durerdonna.jpgdi Gianluigi Simonetti

[Dal 18 al 27 aprile LPLC sospende la sua programmazione ordinaria. Per non lasciare soli i nostri lettori, abbiamo deciso di riproporre alcuni testi e interventi apparsi all’inizio del 2012, quando i visitatori del nostro sito erano circa un quinto o un sesto di quelli che abbiamo adesso. È probabile che molti dei nostri lettori attuali non conoscano questi post. L’articolo di Gianluigi Simonetti è uscito il 13 febbraio 2012].

1. È appena uscito nelle sale francesi Il n’y a pas de rapport sexuel, di Raphaël Siboni, giovane parigino che viene dal mondo del documentario e delle arti plastiche. L’opera è costituita da immagini di making of riprese sui set dei film di Hervé Pierre-Gustave, in arte HPG, quarantacinquenne regista, produttore e attore di film pornografici piuttosto noto in Francia: lo si potrebbe definire una specie di equivalente transalpino di Rocco Siffredi, se non fosse per un giro d’affari, un universo formale e un approccio al genere piuttosto lontani da quello dell’omologo italiano (tra i due c’è comunque stima reciproca, pare). In HPG, autobiographie d’un hardeur lo stesso Gustave ricorda come all’inizio della carriera amasse recarsi nelle cabine dei sex shop della Rue Saint Denis per masturbarsi guardando i primi film che lui stesso aveva girato; a consacrazione avvenuta, HPG deve aver deciso che trovava più appagante guardarsi filmare. Per circa dieci anni ha tenuto in un angolo del suo studio una telecamera installata su un treppiede, accendendola all’inizio di ogni sessione di lavoro. Quando il produttore Thierry Lounas ha saputo dell’esistenza del repertorio – migliaia e migliaia di ore di girato – ha proposto a Siboni di lavorarci sopra. Il risultato è un’opera di montaggio che documenta soprattutto ciò che avviene dietro le quinte di un hard: la preparazione del set, la scelta e l’addestramento degli attori, le pause e i commenti tra un ciak e l’altro, le foto e i trucchi di scena. Ma non mancano puntate nei film veri e propri, specialmente quando a entrare in azione, camera a mano, è lo stesso HPG.

Il n’y a pas de rapport sexuel è dunque strutturato come un film sul film, e propone allo spettatore un doppio voyeurismo (che al cinema diventa triplo): l’opera di un autore dallo stile caldo ed estremamente dinamico, HPG, filtrata dallo sguardo, freddo e arty, di Siboni. Due opposti blasoni – i bassifondi delle luci rosse e l’avanguardia dell’arte contemporanea – a cui corrispondono due sguardi molto diversi portati sul reale (in un contesto, quello della pornografia, che di realtà si nutre per imprescindibile convenzione di genere). Il rischio, in partenza, era quello dell’intellettualismo e della staticità: il risultato è un’opera che di cerebrale ha  ben poco,  e  che vanta una grande qualità narrativa: si vorrebbe che non finisse mai.

2. Forse per darsi un tono, HPG ha dichiarato in diverse occasioni di considerare L’impero dei sensi come uno dei suoi modelli strutturali: un film che funziona sia “a livello masturbatorio”, queste le sue parole, sia a livello artistico e conoscitivo. Altrove il regista ha sottolineato come la forza del porno risieda per lui nelle esperienze forti e contraddittorie che emergono durante la riprese: “una mescolanza bizzarra e sconvolgente di sentimenti, alcuni dei quali dolorosi”. La cosa che colpisce, di Il n’y a pas de rapport sexuel, è proprio la varietà degli strati e dei registri: varietà tanto più stupefacente se si pensa che il film è stato realizzato quasi per intero nei trentuno metri quadrati che compongono l’appartamento di HPG, nei pressi di Place de la République.

