di Sonia Trovato
[Ludovico Ariosto nasceva a Reggio Emilia l’8 settembre del 1474. È da poco uscito, presso Carocci, A chi nel mar per tanta via m’ha scorto. La fortuna di Ariosto nell’Italia contemporanea, di Sonia Trovato. Pubblichiamo alcune pagine dell’Introduzione, ringraziando autrice e editore].
Come a ogni poeta, la fortuna
o il destino gli diè una sorte rara;
andava per le strade di Ferrara
e al tempo stesso andava per la luna.
Jorge Luis Borges
È il 1494 e, mentre Matteo Maria Boiardo e alle prese con il racconto delle gesta dei paladini di Carlo Magno, un altro Carlo – l’ottavo re, in Francia, a portare questo nome – varca le Alpi e arriva in Italia, dando inizio alla campagna di conquiste e saccheggi nota con il nome “guerre d’Italia” e facendo calare bruscamente il sipario sul quarantennio di pace e prosperità sancito dall’accordo di Lodi.
(Mentre che io canto, o Dio redemptore,
Vedo la Italia tutta a fiama e a foco
Per questi Galli, che con gran valore
Vengon per disertar non sciò che loco:
Però vi lascio in questo vano amore
di Fiordespina ardente a poco a poco.
Un’altra fiata, se mi fia concesso,
Raconterovi el tutto per espresso).
(Orl. inn., III, 9, 26)
Come si legge, l’orrore dell’invasione francese irrompe nella finzione letteraria e determina la brusca interruzione di un poema che aveva contribuito a ridare slancio e vitalità al genere cavalleresco e a scrivere, su basi inedite, le imprese di un personaggio che la tradizione voleva casto e integerrimo.
«Un’altra fiata» non è concessa al conte Boiardo, che muore nel dicembre di quello stesso 1494, consentendo, suo malgrado, a un ventenne reggiano trasferitosi a Ferrara di portare alle estreme conseguenze l’innamoramento di Orlando e di tramutare una passione amorosa in una «gran follia, si orrenda, / che de la più non sarà mai ch’intenda» (XXIII, 133, 7-8)[1].
Le ottave di chiusura dell’opera boiardesca possono essere assurte a malinconico manifesto di un’intera generazione di intellettuali, testimoni della perfezione formale raggiunta nelle arti figurative e letterarie e, altresì, della perdita dell’indipendenza italiana, con la relativa fine della prosperità economica raggiunta nel secolo precedente. La contraddizione tra ideale e reale lacera la società cinquecentesca e diventa un motivo ricorrente nella produzione letteraria dell’epoca. L’Orlando furioso ne rappresenta probabilmente l’apogeo, perché riesce a registrare magistralmente la drammatica transizione dal sistema di valori umanistici e rinascimentali a un nuovo assetto culturale e politico, dai connotati ancora incerti. Mentre Boiardo cessa di scrivere in seguito all’avanzata straniera, Ariosto, appartenente alla «generazione successiva, che ha fatto i conti con la realtà della servitù […], tenta di assimilare le lezioni della storia recente»[2].
