di Emanuela Piga Bruni
[È uscito da poco, per Mimesis, La lotta e il negativo. Sul romanzo storico contemporaneo di Emanuela Piga Bruni. Quelle che seguono sono alcune pagine dell’introduzione, il cui sottotitolo è Attualità della rivoluzione e disagio della civiltà].
Erano i giorni migliori, erano i giorni peggiori, era un’epoca di saggezza, era un’epoca di follia, era tempo di fede. Era tempo di incredulità, era una stagione di luce, era una stagione buia, era la primavera della speranza, era l’inverno della disperazione, ogni futuro era di fronte a noi, e futuro non ne avevamo, diretti verso il paradiso, eravamo incamminati nella direzione opposta.
Charles Dickens, Una storia tra due città
La lotta e il negativo sono nelle nostre vite, intrecciati nel movimento incessante, coesistono e si mescolano senza mai essere la stessa cosa, sono la terra su cui edifichiamo e che ci inghiotte, l’aria che respiriamo fino a soffocare. La letteratura, per mezzo dei processi di mitopoiesi o di verità, mette in scena questa dialettica eterna nella rappresentazione della condizione umana attraverso l’arte della mimesis e il racconto delle vite particolari.[1] Da una parte, l’arte mostra la possibilità di trascendere la condizione di subalternità e riflette la luce del potenziale utopico del suo contenuto, attraverso quello che Theodor W. Adorno chiamava “falso atto di conciliazione”.[2] Dall’altra, scivolando verso il negativo, può decidere di mettere in scena il male, l’impossibilità della reazione, la nuda vita. Se questo versante della letteratura sembra non lasciare margini a utopia e riscatto, si pone tuttavia come espressione di una filosofia critica e di ricerca cognitiva.
Il concetto di lotta è probabilmente più intuitivo e si presenta in forme diverse: dal conflitto interiore (ad esempio, da un punto di vista freudiano, tra pulsioni di vita e pulsioni di morte, o tra principio di piacere e principio di realtà) alle lotte per i diritti politici, dalle rivolte popolari fino alla sua forma maggiore e organizzata, la Rivoluzione.
Su rivolta e rivoluzione si sono espressi in molti. Max Stirner definiva la prima come atto egoistico e la seconda come atto politico e sociale. In risposta, Marx e Engels hanno messo in chiaro il legame tra i due atti, in quanto ogni rivoluzione e i suoi risultati sono determinati dai bisogni. Bakunin definiva la rivolta “per natura istintiva, caotica e spietata”. È interessante notare, rispetto alla polarizzazione tematica che costituisce questo volume, come Bakunin abbia identificato la rivolta come “passione negativa”, lontana dall’altezza della causa rivoluzionaria. Nello stabilire il legame inscindibile tra le due, perché senza rivolta non ci sarebbe rivoluzione, ne puntualizza la natura distruttiva e tuttavia salutare, feconda e necessaria per la nascita di nuovi mondi.[3] Una riflessione particolare proviene da Furio Jesi, quando riprende la distinzione oppositiva di Stirner dandole un diverso significato. Per Jesi, «la rivolta viene ora riconosciuta come atto che compie una immediata ‘sospensione del tempo storico’, laddove la rivoluzione comporta una strategia a lungo termine, tutta calata e volta a creare le condizioni di un cambiamento nel tempo storico».[4]
L’idea della vita sociale come rapporto di lotta per l’autoconservazione attraversa tutta la filosofia sociale moderna, dal conflitto tra servo e padrone delineato da Hegel, alla sua rielaborazione nella lotta di classe in Marx, alle riflessioni contemporanee su diritti e riconoscimento.[5]
A partire da diversi contesti e istanze, molte sono le voci che hanno riattualizzato o messo in discussione la concezione classica hegeliana. Un tema così complesso non può essere affrontato in queste pagine: mi limito, a titolo esemplare, a menzionare due voci appartenenti a diversi contesti e che, nella loro radicalità, presentano alcuni punti di contatto. La prima proviene dal primo femminismo degli anni Settanta, la seconda da una delle prime voci della critica postcoloniale. Entrambe sono snodi di una protesta multiforme contro una lettura sedimentata del divenire dei rapporti di forza, si radicano nella concretezza del vissuto e muovono dal pensiero sul corpo.