A un primo livello, il film costituisce una critica efficace, perché tecnica e non moralistica, della retorica del porno – e soprattutto di quel sottogenere in cui HPG è specialista: il porno “amatoriale”, o “gonzo” – in cui chi gira è direttamente coinvolto nell’azione e i protagonisti fingono di essere – e talvolta in effetti sono – dei semplici dilettanti. Tutto il porno, dicevamo, riposa sul sogno di un realismo integrale – ma nel gonzo tale sogno si incarna in un preciso manifesto di poetica, che è anche stratagemma produttivo. I mezzi sono ridotti, le scenografie inesistenti, le riprese rapide, domestiche e concentrate sul sesso, a scapito della trama, già esile nella pornografia tradizionale, ma nell’ amatoriale ancora più sacrificata, per ridurre al tempo stesso le spese e gli spessori della fiction. “I film che mi piace realizzare somigliano meno al cinema tradizionale che al documentario o al reportage”, dichiara HPG, indirettamente tracciando un legame tra questo tipo di pornografia, largamente egemone negli ultimi dieci anni, e il giornalismo “gonzo” di Hunter Thompson, protagonista dei suoi stessi stravaganti reportage. Ebbene, se l’amatoriale si fonda sull’illusione della presa diretta, della genuinità e della trasparenza, Il n’y a pas de rapport sexuel ne distrugge spietatamente i presupposti teorici. Il film svela infatti l’artificialità di tutto il porno, e del gonzo in particolare, dimostrando che il realismo amateur non è meno opaco e fittizio di quello di qualsiasi altro cinema.

Ora, la denuncia di una intervenuta indistinzione tra vero e finto non costituisce certo una grande novità, quando si parla di estetica contemporanea. Ma le immagini della pornografia, più di quelle del cinema e della televisione, propongono allo spettatore una scommessa radicale. L’orgoglio pornografico di mostrare senza simulazioni o censure ciò che è più intimo e nascosto – progetto in origine libertario, oggi piuttosto neoliberale – trae senso e fascino dall’idea che il sesso sia effettivamente il luogo ultimo della verità privata; la frontiera del filmabile, oltre la quale non c’è più niente da vedere; uno spazio a suo modo sacro dove non si può mentire e quindi neanche veramente recitare (in questo senso è comprensibile che gli attori di cinema tradizionale considerino l’hard un ghetto da evitare a tutti i costi, qualcosa che nega la nobiltà e forse il senso stesso del proprio mestiere). Il film di Siboni ci dice che certo, nel porno gli atti sessuali sono (quasi sempre) tecnicamente veri; ma che invece tutto il resto è finto. Soprattutto sono posticce e codificate le emozioni esibite dai pornoattori. La verità, prosaica, affiora nelle lunghe attese dei cambi di scena, nei momenti in cui si improvvisa la stesura di una trama implausibile, nei casting che precedono le riprese o nelle discussioni che le seguono; oppure, senza soluzione di continuità, nelle interruzioni tra un ciak e l’altro, o all’interno dello stesso ciak. Lì soprattutto emergono l’indifferenza, la noia, talvolta l’esasperazione degli attori e del regista, costretti a recitare una farsa alla quale sono i primi a non credere, e dalla quale si allontanano, non di rado sbadigliando, non appena la telecamera si spegne. Così nel film di Siboni la pornografia si svela non solo come fragile “sembrar vero”, ma anche come lavoro – lavoro d’impresa, riassunto in un nome che somiglia a un marchio (HPG); lavoro usurante, che segna i corpi degli attori appesantendoli e invecchiandoli. L’interesse per la  ‘macchina’ del porno spiega tra l’altro perché il film insista tanto su quelli che potremmo definire i trucchi del mestiere. Il volto estasiato di un’attrice che geme viene ripreso in primo piano da HPG, ma la camera fissa alle sue spalle inquadra la donna in campo medio e ci mostra che è seduta su una sedia, mentre il suo partner in piedi batte le mani per fingere una sculacciata che in realtà non ha luogo. Perfino l’orgasmo maschile, che il porno è abituato ad esibire come prova suprema di realismo, può venire simulato, o almeno ritoccato, grazie a un tubetto di crema di latte: è quello che succede  a un certo punto del film, durante una gang bang resa indimenticabile dai commenti ‘tecnici’ della protagonista e di alcuni suoi partner.