Un decorso altrettanto repentino e traumatico investe la società del XX secolo: due guerre mondiali che privano il Vecchio Continente di milioni di persone, la dissoluzione degli imperi austro-ungarico e ottomano, la rivoluzione sovietica, la crisi economica del 1929 e l’avanzare dei totalitarismi sono solo alcuni dei fattori che contribuiscono a quel Tramonto dell’Occidente enunciato dal filosofo tedesco Oswald Spengler. Gli sconvolgimenti politici della prima metà del secolo determinano una frattura insanabile nell’umanesimo europeo, ossia in un sistema di valori culturali ed estetici sopravvissuto per secoli. Non a caso, Theodor Adorno sosterrà che «Dopo Auschwitz, nessuna poesia, nessuna forma d’arte, nessuna affermazione creatrice è più possibile. Il rapporto delle cose non può stabilirsi che in un terreno vago, in una specie di no man’s land filosofica»[3], specificando che «Auschwitz ha dimostrato inconfutabilmente il fallimento della cultura. Il fatto che potesse succedere in mezzo a tutta la tradizione della filosofia, dell’arte e delle scienze illuministiche, dice molto di più che essa, lo spirito, non sia riuscito a raggiungere e modificare gli uomini»[4]. George Steiner è della stessa opinione:
Adesso sappiamo che un uomo può leggere Goethe o Rilke la sera, può suonare Bach e Schubert e il mattino dopo recarsi al proprio lavoro a Auschwitz. Dire che egli ha letto questi autori senza comprenderli o che il suo orecchio e rozzo, è un discorso banale e ipocrita. In che modo questa conoscenza pesa sulla letteratura e la società, sulla speranza, divenuta quasi assiomatica dai tempi di Platone e quelli di Matthew Arnold, che la cultura sia una forza umanizzatrice, che le energie dello spirito siano trasferibili a quelle del comportamento? Per giunta, non si tratta solo del fatto che gli strumenti tradizionali della civiltà – le università, le arti, il mondo librario – non sono riusciti a opporre una resistenza adeguata alla bestialità politica: spesso anzi essi si levarono ad accoglierla, a celebrarla, a difenderla.
Perché? Quali sono i legami, per ora assai poco compresi, tra gli schemi mentali e psicologici della cultura superiore e le tentazioni del disumano? Matura forse nella civiltà letterata un gran senso di noia e di sazietà che la predispone allo sfogo della barbarie?[5]
Anche il secondo dopoguerra non è scevro di contraddizioni: i decenni del boom economico sono infatti lacerati da una guerra che è definibile “fredda” solo nel cuore dei due sistemi che monopolizzano la storia mondiale fino al 1989, dalla rincorsa al nucleare, dalla decolonizzazione che si accompagna al neocolonialismo in alcune zone dell’Africa e del Medio Oriente, dall’intensificarsi delle migrazioni interne, da Sud a Nord (preludio di quelle su più vasta scala, dal Sud al Nord del mondo). Un passaggio della nota introduttiva di Italo Calvino alla raccolta di saggi Una pietra sopra restituisce il senso di spaesamento e di disillusione della contemporaneità:
Certo il mondo che ho oggi sotto gli occhi non potrebbe essere più opposto all’immagine che quelle buone intenzioni costruttive proiettavano sul futuro. La società si manifesta come collasso, come frana, come cancrena (o, nelle sue apparenze meno catastrofiche, come vita alla giornata); e la letteratura sopravvive dispersa nelle crepe e nelle sconnessure, come coscienza che nessun crollo sarà tanto definitivo da escludere altri crolli.[6]
In uno dei saggi della raccolta, il romanziere precisa che
L’umanesimo del nostro tempo accetta la sfida del terrore che gli lancia l’epoca dei bombardamenti atomici, dei campi di concentramento, delle camere di tortura che ancora in questo momento, in altre parti del mondo, risuonano nelle urla dei suppliziati, l’umanesimo del nostro tempo si sforza di non chiudere gli occhi di fronte alle immagini peggiori e di tenersi in piedi stringendo i denti.[7]
E l’opera di Ariosto diventa, per Calvino, una lente di ingrandimento indispensabile per comprendere le peculiarità di questa società collassata e incancrenita:
Tra tutti i poeti della nostra tradizione, quello che sento più vicino e nello stesso tempo più oscuramente affascinante e Ludovico Ariosto, e non mi stanco di rileggerlo.
