di Alberto Comparini
0. “In this paper I aim to discuss…”, al secolo, l’incipit di ogni saggio accademico scritto in lingua inglese, assimilabile, ormai, al “once upon a time” di fiabesca memoria. Chi scrive ha passato gli anni di dottorato negli Stati Uniti e ha vissuto sulla propria pelle questa meccanicizzazione analitica del linguaggio e della scrittura. Trovo questa prassi stilistica insopportabile, ma per certi versi efficace: in questo caso, scoprirete subito di cosa voglio parlare, cioè il reclutamento dei docenti universitari nelle università private di ricerca negli Stati Uniti. Se non ho capito male, in Italia (quasi) tutte le università sono di ricerca, il che mi permette di escludere, fortunatamente, i liberal arts college dalla mia analisi – i cui sistemi di assunzione sono completamente diversi da quelle delle università di ricerca.
Per farlo, partirò dalla pallacanestro americana. I sistemi di reclutamento della pallacanestro americana sono particolarmente affini, se non identici, a quelli di ogni organizzazione capitalista che punta all’eccellenza per formare la classe dirigente del futuro, produrre la migliore ricerca al mondo e fare soldi. Diversamente dal calcio europeo, le squadre di basket NBA (la lega professionistica di pallacanestro negli Stati Uniti) sono o ambiscono ad essere delle macchine da soldi: gli investimenti, umani ed economici, che una franchigia NBA fa sono luterani (o weberiani? chissà) e sono piegati alla ricerca dei migliori giocatori al mondo per poter vincere e fare ancora più soldi. Dopo quasi un lustro passato tra le università americane (quattro anni alla Stanford University come dottorando e sei mesi alla Columbia University come ‘visiting scholar’), il paragone tra basket e università, in termini di reclutamento, mi sembra particolarmente azzeccato. Questo intervento, sia chiaro, non ha un obiettivo specifico se non quello di far emergere pregi e difetti del sistema di reclutamento dei ricercatori nelle università americane di ricerca, e di metterli in rapporto a quello che succede in Italia. “I argue”, direbbe un finto anglofono come il sottoscritto, che invece di importare i difetti del sistema americano (la meccanicizzazione analitica dello stile; interpretare, malamente, il publish or perish, giusto per citare due esempi) bisognerebbe accogliere, con tutti i dubbi del caso, alcuni aspetti del reclutamento universitario statunitense, per evitare due fenomeni macroscopici: il dogma quantitativo della produzione scientifica (le mediane dell’ANVUR) e l’età media troppo alta dei ricercatori italiani.
1.Negli sport professionistici americani, ogni anno si verifica il cosiddetto draft (NBA per la pallacanestro, NFL per il football, MLB per il baseball, MLS per il calcio), un evento durante il quale le squadre di ogni lega scelgono nuovi giocatori provenienti, per la maggior parte, dal college e da altri paesi non-statunitensi (semplifico, non siate cattivi).
Il Draft NBA è per definizione una scienza non-esatta e segue un sistema di selezione molto organizzato: ci sono due giri, per un totale di 60 giocatori; “i primi posti (nel quale vengono scelti i giocatori migliori) sono delle 14 squadre che non si sono qualificate ai playoff nella stagione precedente. Queste squadre partecipano ad un sorteggio che determina l’ordine di scelta. Gli altri 16 posti nel draft sono riservati alle squadre che si erano qualificate ai playoff. L’ordine di scelta tra questi 16 è determinato dal rapporto fra vittorie-sconfitte nella stagione precedente, andando dal peggiore al migliore. Quindi la squadra che ha vinto la regular season (che non è necessariamente quella che ha vinto il titolo) sceglie per ultima. Si tratta di un sistema profondamente democratico che permette a chi perde sempre di poter ricostruire la propria squadra partendo da uno dei migliori giovani in circolazione.
