di Mauro Piras

 

Oggi inizia la scuola per le ultime sette regioni ritardatarie, esclusa la Puglia (che inizia il 20!), e il Ministro inaugura il nuovo anno scolastico. Si può dire quindi che ricomincia la scuola, a tutti gli effetti. E non bene. Intanto per questo ritardo: siamo finiti alla seconda metà di settembre, prolungando l’agonia di un’estate che non finisce mai, con bambini e ragazzi irrequieti in casa, oziosi, annoiati, e genitori che hanno mille altre cose da fare, soprattutto (guarda un po’) lavorare, visto che le ferie sono finite da un pezzo. Con questi inizi di anno scolastico sempre più ritardati, negli ultimi tempi, sembra che si voglia tornare ai “remigini”, quando la scuola riprendeva il primo ottobre. Si sa, agli italiani piace guardare indietro, agli anni sessanta, settanta o giù di lì, cullandosi nella contemplazione dell’età dell’oro. E invece la rigidità di questa scansione dell’anno scolastico non regge più: non ha più senso concedere agli studenti un’estate lunghissima di vacanze, non ha più senso comprimere tutte le attività didattiche in lunghi periodi senza interruzioni tranne Natale e Pasqua. Entrambe le cose sono didatticamente disastrose per i ragazzi socialmente più fragili, che non godono in famiglia di costanti stimoli culturali, che non possono essere sostenuti quando sono in difficoltà. Molto meglio sarebbe iniziare prima, finire dopo, e in mezzo fare più spesso delle interruzioni che permettano a tutti, docenti e alunni, di riprendere il fiato, di riordinare le idee, e anche di studiare con un po’ di calma. Per esempio, fare una settimana di interruzione ogni sei settimane di didattica. Ma si sa, per l’inossidabile tradizionalismo italiano queste sono utopie.

 

Poi, inizia male per la solita, sempre più incomprensibile, disorganizzazione amministrativa. Come sempre, ci sono tantissime scuole che non sanno ancora quali docenti avranno, perché in molte regioni non si sa quali sono le cattedre disponibili per le supplenze; e poi arriveranno le famigerate assegnazioni provvisorie, che per carità di patria non spieghiamo qui ai profani. Si dirà: si è visto ben di peggio, nel 2015 e nel 2016. Ma quelli erano anni eccezionali, segnati da operazioni di assunzioni in ruolo e di trasferimenti massicce, del tutto straordinarie. E comunque quei ritardi e quella confusione erano condannabili e lo sono stati, giustamente. Ma in un anno del tutto normale, che cosa giustifica questi ritardi? Niente, se non la solita inefficienza della nostra amministrazione. Ma anche qui, mettersi contro la pubblica amministrazione “è da neoliberisti”, se si parla seriamente; va bene solo negli sfoghi al bar o su facebook.

 

Infine, inizia male per le numerose dichiarazioni del nuovo Ministro, che mostrano, più che una nuova visione della politica scolastica, l’intenzione di dare dei contentini ai gruppi che si sono lamentati delle riforme precedenti. Un po’ come per buona parte della politica del nuovo governo. Gli atti concreti, prima delle dichiarazioni: con il decreto “Milleproroghe” (aberrazione già condannata con toni durissimi, a ragione, dai Cinquestelle; ma erano altri tempi) è stata prorogata la possibilità di iscrivere i bambini e i ragazzi nella scuola dell’obbligo anche senza avere fatto i vaccini obbligatori, ma con una autocertificazione; inoltre, la partecipazione ai test Invalsi in quinta superiore e all’alternanza scuola-lavoro non sono più requisiti per accedere all’esame di maturità. Sia la prima che la seconda decisione sono del tutto contraddittorie, nel quadro attuale.

 

Sui vaccini abbiamo visto l’inverosimile balletto di decisioni e controdecisioni: prima due Ministri (Istruzione e Salute) hanno fatto una circolare che sostituiva l’obbligo con l’autocertificazione, salvo poi accorgersi che una circolare è inferiore a una legge nella gerarchia delle fonti, e quindi correggere il tiro con un emendamento al Milleproroghe che rinviava l’obbligo di un anno. La protesta sollevata da questa mossa ha portato il governo a fare marcia indietro, tornando all’idea dell’autocertificazione, coperta questa volta dal voto parlamentare. Nel frattempo la scuola è già iniziata in molte regioni, e genitori e presidi non sanno che cosa devono fare. Tutto questo perché? Per dare una – minima – soddisfazione alla parte “no vax” dell’elettorato grillino, sapendo che in realtà non si più fare molto di più.