E’ noto che i figuranti dell’hard, pagati per scena, ricevono solo metà del compenso quando devono recitare scene prive di sesso: il tariffario stesso del genere conferma che i suoi protagonisti non sono e non devono comportarsi da veri e propri attori. Mentre il cinema d’autore conosce e valorizza, quando può, le potenzialità dell’attore non professionista, la pornografia tende a dilapidare con sconcertante ottusità la straordinaria risorsa di avere a disposizione dei corpi che in teoria non dovrebbero “recitare”, ma “essere”. Da un punto di vista formale il principale fallimento del porno consiste allora nella scelta di assegnare ai protagonisti dei fantasmi sessuali che non sono i loro, o che non sono i loro nel momento in cui devono recitarli. Provato e coperto di sudore, Storm non è affatto felice all’idea di sbattere sul pavimento la sua partner, come la drammaturgia della scena suggerisce: “Va bene, faccio quello che mi chiedi, ma non puoi pretendere che sia anche contento”. Il timido Puceau, etero e attivo, non ha nessuna voglia di essere sodomizzato sul divano per esigenze di copione: il suo disagio e la sua paura, in scena e fuori, costituiscono uno dei momenti più malinconici del film.

3. A un secondo e più stimolante livello, Il n’y a pas de rapport sexuel costituisce invece una sorta di paradossale elogio della pornografia; non tanto del “genere”, a dire il vero, quanto del “contesto” pornografico. Anche in questo caso il film di Siboni funziona e persuade perché non esprime giudizi di valore, ma supera in concreto le convenzioni e i limiti formali a cui la pornografia ci ha abituati.

a) Il primo tabù infranto è quello dell’ironia. Sebbene la strada della parodia sia tra le più battute dal genere, resta piuttosto raro che un film porno, soprattutto se gonzo, diverta e induca al riso, almeno a patto che lo si veda da soli (il discorso cambia se la visione è collettiva: in quel caso ridere diventa al contrario un imperativo – un esorcismo che, negandola, in effetti riafferma la sostanziale serietà dell’osceno). Come osserva una specialista di porn studies, Giovanna Maina, “il porno può parodizzare tutto tranne che se stesso; e può ironizzare su tutto tranne che sulla propria funzione”. Il n’y a pas de rapport sexuel, che pure è costruito con materiale pornografico, è invece un film pieno di ironia, e a tratti addirittura irresistibilmente comico. Si ride molto per gli incidenti e le magagne di scena, naturalmente: è il lato allegro dello scarto che abbiamo già notato tra la terribile serietà dell’enfasi pornografica e la miseria degli stratagemmi che occorrono per renderla credibile. Ma si ride anche per la simpatia, spesso straordinaria, degli attori e del regista: una simpatia che passa attraverso la franchezza (e a volte la miseria) dei corpi, e che trae linfa da una precisa identità di classe. Le statistiche dicono che la grande maggioranza dei pornoattori proviene da strati popolari; ma è il ceto stesso dell’hard a rappresentarsi come una specie di distretto operaio all’interno del cinema tradizionale; e se il porno è la Grande Proletaria del cinema, l’amatoriale è la più proletaria delle pornografie. “L’hardeur n’est pas un humaniste”, sottolinea HPG nella sua biografia, eppure il discorso che lo stesso HPG tiene al giovane Puceau, esordiente, dislessico e poco sicuro di sé, contiene un sicuro e condivisibile messaggio antiborghese.

b) Il secondo tabù è quello del senso. La pornografia, si obbietta spesso, è ripetizione, noia, stupidità delle parole e delle situazioni. Eppure è attraverso materiali e situazioni pornografiche che Siboni riesce a esprimere un interessante punto di vista sull’eros, che è poi quello cui allude la frase lacaniana che dà il titolo al film. Il sesso non unisce, ma separa: nell’eros non si danno veri e propri legami, ma solo esperienze narcisistiche che usano il corpo dell’altro come mediazione. Nella sfera della sessualità, sottolinea Badiou commentando Lacan, restiamo in fin dei conti in rapporto esclusivo con noi stessi; per questo “il n’y a pas de rapport sexuel” – solo nella dimensione amorosa la mediazione dell’altro vale di per sé. Se questa è la verità del sesso, i rituali apparentemente vacui della pornografia e la sua stessa ossessiva coazione a ripetere possono contribuire ad avvicinarla – essendone a loro volta illuminati (e forse, almeno in parte, legittimati).

c) Nel Dizionario filosofico, mentre si interroga sull’origine dell’anima, Voltaire arriva a ipotizzare che essa si formi al momento preciso dell’accoppiamento. Il terzo e ultimo tabù riguarda la bellezza. E’ l’aspetto più importante e prezioso del film, ma mi limiterò a farne cenno, perché della bellezza è difficile parlare.