Questo poeta cosi assolutamente limpido e ilare e senza problemi, eppure in fondo cosi misterioso, cosi abile nel celare se stesso; questo incredulo italiano del Cinquecento che trae dalla cultura rinascimentale un senso della realtà senza illusioni, e mentre Machiavelli fonda su quella stessa nozione disincantata una dura idea di scienza politica, egli si ostina a disegnare una fiaba… […]
È evasione il mio amore per l’Ariosto? No, egli ci insegna come l’intelligenza viva anche, e soprattutto, di fantasia, d’ironia, d’accuratezza formale, come nessuna di queste doti sia fine a se stessa ma come esse possano entrare a far parte d’una concezione del mondo, possano servire a meglio valutare virtù e vizi umani. Tutte lezioni attuali, necessarie oggi, nell’epoca dei cervelli elettronici e dei voli spaziali.
È un’energia volta verso l’avvenire, ne sono sicuro, non verso il passato, quella che muove Orlando, Angelica, Ruggiero, Bradamante, Astolfo…[8]
Il merito della critica ariostesca più recente e stato dunque rimettere in discussione «quel giudizio di levigatezza, perfezione formale, armonia»[9] promosso dalla celebre analisi crociana e scoprire «la reale disarmonia e la forte irrequietezza di fondo»[10] del capolavoro del ferrarese, offrendo al contempo un modello esemplare a una generazione di scrittori che, come sottolinea Calvino[11], non si riconosce pienamente né nei modi della letteratura elegiaca di Cassola o di Bassani, né nello sperimentalismo linguistico di Pasolini o di Gadda e cerca un riferimento per formulare una soluzione fantastica. Tale schiera di scrittori (in cui Calvino annovera, oltre a se stesso, Buzzati e Morante) non intende evidentemente percorrere la strada del racconto fantastico ottocentesco, che sorge in reazione alla «ragione freddamente positiva»[12] del nascente pensiero positivista e che rielabora le tendenze gotiche di provenienza anglosassone. Il modello diventa così il meraviglioso ariostesco, in grado di coniugare la rappresentazione di variopinti e compositi mondi fantastici con la costruzione di realtà extraletterarie geometriche e astratte, ottenute tramite il ricorso costante a tecniche di straniamento, di distanziamento e di riflessione critica. «Abbiamo bisogno di opere di fantasia e d’ironia; e non sono in contrasto con il nostro tempo scientifico, ma la sua seconda faccia»[13], asserisce Guido Piovene in occasione della notizia dell’imminente rivisitazione radiofonica del Furioso firmata da Calvino. Nell’articolo, l’autore veneto si interroga sul perché il poeta estense sia stato, prima del Novecento, poco presente nella letteratura attiva, sottolineando lo sfavore che ricevette su più fronti. Se gli scrittori di impianto lirico gli rimproverano l’assenza di un tormentato groppo autobiografico che l’avrebbe potuto trasformare in un mito romantico alla Torquato Tasso, il detrimento da parte della linea psicologico-realistica e dovuto alla mancanza, nell’Orlando furioso, di una caratterizzazione introspettiva dei personaggi. La letteratura moralista e impegnata abiura invece il suo scetticismo e la sua esibita indifferenza morale, sebbene, dice Piovene, «inventare una grande favola sia forse l’atto più morale che esista»[14]. Il più ingente torto fatto all’autore e pero imputabile a quanti, non riuscendo ad accettare l’arte di Ariosto per ciò che è, hanno inserito nella sua opera valori inesistenti[15].
Nonostante, ancora alla fine degli anni Novanta, Cesare Segre si domandasse «perché l’Ariosto e sentito come sempre meno attuale?»[16], la situazione e radicalmente cambiata rispetto ai secoli di incomprensioni o svalutazioni segnalati da Piovene. Come sottolinea Stefano Jossa, l’Orlando furioso oggi funziona da «grande laboratorio narratologico per indagare il rapporto tra tempo e racconto»[17], poiché in esso Ariosto tiene sublimemente «insieme tempo della storia e tempo dell’individuo, cioè la complessità degli eventi simultanei e la singolarità delle vite individuali»[18]. Il ferrarese diventa quindi un modello di stile nella produzione letteraria e cinematografica tardo-novecentesca, soprattutto americana[19], e, contemporaneamente, un mezzo «per indagare il caos e la coincidenza, sul piano filosofico»[20] (ivi, p. 195).