Le squadre che scelgono i giocatori durante questo evento seguono almeno tre principî: scegliere il miglior giocatore disponibile, scegliere il giocatore con più potenziale, scegliere il giocatore più pronto. Il ventaglio delle possibilità è amplissimo e spesso i direttori sportivi (GM) passano alla storia dal lato sbagliato. Esempio: tutto il mondo conosce Michael Jordan. Senza entrare in questa inutile discussione, generalmente Jordan è riconosciuto come il giocatore più forte della storia. Ecco, al draft del 1984, Jordan fu scelto al numero 3 dai Chicago Bulls, mentre al numero 2 fu scelto dai Portland Trail Blazers lo sfortunatissimo Sam Bowie, il cui nome, immagino, non vi dirà nulla. Durante la tenure di Jordan, i Bulls hanno vinto sei titoli NBA, i Blazers nessuno (il loro unico titolo NBA risale al 1977, vinto grazie a Bill Walton, non a caso, prima scelta al draft del 1974). I Blazers avevano già un giocatore – come tipologia, non come talento – simile a Jordan, Clyde Drexler (scelto al Draft precedente, 1983), e avevano bisogno di un lungo (Bowie): il miglior lungo del draft 1984, quello con più potenziale e quello più pronto era Hakeem Olajuwon, che sarà scelto al numero 1; al numero due, dunque, I Blazers dovevano scegliere Bowie. Il resto è storia.
In linea di massima, quando devono scegliere un giocatore al draft, gli Scout NBA applicano un principio matematico, che nell’era delle analytics è diventato ufficialmente il paradigma interpretativo di ogni scelta: floor and ceiling, le basi di partenza di un giocatore (floor) e il potenziale massimo che un giocatore può raggiungere (ceiling). Di nuovo, si tratta di una scienza non-esatta ed è successo, e succede ancora, che una squadra NBA che sceglie al Draft selezioni un atleta che per varie ragioni, non necessariamente tecniche, passerà alla storia come bust, un fallimento, un disastro, un bidone. Secondo la classifica di NBC Sports, Sam Bowie è il più grande bust della storia della pallacanestro.
2. I sistemi universitari americani e italiani sono abbastanza simili: ci sono tre gradi di docenza, ricercatore (assistant professor), professore associato (associate professor) e professore ordinario (full professor). In mezzo ci sono altre categorie, come l’adjunct professor, quello che in Italia dovrebbe chiamarsi ‘docente a contratto’: si tratta di posizioni temporanee, rinnovabili, ma pur sempre precarie, su cui si basa la maggior parte della didattica, sia in Italia sia negli Stati Uniti. Interessante, infine, è l’esistenza di due tipi di ricercatore in Italia: ricercatore A (a tempo determinato, 3+2) e ricercatore B (anche questa a tempo determinato, ma se il ricercatore è in possesso dell’Abilitazione Scientifica Nazionale (ASN) di seconda fascia – un titolo che viene conferito ai candidati da una commissione nazionale – alla fine del contratto il ricercatore diventa professore di seconda fascia, cioè associato). Anche negli Stati Uniti questa bipartizione esiste: il ricercatore A si chiama, in gergo, non-tenure track assistant professor; quello B, tenure track assistant professor. Negli Stati Unti non esiste l’ASN, ma alla fine dei 6 anni di contratto, i ricercatori di tipo B sono valutati da una commissione esterna di n docenti che valuta il profilo del candidato e decide se merita di diventare associate professor. Il quadro è chiaramente più complesso, ma ai fini del mio discorso queste definizioni sono più che sufficienti; e dato che mi soffermerò esclusivamente sul ricercatore di tipo B e sugli aspetti migliori che si potrebbero importare in Italia, evito di annoiarvi ulteriormente.
Il reclutamento di ricercatori di tipo B presso le università americane di ricerca segue più o meno lo stesso principio del draft NBA, con la differenza che le migliori università americane cercano i giovani più promettenti, quelli con più potenziale o semplicemente quelli migliori. Insomma, vince sempre la legge del più forte.