 I film porno possono piacere o meno, ma certo non sono concepiti per essere belli – se per bellezza si intende costruzione formale rigorosa, distanza dagli stereotipi, ricerca costante e sottile di significati profondi e non prefabbricati. Un problema specifico di tutti i prodotti di genere è inoltre la mancanza di organicità: le parti esteticamente riuscite, quando ci sono, risultano brevi e irrelate: spesso nascono dal caso, o da una breve licenza strappata alle convenzioni circostanti. Il che è vero soprattutto nella pornografia, che, non dimentichiamolo, è il più rigidamente codificato dei generi, il più strumentale, il più abituato (rassegnato?) alla bruttezza.

Il n’y a pas de rapport sexuel custodisce invece quattro o cinque momenti di vera e propria grazia – frammenti luminosi di sincerità e intensità quasi insostenibile. Momenti vissuti, e non recitati; sarebbe stato del resto impossibile recitarli così bene. Qui si tocca veramente una frontiera del visibile. Il pianto di gioia subito dopo l’orgasmo che scioglie la tensione di PomPom Girl, al suo esordio sul set, e che induce il regista a interrompere la scena, e il suo partner ad accarezzarla e consolarla. Un’altra debuttante, la morbida Sophia, stravolta dopo le riprese, piena di gratitudine e fervore. Il sorriso incantevole di Anna Polina, vezzeggiata dal regista, più imbarazzata dai complimenti che dal fatto di essere nuda. I due affiatatissimi attori sadomaso della scena finale, che a un certo punto svengono come gli innamorati delle Mille e una notte. E infine il momento più cosmico della pellicola, un’immagine del paradiso terrestre prima della cacciata: il simpatico Storm e Sexy Black, bellissima, che al termine delle riprese, nella sola sequenza in esterno del film, fanno l’amore davvero, su un prato brullo, accanto a una Mercedes, mentre il regista smonta la telecamera e il sole batte indifferente.

[Questo articolo è uscito su «Alias» di sabato 11 febbraio].

[Immagine: Albrecht Dürer, Donna sdraiata e disegnatore (1525) (gs)].

 

 

7 thoughts on ““Il n’y a pas de rapport sexuel”

  1. ti sembrava ridondante raccontare un po’ lo scenario a cui allude il titolo?
    forse sì, non so…