Il presente volume tenterà di dare conto delle multiformi manifestazioni della vitalità ariostesca nella cultura italiana contemporanea in una serie fitta di autori, basandosi proprio sul doppio binario suggerito da Jossa: da un lato, verrà indagata l’influenza formale e narratologica di Ariosto, che si manifesta sia sotto forma di ripresa cosciente, sia attraverso fenomeni intertestuali più inconsapevoli; dall’altro, si segnaleranno le sottotracce della filosofia ariostesca, che sottende un mondo senza più confini, dominato dal caos, dalla combinazione e dalla reversibilità. Nell’Orlando furioso, ogni abbozzo di teleologia trova prima o dopo una brutale smentita e persino un astrologo che si è appena predetto una lunga vita e una morte serena può essere trafitto alla gola all’improvviso[21], durante la sortita notturna di due mori «d’oscura stirpe» (XVIII, 165, 2), tra i quali figura il giovinetto che provocherà inavvertitamente l’ottundimento del cervello del paladino Orlando.
Come si evince dall’incipit del canto VII[22], le ottave ariostesche costituiscono un patrimonio condiviso con una comunità di lettori colti, disillusi e capaci di instaurare con l’autore un patto narrativo fondato sull’accettazione divertita di fatti inverosimili. Riflettendo su questa disponibilità a fingere che l’impossibile sia possibile, Sergio Solmi ha indicato il romanzo cavalleresco come l’antecedente del genere della science fiction[23], mentre Sandro Parmiggiani[24] ha suggerito la parentela della saga ariostesca con l’odierno formato del serial televisivo. In effetti, ha esordito nel 2015 ed e tuttora in produzione una fiction rai in cui Claudio Santamaria e Claudia Pandolfi prestano il volto a due personaggi che si chiamano Orlando e Angelica[25]: al di là della trama infarcita di ovvietà televisive e delle solite trasmigrazioni attoriali da una produzione (scadente) a un’altra, rintracciare la presenza di un’eco ariostesca negli spettacoli più popolari del tubo catodico e un segnale della profonda incidenza del ferrarese sulla cultura contemporanea. Il recente cinquecentenario della prima edizione del Furioso ha confermato la crescente notorietà di Ariosto, finito addirittura sul profilo Twitter di Jovanotti in qualità di suo rapper preferito. «Forse qualcuno ha sentito che l’Ariosto oggi cade nel momento giusto»[26], direbbe Piovene. E il momento e giusto per tante ragioni: perché la serafica lontananza di Ariosto dallo spirito delle Crociate e la parificazione dei cristiani e dei saraceni lo rende un esempio di apertura verso un mondo extraeuropeo che gli attuali sconvolgimenti geopolitici hanno fatto balzare al centro delle cronache; perché riesce ad armonizzare le contraddizioni della propria società in una struttura formale dalle perfette geometrie, tentando di sottomettere il disordine storico alle istanze narrative; perché rifiuta ogni ripiegamento consolatorio o sentimentale e ogni retorica didascalica, in nome di una «utilità “non-esemplare»[27]; perché, pur ereditando una tradizione letteraria affollata da donne assenti e diafane, irride i vagheggiamenti cortesi, facendo rivendicare alle proprie eroine un modello più giusto e paritario di rappresentazione e trattamento dei sessi; perché indaga la vita nelle sue possibilità relazionali ed esperienziali, offrendo un’alternativa allo scavo psicologico e ai soliloqui di tanta narrativa novecentesca.
Ariosto, osserva Ferroni, «Bisogna provare ad ascoltarlo. Un contributo critico dovrebbe servire a farne vivere l’opera nel presente, pur in mezzo alle difficoltà che la letteratura, e soprattutto i grandi classici, trovano nella comunicazione attuale»[28]. L’obiettivo non è «costringerlo ad anticipare il nostro tempo nel suo, ma di riconoscere la sua presenza nel nostro»[29].