 

Le modifiche al nuovo esame di maturità fanno altrettanto. Va ricordato che a partire da questo anno scolastico, 2018-19, entra in vigore l’esame di stato del secondo ciclo riformato dalla cosiddetta “Buona scuola”. Non analizzo le novità, perché qui si parla solo di due aspetti del tutto formali: per essere ammessi all’esame, tra i requisiti formali ci sono anche l’aver partecipato alle prove Invalsi del quinto anno (che vengono introdotte per la prima volta quest’anno) e l’aver svolto l’alternanza scuola-lavoro. La norma del nuovo governo abolisce questi requisiti. Sui test Invalsi, l’unica ragione può essere che il governo li ritenga inutili. Tuttavia, non li abolisce, li rende non obbligatori per l’iscrizione all’esame, tutto qui. Sull’alternanza, la cosa è ancora più confusa: il governo sostiene che va mantenuta, benché rivista, ne abolisce l’obbligatorietà come requisito per l’iscrizione all’esame, ma non ne abolisce l’obbligatorietà nel curriculum dello studente, né ha intenzione di farlo. Insomma, l’alternanza non è obbligatoria per l’esame, ma è obbligatoria durante l’anno. Che cosa vuol dire? Niente, solo che, abolendo un obbligo formale che non impegna, si dà un contentino a tutti quelli che hanno votato M5S perché volevano l’abolizione dell’alternanza. E non l’avranno.

 

Altri atti concreti: il concorso straordinario per i maestri diplomati, cioè per tutti quelli che hanno il diploma magistrale precedente all’a. s. 2001-02 e che, non essendo inseriti nelle Graduatorie a esaurimento, non hanno diritto ad avere un posto se non passando un concorso, come i loro colleghi più giovani laureati in Scienze della formazione primaria. Sempre per carità di patria non sto a riepilogare la vicenda surreale per cui sono invece stati inseriti nelle Gae da sentenze del Tar, alcuni di loro sono stati immessi in ruolo, e poi il Consiglio di Stato ha smentito tutto, per cui dovrebbero trovarsi di nuovo disoccupati. Per chiudere la faccenda, si fa un finto concorso che è una sanatoria, creando nuove graduatorie “a esaurimento”.

 

Da questi pochi atti concreti, possiamo passare alla dichiarazioni, numerose invece. Sul nuovo esame di maturità: l’intenzione è di modificarlo in corsa, ad anno scolastico già iniziato, perché si vuole “tornare” a un esame fondato sulla conoscenza delle singole discipline. Nulla di più preciso, se non che si vuole togliere dal colloquio la relazione sull’alternanza scuola-lavoro. Un progetto che sembra nascere solo dall’intento di smontare la politica precedente, senza andare a vedere nel merito che cosa c’è di positivo. E senza porsi domande sulla confusione che sta già creando questa incertezza, a scuola iniziata o quasi.

 

Sulle prove Invalsi: a quanto pare non vanno bene, non sono adeguate, bisogna trovare altri strumenti per misurare gli apprendimenti. Tutto molto vago. Invece di lavorare sulle diseguaglianze che le prove Invalsi ci rivelano, non solo tra macroregioni e tra regioni, ma anche tra ordini scolastici, tra classi all’interno delle scuole stesse ecc., e di rafforzare e migliorare questo strumento, si fanno dichiarazioni vaghe che lo delegittimano. Senza impegno però. Senza dire nulla di preciso. Per dare soddisfazione a che vuole abolire le prove Invalsi, poi si vedrà.

 

Ma molto più irresponsabili sono le dichiarazioni sui concorsi per i docenti. Fin dal “Contratto di governo”, Lega e Cinquestelle hanno dichiarato che il sistema dei concorsi va riformato, per garantire un reclutamento su base regionale o provinciale, e per vincolare maggiormente i docenti alle proprie sedi. Fin qui nulla di male, è una visione politica chiara, coerente con le posizioni passate della Lega (che a quanto pare ha messo il cappello sulla politica scolastica, estromettendo il M5S). È però piuttosto fastidioso pensare che il sistema di reclutamento dei docenti è stato appena riformato, che c’erano dei concorsi avviati o previsti a breve e che i danni più gravi la scuola li subisce sempre dall’incertezza normativa, dal cambiamento continuo delle regole in corsa. Queste dichiarazioni del “Contratto di governo” facevano preludere al solito rovesciamento disordinato delle regole, con la conseguente confusione che tutti conosciamo dalla storia della scuola. Già questo bastava. Ma il seguito è stato peggiore.