  2. L’articolo di Simonetti ben s’inserisce in una serie di riflessioni sul porno e sulla sua grafia cinematografica che stanno attraversando l’etere e la stampa, in parte anche sull’onda delle reazioni al film Shame di Steve McQueen, che pornografia non è, ma ha irritato molti forse proprio perché l’abbondanza di sesso, o meglio la mortificazione del sesso neoliberista, lascia un vuoto di senso che nemmeno lo sguardo estetico del regista riesce a recuperare o, se l’intenzione è giudicata più estetizzante, a riempire. Trovo che McQueen sia consapevole del gioco estetizzante proprio quando lo mette alla berlina attraverso lo sguardo del protagonista, che si compiace dell’idea decisamente masturbatoria di replicare la visione dei corpi nudi che si accoppiano aderenti alla parete-finestra della loro stanza.
    Il documentario commentato diffusamente da Simonetti mi porta alla mente il ricordo della recente visione di un altro recentissimo documentario, “The Advocate of Fagdom”, di Angélique Bosio, dove il tema è ancora quello della pornografia, ma declinato sull’omosessualità, attraverso la vera e propria ‘ricostruzione’ della carriera, come regista, autore e poi anche attore, del canadese Bruce LaBruce. Il film dimostra l’intenzione, nemmeno troppo dissimulata, di conferire dignita autoriale al lavoro di LaBruce, spingendo il tasto migliore della critica sociale che i suoi film esprimono pur nel rispetto delle regole del genere. Non ho visto i suoi film, né il documentario ha acceso in me un particolare desiderio di vederli, ma, leggendo l’articolo, e ripensando alle scene dei film citate nel documentario di Bosio, mi colpiva come il discorso della parodia in LaBruce sia attuato attaverso una sorta di contaminazione dei vari generi cinematografici, in primis l’horror, che con la pornografia è imparentato, anche per declassamento accademico e sociale. Questo aspetto, teoricamente invitante, si riflette doppiamente nella volontà militante di far sentire, convalidandoloa, la propria voce sessualmente connotata in un panorama, come quello pornografico, che sembrerebbe accogliere, per statuto, attitudini e abitudini diverse. Nel documentario, inoltre, compaiono figure di altri registi, dichiaratamente ‘gay’, che svolgono la funzione che i pubblicitari chiamano di ‘endorsement’, quella, cioè, di testimoniare sulla bontà del prodotto attraverso la fama autografa della propria presenza nello spot. Troviamo quindi i registi ormai mainstream, come Gus Van Sant e quelli cult, come John Waters, spendere ricordi e opinioni personali sul protagonista del documento. E il documentario diventa simile a quelli che si fanno su altri personaggi della cultura e della società. Un discorso autoparodico o una rivoluzione culturale?
    Mi chiedo allora, a che punto è la pornografia nel suo percorso mediatico? La verità del cinema passa sicuramente anche di lì, come argomenta Simonetti, e come già diceva Bazin, quando ometteva sesso e morte da qualsiasi possibilità di discorso cinematografico. Forse abbiamo una new frontier, almeno in quella direzione.

  3. Purtroppo, anche se il saggio di Simonetti me ne ha fatto venire voglia, non ho ancora visto il film di Siboni; vorrei comunque riflettere su un punto teorico. “Le réalisme, c’est l’impossible”; pare l’abbia mormorato Picasso guardando a casa di Lacan l’Origine du monde di Courbet. Il realismo in effetti è quella strana pretesa che ha l’arte di ingannare gli spettatori, o i lettori, prendendoli in contropiede; dicendogli “quello che stai vedendo, o leggendo, non è finzione, è realtà”. Tracotante menzogna che per guadagnarsi qualche effimera chance di successo lavora sul sabotaggio degli orizzonti di attesa; se gli stereotipi formali hanno creato un intero troppo convincente, il realismo li fa saltare introducendo dettagli dissonanti o stravolti; se lo stereotipo sociale esige la schizofrenia, il realismo lo incalza pretendendo l’interezza. La fica, al tempo di Courbet, era quello che non si poteva rappresentare realisticamente, che doveva essere omesso nel corpo femminile, a meno di non uscire dal territorio della pittura per entrare in quello della pornografia. Courbet ce l’ha fatta, il suo quadro è pittura senza aggettivi e a pieno titolo, ma ha dovuto rendere acefala la sua modella: non sapremo mai com’è il viso della donna a cui quella fica appartiene.
    Mi sembra che col cinema porno stia succedendo la stessa cosa, e che Siboni abbia fatto suppergiù quel che fece Courbet: è riuscito a mostrare scene apertamente porno in un film che è cinema in senso pieno e viene proiettato nei circuiti regolari; ma ha dovuto tenere separati i due piani con l’artificio del “cinema nel cinema”, il backstage eccetera. Chissà quando, finalmente, anche nel cinema si potrà fare quel che in pittura è pur avvenuto (per esempio con Lucien Freud e altri), cioè unire i due livelli separati di espressione; girare un film “serio”, un analogo di un Almodovar o di un Bergman, in cui senza stacco ma con naturalezza possano entrare i dettagli di un coito. Dopotutto, il cattivo funzionamento degli organi sessuali ha forti potenzialità narrative; e il voyeurismo dello spettatore (compresa eventuale attività masturbatoria) potrebbe essere calcolato nella strategia dell’ipotetico autore “integrato”. Ora soprattutto che anche i film “regolari”, non solo quelli porno, si vedono da soli o in piccola compagnia. Perché la malinconia del povero Puceau, costretto controvoglia a un rapporto anale passivo, dobbiamo vederla rappresentata come “controcanto” e non “mentre” il suddetto rapporto avviene ? Genere porno e cinema “senza aggettivi”, invece che incontrarsi soltanto nell’avanguardia e nell’ironia, potrebbero darsi una mano (è il caso di dirlo) a vicenda.

