di Carmen Dell’Aversano

Nella cultura occidentale, fin dalle origini, non soltanto bellezza e amore si sono implicati reciprocamente (cosa che potrebbe sembrare non soltanto ovvia ma anche tutto sommato neutra), ma (cosa meno ovvia, e sicuramente meno neutra…) in un numero allarmante di casi, a venire rappresentato come logica conseguenza dell’amore suscitato dalla bellezza è stato lo stupro: dagli innumerevoli miti in cui varie divinità olimpiche si invaghiscono, a causa della loro eccezionale bellezza, di esseri umani o di divinità minori e li “rapiscono”, a situazioni come quella di Titus Andronicus II i, in cui Chiron e Demetrius dichiarano di “love” Lavinia subito prima di violentarla e mutilarla orrendamente, uno dei principali archetipi narrativi dell’erotica occidentale è la violenza sessuale che ha come motivazione presentata come razionale e indiscutibile l’ “amore” suscitato dalla bellezza della vittima. Che, malgrado i progressi compiuti dal diritto e, in parte, anche dalla società, questa concezione goda ancora oggi di ottima salute è confermato, oltre che dalla cronaca, dal diffuso quanto sinistro luogo comune “l’uomo è cacciatore”, che equipara il desiderio amoroso alla caccia, il suo oggetto alla selvaggina, e il suo soddisfacimento a un atto di violenza unilaterale e definitiva. Questo scritto esplora una possibile motivazione di questo spaventoso collegamento attraverso un’analisi semantica della qualità antonomastica degli oggetti di desiderio: la bellezza.

 

Prima osservazione. La qualità della bellezza può essere attribuita indifferentemente a persone umane e a non umani, come pure a oggetti inanimati. È importante osservare che questa situazione è oltremodo rara; oltre alla bellezza (e, naturalmente, al suo contrario), le uniche qualità distribuite secondo questo schema sono quelle che hanno a che fare con la materialità dei corpi, come le dimensioni e il peso. Ma anche rispetto a queste la bellezza fa eccezione, in quanto le qualità che hanno a che fare con la materialità corporea riguardano, per definizione, tutti i corpi materiali, mentre la bellezza riguarda solo un sottoinsieme, in genere considerato abbastanza ristretto, di questi (e può, tra l’altro, riguardare oggetti non materiali); sottoinsieme che però interseca, travalicandole, le categorie fondamentali in cui la cultura suddivide l’esistente.

 

Seconda osservazione. Definire “bello” un oggetto implica , affermare di desiderarne il possesso nella forma socialmente prescritta per quell’oggetto. Possiamo renderci conto facilmente di questo fatto esaminando le nostre reazioni di parlanti nativi alle seguenti coppie di frasi:
“è una bella casa e ci abiterei” “è una bella casa e non ci abiterei”
“è una bella casa ma non ci abiterei” “è una bella casa ma ci abiterei”
In entrambi i casi, percepiamo l’uso della congiunzione come corretto nel primo esempio e come non corretto nel secondo, e questo per due motivi: il primo è che le congiunzioni coordinanti “e” e “ma” si usano per collegare due elementi percepiti rispettivamente come semanticamente omologhi nel caso di “e”, e come opposti nel caso di “ma”; il secondo è che noi troviamo logico che la bellezza di una casa sia una ragione valida per desiderarne il possesso nella forma socialmente prescritta per le case, che è abitarci.

 

Terza osservazione. Come abbiamo appena constatato, la cultura prescrive per ciascuna classe di oggetti belli non solo l’atteggiamento da assumere (appunto il desiderio di possesso), ma anche l’esatta modalità di relazione tramite cui deve essere ricercato e conseguito il soddisfacimento di questo desiderio e, di conseguenza, interdice implicitamente tutte le altre: e questo non vuol dire soltanto che chiunque desideri indossare un bell’uomo o fare sesso con un bel cappotto avrà presumibilmente una vita sociale assai limitata, compensata magari dal fatto di trovarsi immortalato in un’eventuale edizione aggiornata della Psychopathia Sexualis o di The Silence of the Lambs; vuol dire anche che data, ad esempio, una bella donna, non è concepibile volersi limitare a guardarla, ma volerci fare sesso è (per il soggetto canonico del desiderio erotico, il maschio eterosessuale) praticamente obbligatorio: una donna che venga avvicinata da qualcuno che, senza avere con lei alcun particolare rapporto, le dica “sei bellissima e vorrei fare sesso con te” sarà verosimilmente infastidita, offesa, o anche spaventata, ma non si interrogherà sulla normalità dei desideri del suo interlocutore; se la stessa donna, nelle stesse circostanze, si sentisse dire invece “sei bellissima e vorrei guardarti per un paio d’ore”, troverebbe verosimilmente questa situazione assai più destabilizzante e minacciosa, in quanto l’interlocutore starebbe esprimendo un desiderio che esorbita dalla costruzione sociale della normalità.
(Credo sia importante dissipare subito un possibile equivoco: la strabiliante varietà delle forme che il canone della bellezza umana – e in particolare femminile – ha assunto nella storia e nella geografia della nostra specie rappresenta secondo me una prova definitiva della sua natura socialmente costruita. Checché ne dicano – o ne scrivano – i sociobiologi, non ci sono motivi “evoluzionistici”, “biologici” o “hard-wired” per considerare sessualmente attraente una top model contemporanea più di quanto ve ne siano per la Venere di Willendorf o per quella di Botticelli, visto che nessuna delle tre incarna un modello univoco e vincolante di successo riproduttivo. In particolare, chiunque sia tentato di credere che gli attuali canoni di bellezza femminile rispecchino standard di adattamento darwiniano finalizzato alla riproduzione farebbe bene a ricordare che, al di sotto di un certo indice di massa corporea, la denutrizione porta inevitabilmente all’amenorrea. Pertanto, nessuno dei comportamenti che la norma sociale collega alla bellezza ha alcunché di “naturale” o di “necessario”.)