[1] L’edizione di riferimento è Ludovico Ariosto, Orlando furioso, a cura di E. Bigi, Rizzoli, Milano, 2012 (nuova ed. a cura di C. Zampese, introduzione e commento di E. Bigi).
[2] Robert Durling, Ariosto. La figura del poeta nell’epica rinascimentale, a cura di I. Campeggiani, Pacini, Pisa, 2017, p. 93.
[3] Theodor Adorno, Dialettica negativa, a cura di S. Petrucciani, trad. it. di P. Lauro, Einaudi, Torino, 2004, p. 326.
[4] Ivi, p. 330.
[5] George Steiner, Linguaggio e silenzio. Saggi sul linguaggio, la letteratura e l’inumano, trad. it. di R. Bianchi, Garzanti, Milano, 2006, p. 9.
[6] Italo Calvino, Introduzione a Una Pietra sopra, in Id., Saggi, a cura di M. Barenghi, Mondadori (i Meridiani), Milano, 1995, p. 8.
[7] Italo Calvino, Natura e storia del romanzo, in Id., Saggi, cit., p. 46.
[8] Italo Calvino, Tre correnti del romanzo italiano d’oggi, in Id., Saggi, cit., p. 75.
[9] Remo Ceserani, Ariosto, il moderno e il postmoderno, in “Horizonte”, IX, p. 28.
[10] Ibidem.
[11] Cfr. Italo Calvino, Tre correnti del romanzo italiano d’oggi, in Id., Saggi, cit., pp. 61-75.
[12] Iginio Ugo Tarchetti, Racconti fantastici, Lampi di stampa, Milano, 2003, p. 6.
[13] Guido Piovene, Il mondo senza confini dell’Orlando furioso, in “La Stampa”, 31 dicembre 1967.
[14] Ibidem.
[15] Mentre Piovene riconosce all’operazione calviniana il merito di aver riscattato Ariosto da questo articolato stuolo di biasimatori, un recente contributo di Stefano Jossa indica la “calvinizzazione” di Ariosto come una semplificazione non molto diversa (e non meno nociva) da quella attuata dalla critica crociana. Cfr. http://www.doppiozero.com/materiali/con-ariosto-senza-calvino.
[16] Claudia Berra (a cura di), Fra Satire e rime ariostesche. Atti (Gargnano del Garda, 14-16 ottobre 1999), Cisalpino, Milano, 2000, p. 5.
[17] Stefano Jossa, Coincidenze casuali e incontri possibili: Ariosto oggi, in “Versants”, LIX, 2, 2012, p. 194.
[18] Ivi, p. 196.
[19] Ivi, p. 195.
[20] I due principali riferimenti del saggio di Jossa sono Mystery Train, film del 1989 diretto da Jim Jarmusch, e il romanzo di David Lodge intitolato Small World: An Academic Romance (1984), conosciuto in Italia con il titolo Il professore va al congresso.
[21] Si fa riferimento al canto XVIII, quando il dormiente astrologo Alfeo viene freddato da Medoro e Cloridano: «Così disse egli, e tosto il parlar tenne, / et entrò dove il dotto Alfeo dormia, / che l’anno inanzi in corte a Carlo venne, / medico e mago e pien d’astrologia: / ma poco a questa volta gli sovvenne; / anzi gli disse in tutto la bugia. / Predetto egli s’avea, che d’anni pieno / dovea morire alla sua moglie in seno: / et or gli ha messo il cauto Saracino / la punta de la spada ne la gola» (XVIII, 174; 175, 1-2). Su questo e sugli altri personaggi del canto in questione sono intervenuta al I Convegno di Italianistica Il personaggio nella letteratura italiana (Isole Tremiti, 11-12 settembre 2017).