  4. @siti
    Recentemente un tentativo del genere è stato fatto, anche se il risultato non è né riuscitissimo né radicale come ci si potrebbe aspettare (il che forse è un pregio). Si tratta di Shortbus, una commedia dolceamara del celebre John Cameron Mitchell, regista indipendente di tendenza. Tre storie che s’intrecciano nella New York di oggi – una sessuologa anaorgasmica, una coppia gay con protagonista dalle tendenze suicide e una prostituta sadomaso amante dell’espressionismo astratto. Gli attori fanno sesso davvero, non ci sono dettagli in primo piano da porno amatoriale, il trailer del film proclama che è “il film più sessualmente esplicito mai realizzato in America al di fuori del cinema porno”. Ciò che c’è di buono è che il sesso che si vede non ha niente a che fare col registro da realismo “duro e crudo” a cui ci tende certo cinema estremo, “sperimentale” o di denuncia, ma racconta con molta naturalezza (e pochissimo compiacimento) i personaggi. Si calca molto sulla simmetria e sulla tipicità, sulla trasfigurazione metaforica, a un certo punto si tenta perfino un’allegoria (la città ripresa a volo d’uccello è di cartapesta; a un certo punto un black out cittadino convoglia tutti i personaggi al locale che dà il titolo al film; in un dialogo si parla di un revival degli anni ’60, “ma senza allegria”). Il tono è lieve ma malinconico, tocca qualche punta da tragedia ma senza esagerare, la sceneggiatura a tratti un po’ debole o farraginosa, qualche didascalia di troppo, personaggi che hanno affondi interessanti ma di cui, alla fine, si ha la sensazione di aver visto poco. La parte finale è liberatoria ma troppo consolante, c’è una certa indulgenza da controcultura che mitiga le parti drammatiche, soluzioni narrative facili. Cosa di grandissimo interesse è che il film è stato costruito con gli attori: sono stati fatti dei casting apertissimi, sono stati selezionati gli attori, li si è fatti vivere a contatto per un po’, finché non si sono scelte le coppie e le triplette, ed è stato chiesto loro di contribuire attivamente – con materiali scritti in proprio – al copione e alla storyline dei personaggi. Come accade spesso a teatro. Ebbene, di tutto il film credo che la cosa più forte rimangano i primi cinque-dieci minuti, che vedono alternarsi un ragazzo che si masturba piegandosi su se stesso per potersi succhiare, una coppia che fa sesso molto voracemente, una donna che frusta un uomo legato fino a farlo venire su una copia di Pollock. Lo vidi al cinema da solo, gli amici a cui l’avevo proposto si volatilizzarono tutti all’improvviso, e ricordo mezza sala che si svuotava nel giro di pochi minuti, soprattutto coppiette con ragazze in protesta. Alla fine, malgrado le consolazioni, un certo qual pugno nello stomaco resta, e non saprei neanche dire bene il perché. Il film riesce a parlare onestamente di infelicità, credo. Ha qualcosa di molto ingenuo che cattura. Ma quello che volevo dire è altro: che senza sesso, sarebbe stato un film men che mediocre. Non credo abbia nulla di eccitante o conturbante, altri film castigatissimi solleticano di più la fantasia. Ma crea una vera tensione verso i personaggi, il sesso visto così spontaneamente in una narrazione, nessun effetto di realismo ma piuttosto un sentimento (un’illusione?) di empatia. Credo che almeno per questo valga la pena vederlo.

  5. A distanza di qualche giorno vorrei ringraziare tutti coloro che sono intervenuti e aggiungere poche righe di commento.