 

Il Ministro ha “congelato” due concorsi già calendarizzati entro fine 2018, per i docenti di ruolo. E ha fatto una serie di annunci su quello che vuole fare. Annunci vaghi, ma abbiamo capito quanto segue: 1) la normativa in vigore dalla primavera del 2017 verrà sicuramente abrogata e verrà creato un nuovo sistema, alla faccia della stabilità normativa, della certezze del diritto e della regolarità del reclutamento; tutti i giovani laureati che si sono procurati i famigerati 24 crediti universitari in “discipline antropo-psico-pedagogiche e in metodologie e tecnologie didattiche” in vista del concorso si stanno chiedendo perché l’hanno fatto; 2) il nuovo sistema prevederà concorsi su base provinciale solo dove servono posti, e cercherà di vincolare i docenti alle sedi; coerente con il “Contratto”, ma non molto chiaro, e soprattutto: buona fortuna per il secondo punto, nessuno ci è mai riuscito; 3) la sorpresa arriva alla fine: il Ministro ha dichiarato che non servirà più l’abilitazione per accedere al concorso per l’insegnamento, qualsiasi laureato potrà farlo.

 

Una dichiarazione irresponsabile. Ormai in tutti i paesi lo schema per accedere all’insegnamento è laurea-abilitazione-concorso, con combinazioni diverse, per struttura e per priorità. Ma ci vogliono tutti e tre gli elementi, non basta la laurea disciplinare, ci vuole una qualche specializzazione che formi per l’insegnamento. E questo è del tutto sensato, perché la scuola che abbiamo di fronte adesso è realmente di massa, anche nelle scuole superiori, anche nei licei, e insegnare a studenti di origini e competenze molto eterogenee è difficile, richiede preparazione e motivazione: un percorso ad hoc serve per garantire entrambe, altrimenti l’insegnamento continua a essere un ripiego (come è stato per molti), una seconda scelta, che si poteva fare sulla base dell’assunto “se conosco la mia materia basta, per insegnare mi arrangio”. Questo sembra tanto più possibile per le superiori, e invece è proprio una causa profonda dei nostri guai: la dispersione scolastica si concentra alle superiori, soprattutto nel biennio, anche perché ci si è illusi che, arrivati a quel livello, il lavoro sulla relazione didattica diventi secondario, rispetto al ruolo fondamentale che ha, evidentemente, nella scuola elementare. Invece la relazione didattica è fondamentale sempre, e finché la società, tutta intera, non accetterà l’idea che un docente delle superiori ha molto da imparare da un docente della primaria, e non il contrario, allora la nostra scuola secondaria continuerà a fare acqua da tutte le parti. Invece il ministro Bussetti rovescia tutto questo, legittimando il senso comune tradizionalista che domina in Italia. Sostenuto purtroppo in questo da una incomprensibile recente sentenza del Consiglio di Stato che vorrebbe autorizzare i docenti senza abilitazione ma con il dottorato ad accedere ai concorsi con un ragionamento di questo tipo: “se il dottorato permette di insegnare all’università, a fortiori permette di insegnare nelle scuole superiori, che sono inferiori alla prima”. Quindi chiunque insegna in un ordine di istruzione “superiore” a un altro (“superiore” perché viene dopo nell’età dei discenti, argomento notevole) può insegnare in tutti quelli “inferiori”; quindi chi insegna filosofia nei licei può tranquillamente insegnare italiano alle elementari, per esempio. Facciamo la prova, e vediamo quanto sono contenti i bambini e i genitori. Questo modo di ragionare, questo modo di considerare inutili le competenze didattiche e la motivazione all’insegnamento, sono il solito retaggio del più ottuso tradizionalismo culturale italiano: quello che conta è il sapere umanistico, il sapere “superiore”, la “cultura”, se hai quello puoi fare qualsiasi cosa. E questo è, per la scuola, ma anche per tante altre cose, l’anticamera del dilettantismo. Sia il ministro che il Consiglio di Stato ci stanno dicendo che non serve a nulla formare gli insegnanti, e che non ha nessuna importanza se a insegnare vanno persone che prima volevano fare altre cose, e poi hanno ripiegato sulla scuola perché non hanno avuto successo. Anche qui, si torna all’età dell’oro, all’epoca in cui si entrava in ruolo senza sforzo, con sanatorie di ogni genere, e la scuola era una sorta di cassa integrazione permanente.