Il sistema comporta dei grossi rischi, dato che le commissioni – sempre interne –, il dipartimento e le facoltà tendono a guardare più al potenziale dei candidati – ciò che riusciranno a produrre, in termini di qualità, di novità e di impatto, nei successivi sei anni – che al profilo di base. Il margine di errore viene comunque eliminato alla fine dei sei anni (o anche dopo tre anni durante la prima review del ricercatore): se il candidato è un bust o non ha dimostrato di essere abbastanza bravo/promettente, gli viene gentilmente comunicato che non verrà confermato come associato; in questo caso, di solito viene garantito un altro anno di contratto affinché il candidato possa avere un minimo di stabilità per tornare sul famigerato job market.
Una curiosità: in linea di massima, gli house candidates – i candidati interni – non esistono; anche quando un dipartimento di matematica ha un dottorando che tra qualche anno vincerà la medaglia Fields, il dipartimento in questione non terrà il candidato, ma sarà felice di lasciarlo approdare in un’altra università. Ragioni? Infinite, immagino, e vanno da un desiderio idealistico di circolazione dei saperi e del miglioramento complessivo delle università, alla produzione/diffusione capitalistica del marchio universitario: “i nostri candidati sono i migliori e vincono i migliori posti al mondo”.
La procedura di valutazione alla fine dei sei anni è lunga ma, secondo gli standard americani, limpida: una commissione esterna di n docenti deve valutare le pubblicazioni del candidato, scrivendo una lettera dettagliata sull’impatto e sulla qualità dei lavori presi in esame; queste lettere andranno poi a fare parte di un dossier più ampio (corsi insegnati, valutazioni degli studenti, attività amministrativa in dipartimento, borse di ricerca, donazioni, premi accademici et cetera) che verrà valutato dal dipartimento e dalla facoltà di riferimento. In un mondo ideale, limpido secondo gli orizzonti americani, un candidato bust viene bocciato. Il bust fa male al sistema, soprattutto all’immagine del dipartimento e dell’università, e mina gravemente la credibilità dei docenti che hanno selezionato o deciso di tenere un bust nel proprio dipartimento.
Esempio NBA: Mario Hezonja era stato scelto al numero 5 nel Draft 2015 dagli Orlando Magic; il suo contratto era di 4 anni, di cui l’ultimo ‘non garantito’ grazie alla ‘Team Option’: se una squadra non è contenta del rendimento di un giocatore scelto al draft, il contratto non gli viene rinnovato e alla fine del terzo anno il giocatore in questione può andare giocare dove vuole. Hezonja è un giocatore dal potenziale notevole ma non lo ha espresso nei suoi primi tre anni NBA; i Magic erano scettici e lo hanno lasciato libero. Come sempre, gli americani sono molto diretti e pragmatici: quando ti selezionano, credono che tu sei una superstar e fanno di tutto per convincerti ad accettare la loro offerta. Se produci e meriti di giocare per i Lakers (o essere associato ad Harvard), ti tengono, altrimenti ti mandano via. Questo vale, come sempre, nel mondo delle idee: nel basket, come all’università, si commettono sempre errori, ma di base, per quanto mi riguarda, trovo questo principio molto intelligente.
3. Torniamo all’università. Il ceiling è fondamentale, ma ciò non toglie che anche il floor abbia un peso nella valutazione dei candidati. Di solito le pubblicazioni che un candidato ha al momento del colloquio non contano per la eventuale conferma come associate professor: durante il mio dottorato ho assistito a numerose job search (i bandi per l’assunzione di ricercatori). I dottorandi (avanzati), quantomeno all’Università di Stanford, partecipano agli incontri e alle lezioni svolte dai candidati, e talvolta fanno anche parte della commissione di valutazione per assistant professor in varie discipline (lingue e letterature straniere, letterature comparate, lettere classiche, economia, fisica e matematica) e i candidati raramente avevano delle pubblicazioni. Non avendo mai fatto parte di una commissione, non ero/sono a conoscenza di eventuali lavori in fase di pubblicazioni o valutazione presso riviste o case editrici – cosa abbastanza comune, in ogni disciplina, a causa dei tempi e delle modalità (spesso assassine) della famigerata double-blind peer-review delle riviste americane.
