ginocchio o si rompe una gamba sono c… suoi».

 

Nonostante simili proteste, l’Italia si è adeguata alle normative internazionali grazie a una proposta del ministro Andrea Orlando, che è diventata la legge 14 luglio 2017 n.110, ispirata alla Convenzione di New York del 1984 e ai molti accordi già sottoscritti dall’Italia che sanciscono il principio «nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti». Oltre alla Convenzione citata, come si legge sul sito della Camera, sono espliciti in questo senso la Convenzione di Ginevra del 1949, relativa al trattamento dei prigionieri di guerra; la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 1966 (ratificato dalla L. 881/1977), la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 2000, la Convenzione ONU del 1984 contro la tortura ed altri trattamenti e pene crudeli, inumani e degradanti (la cd. CAT), ratificata dall’Italia con la legge n. 489/1988; lo Statuto di Roma, istitutivo della Corte penale internazionale del 1998 (L. 232/1999).

 

Perché ripercorro questi fatti, molto noti? Perché un bel libro di Margherita De Blasi ci ha da poco offerto la prima edizione critica moderna di un trattato che, se non la primogenitura, vanta certo un posto di alto profilo nella storia della riflessione giuridica sulla tortura: le Osservazioni sulla tortura dell’illuminista milanese Pietro Verri (1728-1797) ci parlano di un tempo in cui l’Italia era all’avanguardia nella difesa dei diritti dell’uomo. Pubblicato pochi anni dopo il più celebre Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria (1764) e da esso senz’altro influenzato, al punto che Verri stesso partecipò alla stesura definitiva per la stampa. In quegli anni, molti ordinamenti giuridici guardavano a tali opere: la costituzione americana (1787-1789) si ispirò in vari punti al trattato di Beccaria. Quanto alla tortura, Verri era da tempo interessato all’argomento nel quadro di una più ampia riflessione giuridica, che aveva prodotto nel 1763 l’Orazione panegirica sulla giurisprudenza milanese; ma lo spunto per quest’opera venne da un fatto di cronaca: antesignana della Corte europea, nel marzo 1776 l’imperatrice Maria Teresa d’Austria invitò Milano ad adeguarsi al Codex Theresianus, che dal 2 gennaio di quell’anno aveva abolito la tortura dal processo penale. Dopo che il 29 aprile il Senato milanese rifiutò di adeguarvisi, Verri raccolse molti materiali – come egli stesso scrisse al fratello Alessandro – per dimostrare come quel rifiuto andasse contro la storia. Per sostenere i suoi argomenti, studiò a fondo gli atti processuali di un caso molto famoso, almeno a Milano, di ingiusta condanna, per giunta collettiva: il processo alle unzioni cui si attribuì la pestilenza cittadina del 1630, oggetto dopo qualche decennio della notissima Storia della Colonna infame di A. Manzoni. Dei tanti innocenti torturati e giustiziati per quell’assurda superstizione, il solo che sopravvisse alle condanne fu Giovanni Gaetano Padilla, figlio del castellano di Milano, unico a poter essere adeguatamente assistito da avvocati grazie all’agiata condizione sociale. Dei corposi atti processuali relativi a Giovanni esiste una copia personale di Verri con numerose postille, che la De Blasi pubblica in appendice al trattato; la robusta impalcatura di quegli atti, ricchi di dettagli raccapriccianti, non funge solo da scrupolo documentario, ma da autentico espediente retorico, con cui quelle atroci sofferenze sono, in fin dei conti, non giustificate dalla ricerca della verità ma anzi inflitte a causa della «superstiziosa ignoranza» (p. 58). Nella prospettiva di Verri, dietro a questa barbara persecuzione c’era la pressione esercitata dal popolo, furibondo per la pestilenza: «il popolo furiosamente si rivolse ad ogni eccesso di demenza. Ne’ disastri pubblici la umana debolezza inclina sempre a sospettarne cagioni stravaganti» (p. 11). Sulla base di credenze inconsistenti, la furia popolare ha bisogno di trovare un capro espiatorio e finisce per sfogarsi su soggetti stranieri o diversi, come i francesi che visitano il Duomo; nella Milano seicentesca, l’effetto complessivo fu che «ogni legame sociale venne miseramente disciolto nel furore della superstiziosa, una distruggitrice anarchia desolò ogni cosa» (p. 14). A questo clima il sistema giudiziario aggiunse i processi “per sentito dire”, come quelli a Guglielmo Piazza e Gian Giacomo Mora, basati su indizi inconsistenti e puntigliosamente ricostruiti da Verri sulle testimonianze d’epoca: la curatrice sottolinea opportunamente come agli imputati non venisse rivelato il motivo per cui li si interrogava, impedendogli di fatto qualunque difesa. La tortura faceva il resto, estorcendo false confessioni: ai sostenitori del barbaro metodo, Verri oppone la necessaria presunzione d’innocenza per l’imputato («il torturato innocente è spinto egualmente come il reo ad accusare se stesso del delitto. Dunque i tormenti non sono un mezzo per iscoprire la verità», p. 67). Non c’è dunque solo materia di riflessione per la sentenza di Bolzaneto: in tempi di populismo, di fake news e processi mediatici, è una lezione che il Settecento milanese dovrebbe aiutarci a ricordare e meditare.

P. Verri, Osservazioni sulla tortura. Edizione critica dell’autografo, a cura di M. De Blasi, Roma, Salerno Ed., 2018.

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