[Per la sua dodicesima puntata, la rubrica degli inediti a cura di Massimo Gezzi ospita cinque poesie e una nota di Gian Mario Villalta, poeta, romanziere e animatore del festival Pordenonelegge, che inizia domani. Tra le sue ultime pubblicazioni il saggio-reportage L’isola senza memoria (Laterza 2018) e il romanzo Bestia da latte (SEM 2018)].

 

1

 

Già le auto, che dopo lo stop accelerano in ripresa:

lacerano la stoffa tesa tra gli aceri della notte.

 

Già il tramestare il tintinnio lo sbattere

di là dalla parete: il vicino e la lavapiatti – coppia perfetta-

il battibecco di ogni mattina alle sette.

 

Mentre inonda la tenda la luce che la porta finestra

ricuce sghemba – pare umida – sul pavimento.

E con la luce l’attesa.

 

Richiuse appena le palpebre.

Ancora un minuto un minuto.

Che cosa aspetti da sempre?

 

 

2

 

Ti stai attardando e lo sai nelle stanze del sonno

dove il gufo e la donnola parlottano quieti

nello specchio che versa il liquore degli anni

sul pavimento: hai avuto paura, ma ora il tuo corpo

galleggia nel tempo, c’è il platano nel cortile

della scuola, il trattore, prendi il tuo posto

nella foto con la maglia a righe.

 

Ancora un minuto un minuto.

 

Ti riconosce una fuga di echi.

La proroga tra l’essere

chiunque e il diventare te stesso

dura l’incalcolabile.

 

 

 

3

 

Sono stato un bambino insonne.

All’inizio era tutto catturare l’istante

dello sprofondo, quando l’io vigile

si dissolve e subentra quell’altro che sogna

e sa che dorme.

Non è stato facile

rinunciare a un gioco dove pareva possibile

soffermarsi sulla soglia del perdere sé

e sorprendere – nella notte,

nel buio della mente, afferrando – l’istante,

la chioma sua di cometa prima del niente.

Tra me e me lo chiamavo il scappamorte.

È stato l’altro, poi, a sorprendere me:

da un sogno dove l’avevo lasciato all’alba

senza più ricordarmi,

mi ha svegliato mentre mi stavo perdendo

dentro le cose solite

che perdono tutti ogni giorno.

 

 

 

 

 

I

 

un grappolo di buio, il frutto del restare, quando si interra il sonno

nei giorni, tra i gradini e il lenzuolo, la carta e il suolo nulla più

che proporzioni, algoritmi, della mente

e del niente utili ornamenti

 

 

II
passa sui dorsi delle mani, sui campi coltivati, sugli anni

lo sguardo all’opera, scivola fuori, allestisce la scena con legno e filo

di ferro, colore rosso, aghi e cenere, cenere, ancora

cenere fino a quando tutto è sommerso e quieto

 

 

Nota ai testi

di Gian Mario Villalta

 

Continuo da molto tempo a trascinarmi lo stesso problema: non posso affidarmi alla cronologia per organizzare la relazione tra diversi testi poetici, poiché nel tempo che porta il testo alla sua vera conclusione altri ne sono nati, e perché nel frattempo emergono direzioni di percorso diverse.

 

Un mio maestro, Andrea Zanzotto, continuava a scrivere a accumulare fino a quando, passato qualche anno e arrivato al senso di una svolta, si impegnava nella cernita dei testi e costruiva il libro secondo un principio di coerenza, lasciando da parte anche poesie bellissime, che confidava di includere in un libro futuro. Un metodo saggio, che però non gli impedì di ritrovarsi in imbarazzo e di risolvere inventando una pseudo-trilogia dove l’equilibrio tra i tre libri era organizzato soprattutto dal paratesto.