    Non sono sicuro di aver capito la domanda di @sandra burchi: un po’ perché qualcosa sul titolo l’ho detta, un po’ perché aggiungere altro, quasi a fare del film un manifesto lacaniano, mi sembrava francamente sleale. Ne approfitto per ricordare che la pellicola di Siboni avrebbe dovuto intitolarsi “HPG Watch stream live – Sex cam HD porn free hard XXX”; e sarebbe stato forse meglio.

    Dell’intervento di @Vincenzo Maggitti mi colpisce soprattutto l’accostamento tra porno e horror. Sono anch’io convinto dell’esistenza di un legame tra i due generi, e di una comune espressività ‘lirica’ che li apparenta; mi piacerebbe un giorno approfondire il tema.

    Per finire, @siti. In teoria sono d’accordo con lui: cinematografia tradizionale e pornografia sembrerebbero aver bisogno entrambe di un rinnovamento formale, il quale non può che passare per una revisione teorica, e magari una proficua collaborazione; non si capisce perché il cinema ‘serio’ debba rinunciare all’energia e all’effetto di realtà di atti sessuali autentici, così come non si capisce perché il porno ‘commerciale’ debba continuare a depotenziarsi murandosi nei suoi stereotipi e nelle sue convenzioni. L’impressione è che prevalgano quei limiti produttivi che hanno saputo oltrepassare arti meno popolari ma più libere e più sottilmente realiste (perché più abituate all’inganno) come la letteratura e la pittura. In questo senso opere come “Il n’y a pas” o “Shortbus” risultano al tempo stesso dei passi nella giusta direzione, ma anche dei compromessi, annunciatori forse di una riforma ancora in nuce.

    Questo, dicevo, in teoria. In pratica, esperti di porn studies come Giovanna Maina ci fanno notare che esistono molte pornografie, e che alcune di queste non individuano più il cinema come controparte, preferendo incrociare per esempio la videoarte o la performance: alla sclerosi del porno mainstream, sempre più di massa, già si oppongono, in rete e fuori, gli anticorpi di pornografie non allineate, minoritarie e diversamente realistiche. Non solo: è possibile che il sogno di una pornografia a diverso titolo ‘di qualità’ rischi di togliere al genere (e ai suoi sottogeneri) quella bruttezza formale, quell’inconsapevolezza, quell’indifferenza che sono forse parti integranti della sua verità e della sua forza. Quando il cinema ‘serio’ si è avvicinato alla pornografia (Warhol, Pasolini) ha spesso creato opere belle e interessanti – ma ha sempre dissolto la pornografia, integrandola in un oggetto estetico che non era più lei. Non sarà che quella che autolesionisticamente vogliamo preparare è la fine di un genere, più che la sua metamorfosi?

  6. Nota a margine (e forse a vanvera, non sono un esperto del campo e ci ho pensato solo leggendo questo interessante thread).

    il problema se sia possibile fare porno-arte è di grande interesse. Il porno nasce senza la minima ambizione artistica, e infatti viola di botto due caratteristiche fondamentali dell’arte così com’è intesa dai Greci al Romanticismo borghese compreso: 1) mette in scena il coito effettuale, dunque rifiuta la separazione tra scena e platea, mondo delle idee e mondo storico, simbolo ed effettualità 2) è totalmente eteronoma, perché si propone lo scopo di eccitare lo spettatore e basta (qui sta la sua parentela con il comico puro, che si propone di far ridere lo spettatore e basta).

    In questo senso, la porno-arte si apparenterebbe agli esperimenti modernistici delle avanguardie pittoriche novecentesche: es., gli objets trouvées (un orinale, un ferro da stiro, etc.) che tolti di peso dalla realtà quotidiana e trasposti nella cornice di una esposizione vogliono alludere all’inesistenza della dimensione separata “artistica” e dell’arte in sé (è il movimento complementare a quello surrealista, che vuole far tracimare l’arte e il simbolo nella vita quotidiana); o a certi esperimenti del pop come il lavoro di Jeff Koons, che non solo usa oggetti pornografici, ma sposa Cicciolina e la inserisce nei suoi allestimenti.