Nella primavera del 1970, in Italia, Carla Lonzi dichiara: «Chi non è nella dialettica servo-padrone diventa cosciente e introduce nel mondo il Soggetto Imprevisto».[6] Lo scrive in Sputiamo su Hegel, celebre pamphlet in cui condensa le riflessioni collettive generate nel movimento di Rivolta Femminile. Per Lonzi far rientrare il problema femminile nella concezione di lotta servo-padrone è un errore storico in quanto tale concezione sorge da una cultura che tralascia la questione del privilegio assoluto dell’uomo sulla donna e pone prospettive solo alla collettività maschile. «La donna non è in rapporto dialettico col mondo maschile», scrive Lonzi, «Le esigenze che essa viene chiarendo non implicano un’antitesi, ma un muoversi su un altro piano. Questo è il punto su cui più difficilmente arriveremo a essere capite, ma è essenziale che non manchiamo di insistervi».[7] La critica di Lonzi è radicale, con lei non si può più staccare il problema femminile da una visione globale della società e pensarlo come ‘mezzo e fine’ a se stesso. Trasversale alle diverse espressioni del femminismo italiano degli anni Settanta è l’attenzione alla politica del simbolico e alle forme del pensiero e del linguaggio.
Un’altra prospettiva che si confronta criticamente con la dialettica hegeliana è quella di Frantz Fanon, espressa quasi vent’anni prima in Francia e con riferimento all’oppressione coloniale e agli effetti del razzismo sulla psiche. In Pelle nera, maschere bianche, Fanon, in polemica con Jung, considera l’inconscio collettivo come qualcosa non dipendente da eredità celebrali, ma come la conseguenza di ciò che definisce “imposizione culturale irriflessa”. Nel farlo, cita l’esempio della sua terra d’origine, la Martinica, dove il giovane Nero «identificandosi con il civilizzatore farà del negro il capro espiatorio della sua vita morale».[8] L’acquisizione da parte dell’antillano degli archetipi della cultura europea lo spinge ad associare il Nero all’ombra, alle tenebre, alla notte, e genera nella sua coscienza morale una scissione che provoca il rifiuto da parte del Nero della sua stessa immagine.
Nel riflettere sulla possibilità di rivoluzionare la condizione del nero nella colonia, Fanon afferma che «la realtà umana in sé e per sé arriva a compiersi solamente nella lotta e attraverso il rischio che essa comporta». Si misura con il pensiero di Hegel evidenziando come la reciprocità implicita nella dialettica servo/padrone sia totalmente assente dalla realtà coloniale. Rovescia il discorso sul riconoscimento con una lettura incentrata sul tema del desiderio e dell’azione (contro il risentimento della reazione) che tiene conto del negativo:
Io chiedo che mi si consideri a partire dal mio Desiderio. […] Reclamo che si tenga conto della mia attività negatrice in quanto perseguo altro rispetto alla vita, in quanto lotto per la nascita di un mondo umano, ovvero di un mondo di riconoscimenti reciproci.
Colui che esita a riconoscermi si oppone a me. In una lotta feroce, accetto di sentire la scossa della morte, la dissoluzione irreversibile, ma anche la possibilità dell’impossibilità.[9]
Lotta e negativo non costituiscono una dicotomia rigida, ma gli estremi, spesso compresenti, di una tensione che non si concilia e permane nella contraddizione. Come sosteneva Hannah Arendt, «L’attore si muove sempre tra gli altri esseri agenti, e in relazione con loro, non è meramente uno che fa ma sempre e nello stesso tempo uno che subisce. Fare e subire sono come le facce opposte della stessa medaglia, e la storia cui un atto dà inizio e composta di atti compiuti e subiti».[10]
Se l’idea di lotta rimanda a un immaginario collettivo diffuso e facilmente riconoscibile, il negativo è un concetto meno immediato. La matrice originaria risale a Hegel, quando illustra la struttura relazionale e dinamica dello spirito.[11] Nella Fenomenologia, lo spirito è definito come il «divenire a sé un altro, ossia oggetto del suo Sé, e togliere (aufheben) questo esser-altro».[12] In questo movimento che lo costituisce, l’alterità e la differenza sono momenti imprescindibili nel processo di realizzazione dello spirito, e costitutivi di ciò che Hegel, in generale, chiama il negativo. Proprio della vita dello spirito, e ciò che ne costituisce la potenza, è il saper ritrovarsi nell’assoluta devastazione, saper «guardare in faccia il negativo e soffermarsi presso di lui».[13]
In questo volume il negativo è considerato da questa angolazione. La questione affrontata è l’istanza di verità che emerge da quei romanzi in cui la raffigurazione della violenza storica e la frammentazione psichica sono al centro del racconto.