Sempre grazie alla pallacanestro, sono diventato membro della squadra di basket del dipartimento di Economia di Stanford, il che mi ha permesso di sentirmi nuovamente una star di basket (vi lascio immaginare il livello) e di comprendere le logiche di mercato del sistema universitario americano. Veniamo, dunque, a un case study. Mi piace pensare di essere diventato un esperto di Economia dopo gli anni di apprendistato a Stanford: mentre mi sono ancora assai oscure le leggi che regolano il mercato del lavoro delle scienze umane, così come i criteri di selezione di rivista come «Poetics Today» o «Critical Inquiruy», ammetto di conoscere piuttosto dettagliatamente il mercato del lavoro di Economia e i criteri di selezione di «American Economy Review».
Il job market candidate di Economia – così si legge, tristemente, nei profili dei dottorandi al quinto/sesto anno– si presenta all’annuale convention di Economia (job fair) con un CV privo di pubblicazioni sulle migliori riviste del proprio settore (se non in casi eccezionali) e con una lista piuttosto lunga di borse di studio presso enti pubblici e privati. Il candidato viene considerato forte per tre motivi: Università di provenienza, cioè dove il candidato ha fatto il dottorato di ricerca; credibilità di chi scrive le lettere di presentazione (sul concetto di credibilità si potrebbe aprire una discussione infinita); qualità del job market paper, ossia del progetto più importante che il candidato intende sviluppare durante gli anni da assistant professor.
Il candidato di letteratura inglese o letteratura latina nelle Università americane non è troppo diverso da questo profilo: da agosto nel dipartimento di lettere classiche dell’Università di Stanford c’è un nuovo ricercatore di letteratura latina; il CV presenta una lunga lista di borse di studio, 0 pubblicazioni, 4 articoli in progress e un progetto di libro che, immagino, sarà la rielaborazione della tesi di dottorato. I meccanismi di assunzione e conferma sono pressoché simili, anche se nelle scienze umane, anche a causa della crisi economica globale, altri fattori, non necessariamente legati al mondo della ricerca, hanno un impatto molto forte sull’assunzione sulla conferma dei nuovi ricercatori.
Ciò che accomuna questa serie di profili è, a mio modo di vedere, il potenziale della ricerca (sui cui francamente non posso dire molto) e la giovane età (a meno che il candidato in questione ci abbia messo più tempo del previsto a laurearsi o a conseguire il dottorato, o che semplicemente abbia fatto dell’altro prima di intraprendere questa carriera). Un sistema che ti offre sei anni per lavorare fondamentalmente a uno, massimo due progetti, permette al candidato in questione di puntare, nel mondo delle idee, alla massima qualità possibile; l’ansia della valutazione alla fine dei sei anni raggiunge livelli notevoli, ma, sempre nel mondo delle idee, se il candidato ha fatto tutto quello che era necessario fare, la conferma non è un miraggio. Non mancano i casi di tenure negate a ottimi candidati, soprattutto nelle scienze umane, ma di nuovo, questa non è una scienza esatta, bensì un modello che mira, in questo fantomatico mondo delle idee di matrice americana, alla qualità: tre articoli pubblicati in sei anni su «American Economy Review» o «Quarterly Journal of Economy» valgono molto di più di quindici articoli pubblicate su riviste di media/buona qualità; zero pubblicazioni e una tesi di dottorato che diventerà, in meno di sei anni, un libro fondamentale per il proprio campo di studi – rispetto a candidati che nel CV hanno quattro libri e cinquanta articoli –, permetteranno al candidato in questione di vincere, per esempio, la più prestigiosa (?) borsa di post-doc al mondo, quella della Harvard Society of Fellows.
Considerazione personale. Per almeno tre anni di dottorato, applicavo il principio del ‘chi pubblica ha ragione’, e confidavo che la mia produttività mi avrebbe garantito la stima dei miei relatori e un posto da qualche parte – ad esempio, di essere nominato dal mio relatore per la Harvard Society of Fellows. Questa cosa (giustamente) non è successa e mi sono accontentato di vincere una borsa di post-doc in Germania. Ricordo di aver cenato una volta con alcuni dottorandi del dipartimento di inglese e di aver chiacchierato per un’ora abbondante con una ragazza che, da lì a un anno, avrebbe vinto questa borsa di Harvard. Persona squisita, dotata di rara intelligenza e di un CV pressoché vuoto: aveva solo un articolo pubblicato su «Narrative», tutto qui. “Impressive,” come dicono gli americani, ma senza alcun tipo di retorica: quella ragazza è un genio.