[22] «Chi va lontan da la sua patria, vede / cose, da quel che già credea, lontane; / che narrandole poi, non se gli crede, / e stimato bugiardo ne rimane: / che ‘l sciocco vulgo non gli vuol dar fede, / se non le vede e tocca chiare e piane» (VII, I, 1-6).
[23] Sergio Solmi, Introduzione, in C. Fruttero, S. Solmi, Le meraviglie del possibile. Antologia della fantascienza, Einaudi, Torino, 2014, p. XIII.
[24] Sandro Parmiggiani (a cura di), L’Orlando furioso. Incantamenti, passioni, follie. L’arte contemporanea legge l’Ariosto, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, 2014, p. 11.
[25] Si tratta di È arrivata la felicità, diretta da Riccardo Milani e Francesco Vicario.
[26] Guido Piovene, op. cit.
[27] Daniel Javitch, Saggi sull’Ariosto e la composizione dell’Orlando furioso, Maria Pacini Fazzi, Lucca, 2012, p. 104.
[28] Giulio Ferroni, Ariosto, Salerno Editrice, Roma, 2008, pp. 11-12.
[29] Stefano Jossa, Coincidenze casuali e incontri possibili: Ariosto oggi, cit., p. 207.
“ Giovedì 16 febbraio 2017 – « “ Creatura alata ideata da Ariosto “ “ Ippògrafo “ » (L’Eredità, Raiuno, ore 19. 09) “.
“E si ritroverà, anzitutto, I’Ariosto innamorato, perpetuamente innamorato […]: l’Ariosto, pel quale l’amore e la donna sono un grande affare, un piacere grande a cui non può rinunziare, un grato tormento da cui non si sa liberare. Quell’amore è sempre affatto sensuale, per una bella forma corporea, splendente negli occhi luminosi, lusinghiera, vezzosa; virtuosa anche, ma di una virtù relativa, quanto valga a non mettere troppo tossico nelle annodate relazioni d’amore; e perciò ogni idealizzamento etico o speculativo, alla stil novo o alla platonica, ne rimane escluso…”
Benedetto Croce, Ariosto, Shakespeare e Corneille, Bari, Laterza, 1929 pp. 31-32
https://youtu.be/AjAcrQSyCTw
” 8 marzo 1994 – Trent’anni fa, anzi, trentacinque, alla Biblioteca degli Intronati di Siena leggevo l’Ariosto di Croce. Non mi ricordo quasi niente, se non la primavera che colava dai vetri alti della sala di lettura, indorando le pagine, distogliendo lo sguardo. “
LA LEZIONE DI LUGOVICO ARIOSTO IN UN “IPPO-GRAFO” ….
Per non buttare tutto a mare (e a produrre ulteriore inquinamento), credo sia opportuno aprire (e non solo in primavera) le porte e le finestre alla immaginazione e, cum grano salis, cercare di distinguere tra cio che è vivo e ciò che è morto (non solo nella filosofia di Hegel ma anche) nella lettura di Benedetto Croce dell’opera dell’Ariosto e, addirittura, in noi (tutti e tutte), oggi.
Accogliendo con spirito di riconoscenza la preziosa memoria dell’ ippo-grafo (un lapsus, oso pensare, per dire della natura panto-grafica – cfr.: https://it.wikipedia.org/wiki/Pantografo_(grafica) – dell’ippo-grifo ariostesco) , forse, è possibile accedere meglio alla lezione dell’Ariosto, e, al contempo, comprendere le ragioni del suo legame con il “Sidereus Nuncius” (e non solo) di Galileo Galilei e con la lezione sulla creatività di Kant (si cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4977 ), e, ancora, con Italo Calvino e con noi (tutti e tutte), oggi.
P. S. : A disegnare un “ippogràfo”, è utile ricordare quanto emerso da una recente ricerca (“Nature Communications”) sui “cervelli impavidi”: nell’ippo-campo cellule nervose che azzerano la paura (sul tema, mi sia permesso, cfr.:
http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4829#forum3144798).
Federico La Sala