Se Freud sosteneva che la negazione è un modo di prendere conoscenza del rimosso, e dunque una revoca della rimozione, una “letteratura negativa” che si misura con i maggiori eventi tragici del Novecento, penetrando nello strato più profondo dell’inumano, è figurazione dell’inconscio politico collettivo. Se non è l’attualità della rivoluzione a essere messa in scena, lo è sicuramente il disagio della civiltà.
«La storia è la limitazione più profonda, la limitazione fondamentale», scrive Emmanuel Lévinas in Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo,[14] pubblicato nel 1934 dalla rivista «Esprit» all’indomani della presa del potere di Hitler in Germania. In questo saggio, nel sottolineare la dimensione dell’irreparabile insita nel tempo, condizione dell’esistenza umana, il filosofo francese si sofferma sulla «tragedia dell’inamovibilità di un passato incancellabile che condanna l’iniziativa a non essere che una continuazione». «La vera libertà, il vero inizio, esigerebbero un vero presente che, sempre al culmine di un destino, lo ricominciasse eternamente». Per Lévinas, il pensiero filosofico e politico dei tempi moderni «scava un abisso tra l’uomo e il mondo», ponendo il fondamento ultimo dello spirito al di fuori dell’esistenza concreta. In questo quadro illuminato dalla luce della ragione, l’uomo del mondo liberalista (liberaliste) non sceglie il suo destino sotto il peso di una Storia, per lui «vi sono soltanto possibilità logiche che si offrono a una ragione serena in grado di scegliere mantenendo perennemente le sue distanze». Per la prima volta nella storia occidentale, continua Lévinas, il marxismo contesta questa concezione dell’uomo affermando il legame che incatena lo spirito umano ai bisogni materiali: «la lotta, che preesiste all’intelligenza, gli impone decisioni che non aveva mai preso», e lo spirito della concezione tradizionale «si scontra con dei macigni che quella stessa concezione non riuscirà mai a scuotere».
Da un’altra prospettiva, l’importanza di fattori materiali come «la salute, il denaro, e le case in cui viviamo» era già stata affermata energicamente da Virginia Woolf in vari scritti e condensata con uno stile narrativo che rifugge da ogni espressione ideologica nei suoi due grandi saggi politici, Una stanza tutta per sé e Tre ghinee.
La vita, per ambedue i sessi «è ardua, difficile, una lotta senza fine. Richiede un coraggio e una forza giganteschi. Più di ogni altra cosa forse, per creature dell’illusione quali noi siamo, essa richiede fiducia in se stessi», scrive Woolf. Nelle Tre ghinee, a un’immaginaria richiesta di aiuto per prevenire la guerra e contro l’avanzata del fascismo in Europa, Woolf risponde ricordando quelle «buffe donne con cappellino e mantella» che nel diciannovesimo secolo lottavano per la stessa causa per cui lottano i suoi contemporanei. Nel rivolgersi al destinatario, un avvocato segretario di un’associazione antifascista, considerato un «fratello sentito vicino, come molti lo sono stati», continua affermando che quelle donne
combattevano il medesimo nemico per i medesimi motivi. Combattevano contro l’oppressione dello stato patriarcale come voi combattete contro l’oppressione dello stato fascista. Noi non facciamo che portare avanti la lotta iniziata dalle nostre madri e dalle nostre nonne; lo dimostrano le loro parole; lo dimostrano le vostre.[15]
Nella situazione narrata, Woolf concede la ghinea di sostegno alla causa comune, ma rifiuta di iscriversi all’associazione del “fratello” con la motivazione di volerne fondare, insieme ad altre donne, una propria dal nome “Società delle Estranee”. Tra i primi doveri di questa società figurerà quello di non combattere mai con le armi e non dare l’avvallo ad alcuna forma di orgoglio nazionale, «perché, dirà l’estranea, io in quanto donna non ho patria. In quanto donna, la mia patria è il mondo intero».[16] Il modo migliore per aiutare i fratelli a prevenire la guerra è non cancellare la visione che deriva dall’esperienza della storia, preservare la differenza per non rendere ancora più profondi «vecchi slabbrati solchi», ma «trovare nuove parole e inventare nuovi metodi». Gli argomenti utilizzati a motivare la difesa della differenza affermano con forza «la necessità della relazione, della mediazione, di un conflitto possibile, da inventare fuori dall’orizzonte della violenza e della morte».[17]
Con altre parole, scriveva Carla Lonzi: «Nessuno a priori è condizionato al punto da non potersi liberare, nessuno a priori sarà così non condizionato da essere libero». Nell’epilogo di Middlemarch George Eliot accenna alle vite dei personaggi oltre il tempo delle vicende narrate, «poiché il frammento di una vita, per quanto tipico esso sia, non è un campione di un tessuto uniforme». Quando giunge a scrivere di Dorothea Brooke e di cosa fece di se stessa, leggiamo:
Certo, quelle azioni determinanti della sua vita non furono idealmente belle. Furono il risultato complesso di un impulso giovane e nobile che lottava tra i condizionamenti di una situazione sociale imperfetta in cui i grandi sentimenti assumono spesso l’aspetto dell’errore e la fede profonda l’aspetto di un’illusione. Perché non c’è creatura il cui essere interiore sia così forte da non essere in gran parte determinato da ciò che gli sta attorno.[18]
Si può pensare che la forza della letteratura risieda nel raccontare come i rapporti di forza nella società incidano sulla soggettività di un individuo fino a determinare la sua vita.