 

Con quel tanto di brivido in più, però. Perché subito dopo le dichiarazioni di Bussetti, il senatore Pittoni, presidente della Commissione Istruzione e responsabile scuola della Lega, le ha smentite, derubricandole a “voci fatte circolare”. Sorvoliamo sulla confusione costante a cui ci ha abituato questo governo, e sul fatto che quello che dice un ministro ha il valore di “voci”. Resta che la scuola inizia in una grande incertezza anche su questo fronte, che come sempre chi lavora nella scuola deve fare i conti con l’instabilità progettuale, politica e normativa. Resta che l’Italia si compiace nel guardare all’indietro e nel chiudere gli occhi di fronte ai problemi reali di una modernità complessa, dell’istruzione di massa, degli imperativi di una scuola democratica.

 

(Firenze, 16 settembre 2018)

4 thoughts on “Ricomincia (male) la scuola

  1. Non molto d’accordo. Vivo in Francia e come dimostra la ben più forte divisione in classe qui vigente le vacanze di due mesi non risolvono il problema, il quale sarebbe piuttosto che i genitori lavorano sempre più a lungo e in modo sempre più frammentario. Risolvere la questione scuola partendo dalla scuola è un’assurdità, bisogna partire alla società. E non vale solo per la scuola: una civiltà dove due genitori lavorano, producono e inquinano 8 ore al giorno ci si chiede come possa pretendere di salvare il pianeta.

  2. Piras come sempre da antologia. Sacrosante, tra le altre, le osservazioni sul fatto che chi insegna al liceo o all’università non è certo in grado – come per magia – di insegnare anche alle scuole medie o alle elementari. Ci sarebbe bisogno di dirlo se ci trovassimo in un paese minimamente civile e autoconsapevole? Da modesto insegnante mi vergogno di tutto questo, tremendamente. E non tocco neppure la questione dei vaccini: uno degli spettacoli più raccapriccianti che abbia mai visto in vent’anni e passa di età della ragione.

  3. Un paio di annotazioni: andrebbe specificiato che migliaia di posti scoperti quest’anno sono dovuti ai ritardi inammissibili con cui si stanno svolgendo i colloqui per il “concorso” non selettivo riservatao agli abilitati; disciplina transitoria che, una volta licenziata in GU nella primavera del 2017, è stata lasciata allo sbando. Più che da questo, dal precedente ministero che l’ha indetta. Se fosse stata organizzata più seriamente moltissimi posti sarebbero stati coperti, come del resto è avvenuto in regioni come Lombardia o Piemonte.
    Inoltre mi risulta che già dal D.lgs. 59/2017 (dicastero Fedeli) sia già stato stabilito il superamento del concetto di abilitazione come prerequisito per il concorso. Lo schema che Bussetti vuol modificare è 24cfu-> concorso-> tre anni di tirocinio. Questo non emerge dall’articolo, che perde così l’occasione di correggere le dichiarazioni già in sé piuttosto confuse del nuovo ministro.

  4. Caro Viti,
    sui due punti che lei solleva;
    1) la mia critica sui ritardi delle nomine non era rivolta alla politica (al Ministro) ma all’amministrazione (al Ministero), e quindi vale anche per le gestioni precedenti: c’è un grave problema di inefficienza della macchina amministrativa; anche alcuni ministri precedenti non hanno saputo farla lavorare, in particolare la Giannini, molto debole; ma questa macchina va riformata, non basta la volontà politica;
    2) ho detto all’inizio delle considerazioni sull’abilitazione che lo schema laurea-abilitazione-concorso si può declinare in diversi modi; la normativa introdotta nel 2017 cambia il nome all’abilitazione e la chiama specializzazione, ma sempre quella è; modifica lo schema, che diventa laurea (con 24 cfu ecc.)-concorso-specializzazione e tirocinio (con valutazione finale); forse discutibile, come tutto, ma sempre fondato sul principio che per insegnare ti devi abilitare o specializzare.

    Caro “Sferzacolo” (sarebbe bello che vi firmaste, detesto i commenti anonimi, ma oggi sono generoso),
    che si lavori molto e in modo frammentario può essere, così come è ovvio che i problemi sociali e scolastici sono legati; ciò non toglie che l’inefficacia didattica della nostra scansione del tempo scuola è un problema da affrontare. Infine: ma quindi lei vorrebbe una civiltà in cui lavora un solo genitore, magari maschio? non ho capito bene.

    Ringrazio D’Onghia per gli apprezzamenti.

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