In questi casi, bisogna sospendere il (pre)giudizio (zero pubblicazioni = candidato acerbo) e accettare di poter/dover valutare un giovane ricercatore (junior professor) lungo una scala temporale di sei anni. Tutti commettiamo errori di valutazione; l’importante è esserne coscienti e decidere di rimediare, cercando di valutare, nella maniera più oggettiva possibile, i candidati, puntando, nel mondo delle idee, al vertice della ricerca.
4. Tornato in Italia alla fine del dottorato, dopo un anno di docenza a contratto in letterature comparate presso l’Università di Verona e prossimo a iniziare la mia von Humboldt Fellowship in Romanistica presso la Freie Universität di Berlino, con una certa incoscienza ho fatto domanda per l’Abilitazione Scientifica Nazionale in due discipline. Questo processo mi ha ricordato, per certi versi, la valutazione esterna che n docenti fanno per confermare o bocciare un ricercatore B negli Stati Uniti. È molto probabile che non tutti i dottori di ricerca in Economia usciti da Stanford vengano confermati come associati nelle Università dove sono stati assunti (Chicago, Yale, Princeton); ma è possibile che, qualora venissero confermati nei rispettivi dipartimenti, questi docenti non avrebbero le mediane per ottenere l’ASN nei rispettivi settori. Il che mi porta a riflettere su almeno due punti: 1) sul rapporto qualità/quantità della ricerca che il sistema di reclutamento e di valutazione italiano impone – sistema mutuato, a quanto pare, dal modello anglofono; 2) sull’età di entrata dei ricercatori all’università.
Si può abbracciare o meno questa logica di mercato, ma al di là di giudizi di valore sul sistema e sulla qualità della ricerca prodotta, mi sembra che il punto 2) possa/debba mettere d’accordo tutti: ci si lamenta, giustamente, del precariato e dell’età media altissima dei docenti universitari. E l’età, a sua volta, diventa a suo modo un discrimine: seguendo i criteri di selezione attuali, chi ha scritto “solo” un libro – notevole per qualità, metodologia, impatto e originalità – non può competere con chi ha già due, tre o quattro libri. Sono abbastanza convinto che si possano pubblicare diversi lavori di grande qualità anche in giovane età – conosco almeno due miei coetanei (classe 1988) che hanno pubblicato un libro formidabile e che sono dei fuoriclasse. Diversamente, il dottorando americano (o di formazione americana) spesso non pubblica subito per due ragioni: 1) non è pronto; 2) di solito le pubblicazioni fatte prima di essere assunto come ricercatore non vengono prese in considerazione per la conferma da associato (quindi non conviene).
Mi avvio alla conclusione, che in realtà vorrebbe essere semplicemente l’inizio di una discussione più ampia: puntare sul ceiling è una scommessa vincente sia sul piano sociale (lotta al precariato, radicale abbassamento dell’età media dei ricercatori) sia sul piano accademico (obiettivo: un numero ragionevole di titoli e altissima qualità, nel mondo delle idee). In un paese come l’Italia dove la scuola e l’università forniscono agli studenti un livello di preparazione che in altri Stati si raggiunge molto più tardi, e quindi un accesso più precoce al mondo della ricerca, nella valutazione dei candidati il floor dovrebbe essere il punto di partenza, e non il giudizio definitivo. Oppure no?