 

Il fatto è di qualche interesse: noi amiamo un brano del poema, una poesia, la preferiamo alle altre dello stesso autore, ma raramente una poesia viene stampata e circola da sola. Abbiamo incontrato quella poesia insieme ad altre, perché uno dei nostri modi principali di apprezzare la poesia è quello di cogliere un respiro più ampio, quello dell’opera. E’ l’opera che conosciamo davvero, mentre è più forte per il nostro vissuto e la nostra memoria la singola poesia o lo specifico brano.

 

Un poema nasce un brano alla volta. Le poesie nascono una alla volta, e può capitare che siano sconosciute in un primo momento, dettate da un azzardo, da un errore, o da un incrocio inatteso di parole e pensieri. Vengono dal brulicare continuo di immagini, suoni, sensi, volti, paesaggio, sogni, assurdità in cui siamo immersi. D’altra parte, scrivo per sorprendermi, per catturare tra la tensione della forma e quella del voler dire qualcosa che non sapevo già prima. Non ha senso progettare una poesia e poi scriverla seguendo procedure preordinate. Scrivere una poesia è, per me, qualcosa che nasce dall’attenzione e dall’abbandono, viene a delinearsi in un dato momento come un sentiero da percorrere, poi come un’area circoscritta: alla fine ogni millimetro di quell’area dovrà avere per me un motivo per essere così com’è. E devo continuare a sentir muovere l’inatteso nell’atteso e viceversa, per quanto riguarda innanzi tutto il ritmo profondo della sequenza di parole (sintassi, metrica, suoni) e poi per le immagini e i pensieri che suggerisce.

 

E dopo, basta così? Chi mi credo di essere?

Fortuna o no, la poesia permette di essere molto esigenti secondo la propria misura (il che significa che ciò che ho descritto qualche riga sopra come eccezionale evento a qualcuno che legge potrà sembrare una banalità).

 

E ora veniamo alle 5 poesie. A un certo punto alcune poesie, sei o sette, mi hanno lasciato individuare un legame che le unisce: il sonno, la veglia insonne, il risveglio. Mi sono detto, allora: “Provo a lavorarci, vediamo cosa succede”. Motivando in questo modo una serie di atti intenzionali, mi sono ritrovato a spingermi in diverse direzioni, fino a un certo limite. E poi, oltre quel limite. In altre parole sono venute altre poesie che sono diverse sotto molti aspetti e tra loro coerenti.

 

Che fare? La mia idea è quella di mettere insieme 25/27 “pezzi”: l’area è già delimitata, le poesie necessarie scritte; adesso si tratta di lavorarci sopra fino a quando la memoria si fissa su una forma ripetuta così da crederla compiuta, oppure fino a quando né la speranza né l’esasperazione trovano più nulla da modificare. Ho già un accordo per la pubblicazione (tra un anno – consegna prima dell’estate 2019).

 

C’è una serie di testi un po’ più lunga, che ho segnato in numeri arabi, e una serie minore che segnalo in numeri romani.

Adesso arrivo al dunque: non voglio fare due sezioni, quella con i numeri arabi e quella con i numeri romani… Si tratta di poesie nate insieme, a un certo punto conviventi, venute a colmare due diverse tonalità e due diverse pronunce – per me connesse – della stessa materia. Come fare, allora? Non lo so per certo. Però ho un’idea…

 

Infine segnalo che per questa occasione (ringrazio Massimo Gezzi) ho scelto 3 poesie tra quelle che sono di più e 2 tra quelle in minor numero per rispettare, in un certo senso, la proporzione. E non ho rispettato l’ordine di comparizione attuale (che mi pare abbastanza definitivo) delle singole serie, per il fatto che in ogni caso non si sarebbe intuito. Ho inserito l’unica poesia (la numero 3) di quelle in numeri arabi che dice “io”; le altre sono tutte con il “tu”. Quelle in numeri romani non segnalano la persona.

Il cantiere, aggiungo, non si esaurisce affatto nella materia di questo futuro opusculum, avendo altri scavi e altre costruzioni in corso.

 

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