[1] 1 Ci si riferisce a un’idea di letteratura che rimanda a un classico della teoria letteraria, Mimesis di Erich Auerbach. Per una prospettiva contemporanea, cfr. G. Mazzoni, Teoria del romanzo, Il Mulino, Bologna 2012.
[2] Cfr. Th.W. Adorno, Dissonanze (1956), Einaudi, Torino 1959, p. 13. Adorno parla di una formalizzazione che occulta la realtà dell’alienazione, e in questo vede un falso atto di conciliazione.
[3] M. Stirner, L’unico e la sua proprietà, Adelphi, Milano 1979, pp. 330 e sgg; K. Marx e F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori riuniti, Roma 1958, p. 377; M.A. Bakunin, Stato e anarchia, Feltrinelli, Milano 1996, p. 40
[4] A. Cavalletti, Prefazione, in F. Jesi, Spartakus. Simbologia della rivolta, Bollati Boringhieri, Torino 2000.
[5] Tra i numerosi studi, cfr. A. Honneth, Lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto (1992), Il Saggiatore, Milano 2002, e Paul Ricoeur, Percorsi del riconoscimento, Raffaello Cortina, Milano 2004.
[6] C. Lonzi, Sputiamo su Hegel, et al., Milano 1970, p. 47.
[7] Ivi, p. 42.
[8] F. Fanon, Peau noire, masques blancs, Seuil, Paris 1952, tr. it. Pelle nera, maschere bianche, ETS, Pisa 2015, pp. 171-176.
[9] Ivi, p. 196.
[10] H. Arendt, Vita activa (1958), Bompiani, Milano p. 139.
[11] Nella filosofia di Hegel, il termine “spirito” non ha un’accezione di tipo religioso o sovrannaturale, ma si riferisce all’ambito dell’umano (Geist), a tutto ciò che non essendo riducibile alla natura organica dell’uomo ne costituisce la essenza (la natura propria dell’umano) sul piano gnoseologico e pratico, sociale e storico, estetico, religioso e scientifico.
[12] Il concetto hegeliano di spirito non si riferisce a un ente o a una sostanza o a una cosa, ma la sua connotazione più propria è quella di essere movimento e relazione, «un’attività di mediazione che implica il suo differenziarsi da sé e il toglimento di questa differenza riconoscendosi in essa». G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, a cura di V. Cicero, Bompiani, Milano 2000, I, p. 29.
[13] Ivi, p. 26.
[14] E. Lévinas, Quelques réflexions sur la philosophie de l’hitlérisme (1934), tr. it. di A. Cavalletti, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, Quodlibet, Macerata 1996, p. 24.
[15] V. Woolf, Three Guineas (1938), tr. it. di A. Bottini, Le tre ghinee, intr. di Luisa Muraro, Feltrinelli, Milano 1979, pp. 139-140.
[16] Ivi, pp. 144-147.
[17] L. Rampello, Il canto del mondo reale. Virginia Woolf. La vita nella scrittura, Il Saggiatore, Milano 2005, p. 188.
[18] G. Eliot, Middlemarch (1871), tr. it. di M. Bottalico, Mondadori, Milano 2000, p. 859.
[Immagine: Shaun Tan, The Arrival, 2006].