    In realtà, mi pare che un tentativo di “porno-arte” potrebbe essere interessante soprattutto per quel che in essa non c’è. Non c’è il senso, non c’è il simbolo, non c’è la separazione tra scena e platea, mondo dello spirito e vita quotidiana: e dunque che cosa resta?
    Resta un’insensatezza emozionante (e se ci si pensa su, questa potrebbe essere una buona descrizione del mondo contemporaneo). Se devo pensare a un precedente, mi viene in mente l’opera di Harold Pinter, che per primo mette in scena personaggi a cui sono state chirurgicamente asportate motivazioni, retroterra sociale e psicologico, etc., e che vengono scaraventati in situazioni drammatiche delle quali non si sa nulla, così che allo spettatore non resta che assistere ai puri rapporti di forza di conflitti (inspiegati) che si evolvono sulla scena.

    Se ho ragione, il tentativo di porno-arte richiederebbe il massimo di realismo naturalistico, con la rinuncia ai canovacci da commedia dell’arte che attualmente ne regolano le sceneggiature, e ai manierismi degli attori specialisti che le interpretano. La vicenda dovrebbe essere ridotta al puro e semplice atto sessuale, consumato a) da attori molto ben preparati nel realismo naturalistico (R. De Niro, per intenderci) b) attori non professionisti, presi dalla strada (non quella delle passeggiatrici). Lo sviluppo drammatico potrebbe essere garantito, ad esempio, dalle voci fuori campo: niente vieta di far ascoltare i pensieri degli scopanti, per esempio…

    Aggiungo poi che il porno mi sembra l’altra faccia (il rovescio della medaglia, il rovesciamento dialettico) della ideologia dei diritti umani.
    Nella dimensione dei rapporti umani privati e intimi, l’ideologia dei diritti umani è un contrattualismo individualistico onnipervasivo (prima di corteggiare una una donna devi farle firmare il consenso informato e la liberatoria, sennò rischi la denuncia per stalking, molestia, etc.), totalmente invivibile e inapplicabile, in breve impossibile, così come è totalmente invivibile, inapplicabile e impossibile l’ideologia dei diritti umani nella sua dimensione politica (e infatti si traduce nel suo contrario, cioè nella imposizione a mano armata della disgregazione, del caos, dell’asservimento).
    Ecco, l’ideologia dei diritti umani nella sfera intima si traduce nel porno, cioè nello sfruttamento intensivo delle risorse sessuali proprie e altrui a scopo di profitto (denaro, piacere, prestigio), legittimato dal consenso formale e giuridicamente valido dei partecipanti.
    Riflettendo sul tema grazie a questo interessante thread, mi è tornata alla mente una caratteristica del porno soprattutto americano che mi ha sempre dato un po’ di disagio: i sorrisi degli attori, di una falsità credo mai raggiunta prima nella storia umana. Ho visto anche dei filmati dove una donna viene brutalizzata, violentata, umiliata, etc., in cui la vittima non solo sorride così durante la cura, ma alla fine del filmato certifica, di nuovo sorridendo ed riaffermandolo anche verbalmente, che va tutto bene, che ha accettato liberamente e con piacere di sottoporsi a quel calvario, etc.
    Non mi colpisce che una donna (o un uomo ) possa provare piacere nell’umiliazione e nella sofferenza, è una perversione ben nota e molto diffusa; mi colpisce l’obbligo di sorridere e certificare il “consenso informato” all’operazione.
    E’ l’equivalente di una procedura giuridica, di una richiesta di intervento al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, di un procedimento al Tribunale Internazionale dell’Aia. Se c’è la copertura giuridica, le bastonate non sono violenza, i bombardamenti non sono guerra, le pisciate in faccia non sono umiliazione, le torture ai prigionieri di guerra non sono crimini, in breve: il male è bene.
    E’ un rapporto dialettico analogo a quello che, nella civiltà capitalistico borghese dei secoli fra il XVIII e il XX, si stabiliva tra la morale kantiana dell’imperativo categorico (sublime e inapplicabile) e lo sfruttamento e l’alienazione nei rapporti sociali.

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