La verità, come sempre, sta in mezzo: puntare esclusivamente sul ceiling è molto pericoloso, nonostante tutte le precauzioni che i dipartimenti si prendono prima di confermare un ricercatore; sebbene io abbia sospeso il giudizio, certe conferme da associato in territorio statunitense mi hanno lasciato molto, molto perplesso, così come sono rimasto esterrefatto di fronte a tenure negate. D’altra parte, il publish or perish italofono crea situazioni dove ottimi candidati con poche ma decisive pubblicazioni nel proprio settore non possano competere con altri ottimi studiosi che, per un fattore puramente anagrafico, hanno più titoli. Mentre comprendo (ma faccio molta fatica ad accettare) l’idea del ceiling, non riesco a cogliere appieno la logica quantitativa, benché l’abbia accettata fin dalla laurea magistrale.
Bellissimo articolo, molto istruttivo e ben scritto…
Personalmente credo che e’ l’idea di concorso che debba essere accantonata, e’ un sistema imperfetto, farraginoso e non seleziona i migliori. Va abolito e questo ci allineerebbe al resto del mondo. oltretutto e’ cosi’ pieno di regolamenti che al momento dell’invio della domanda si producono un mare di documenti/dichiarazioni ecc solo per dimostrare di non stare mentendo su cv, titoli e pubblicazioni… ma stiamo scherzando?
La burocrazia è l’ostacolo principale da combattere, ma non penso che l’abolizione dei concorsi sia una soluzione. Semplificazione, questo sarebbe un ottimo punto di partenza per rendere più efficiente il sistema. Non penso che quella marea di carte da firmare e l’utilizzo di centesimi e punti per ogni cosa che comprare sul cv siano gli indicatori migliori per valutare il profilo di un candidato.
Per almeno tre anni di dottorato, applicavo il principio del ‘chi pubblica ha ragione’, e confidavo che la mia produttività mi avrebbe garantito la stima dei miei relatori e un posto da qualche parte – ad esempio, di essere nominato dal mio relatore per la Harvard Society of Fellows. Questa cosa (giustamente) non è successa e mi sono accontentato di vincere una borsa di post-doc in Germania.
direi che la questione sta condensata tutta in questo passaggio. Non quella del reclutamento universitario, tema tutto sommato secondario del testo: quella di chi scrive, vero oggetto di trattazione, e in fondo anche di amore, nella forma di un onesto, ammirevole narcisismo. Un tratto comune a molti studiosi della nostra generazione, e che è in effetti ciò che, mi viene da sospettare, permette di mantenersi facendo ricerca. Per scrivere un progetto che poi venga accettato da una commissione, bisogna anzitutto “crederci”.
Da questo come da tanti altri pezzi dei miei coetanei, mi appare chiaro che, in quanto abituati alla narrazione narcisistica di sé coltivata gelosamente fra Facebook, Instagram e lettere motivazionali, siamo, me compreso in qualche misura, una generazione di persone che crede molto (anche troppo) a quello che fa, anche quando usa l’ironia – apparentemente per sminuirsi e destrutturare, in realtà per indirizzare un altro faretto su di sé.
Si sta formando una classe di ottimi studiosi, agguerriti, preparati, competenti: ma proprio per questa fiducia sovrastante nei propri mezzi e nel contesto di lavoro in cui agevolmente ci troviamo a competere e produrre, io credo che sarà sempre più difficile fare i critici. Al più, si farà appunto autobiografia: e aprire bocca, o sciogliere le dita, per fare un discorso critico, ideologico sul presente sarà sempre meno utile.
@ Giacomo
Per cambiare l’attuale sistema dei concorsi e/o abolire le forme di impiego nel settore pubblico in Italia così come le conosciamo bisogna cambiare la Costituzione. Non se ne vede l’ora di stracciare la carta e allinearsi al resto del mondo!
LA COSTITUZIONE, LA COSTITUZIONE! SUL “NUOVO” PROBLEMA, ALCUNi “VECCHI” APPUNTI …
lL “LOGO” DELLA SAPIENZA, L’UMANITA’, E L’ACQUA. PAESE IMPAZZITO: FORZA “CHE RùBINO” TUTTO E TUTTI !!!
PER IL “logo” della “SAPIENZA” DI ROMA, UN APPELLO AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA!!:
http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=1213
Federico La Sala
Si può sapere qual è l’articolo geniale su “Narrative”?