 

Le “istruzioni per l’uso” socialmente condivise per ciascuna categoria di oggetti belli prescrivono dunque in maniera assai dettagliata specifiche modalità di possesso e di godimento e, reciprocamente, interdicono tutte le altre. Come tutte le categorie sociali, insomma, la bellezza rappresenta un potentissimo strumento per prevedere e controllare i comportamenti. La differenza con altre categorie, che a prima vista possono apparire di rilevanza sociale molto maggiore (cittadino/straniero, omosessuale/eterosessuale…), sta nell’applicabilità universale della categoria della bellezza e, contemporaneamente, nella bizantina ricchezza di dettagli delle prescrizioni relative all’atteggiamento da tenere nei suoi confronti. Questa combinazione tra la vastità del suo ambito di applicazione e la specificità delle prescrizioni che la riguardano fa della bellezza una categoria fondamentale per la performance della normalità.

 

Queste tre osservazioni insieme hanno un’ulteriore conseguenza meno ovvia. La bellezza è una qualità che accomuna esseri umani, altri esseri viventi e oggetti inanimati nella posizione di oggetto non soltanto aproblematico ma socialmente prescritto di una qualche forma di desiderio di possesso. Pertanto, anche quando la attribuiamo a un essere senziente, o addirittura umano, la bellezza è una qualità che lo assimila a un oggetto. Questo è, tra l’altro, un importante motivo per cui la nostra cultura ne fa una qualità quintessenzialmente femminile.

 

Ma questo è solo l’inizio.
La bellezza, infatti, non si differenzia dalle altre qualità che è possibile attribuire a tutti i corpi materiali unicamente per il fatto di riguardare un sottoinsieme abbastanza ristretto di casi, ma anche per una caratteristica assai più importante. A differenza del peso o delle dimensioni, la bellezza viene comunemente considerata in grado di causare le azioni dei soggetti. In particolare, un oggetto viene considerato bello unicamente se può essergli credibilmente attribuita la capacità di motivare le nostre azioni (“abito in questa casa perché è bella”). Non solo: per l’infinita varietà di oggetti a cui può essere attribuita, e per la varietà specularmente infinita delle relazioni socialmente prescritte con tali oggetti, la bellezza può motivare credibilmente una vertiginosa quantità e varietà di azioni. Pertanto, nella rappresentazione sociale dei comportamenti, la bellezza finisce per funzionare come un motivatore universale, e assume pertanto un ruolo centrale nelle spiegazioni culturalmente condivise per un’immensa quantità e varietà di eventi della vita sociale.
Potrei addurre infiniti esempi; mi limito a uno. Tutti ricordiamo che la narrazione fondante della civiltà classica, e della letteratura occidentale, ha per tema una guerra di estensione continentale il cui motivo è il desiderio di un uomo per una bella donna che è già legittimo possesso di un altro uomo; quello che forse non tutti ricordano è che, dalle stesse vittime di un assedio ormai decennale che sta per concludersi nel modo più rovinoso, questo motivo è considerato un buon motivo:

 

Non sono da criticare i Troiani e gli Achei dalle belle gambiere,
se tanto tempo hanno sofferto per una simile donna,
che terribilmente somiglia alle dee immortali.
(Iliade III, 156-159, trad. G. Paduano.)

 

L’ “oggetto” bello (che naturalmente può benissimo essere una persona, ma che, come abbiamo visto sopra, per il fatto stesso di essere qualificata come bella, viene automaticamente declassata a cosa), pertanto, non viene percepito come inerte bensì, al contrario, come in grado di esercitare su di noi un’azione in relazione alla quale le nostre azioni, nonostante il nostro status di soggetti, non rappresentano libere iniziative bensì reazioni, nulla più che riflessi condizionati in risposta allo stimolo irresistibile della bellezza. Foucault ha definito il potere come “azione sulle azioni”; come abbiamo appena visto, la bellezza è caratterizzata non solo dalla capacità di esercitare un’azione sulle azioni, ma anche dal fatto che la forza di quest’azione è percepita come irresistibile. Di conseguenza la definizione di Foucault ci permette di sintetizzare in maniera particolarmente icastica la natura paradossale della bellezza: la bellezza è la qualità che conferisce il potere assoluto a un oggetto.

 

Il funzionamento della relazione con un oggetto bello nella situazione che, dal nostro punto di vista di soggetti umani, riveste il maggiore interesse viene descritto con lucidità abbagliante nella ballata di Goethe Der Erlkönig:

 

  Ich lieb’ dich, mich reizt deine schöne Gestalt
[Ti amo, mi attira la tua bella figura]

 

Nell’autorappresentazione dell’amante, il soggetto di “Ich lieb’” nella frase esplicativa che segue si rivela come oggetto: il modello behavioristico ante litteram del re degli elfi (e di Goethe) rappresenta l’amore come nulla più che una reazione allo stimolo (per una straordinaria coincidenza storico-linguistica questo è, tra l’altro, il significato proprio di Reiz) rappresentato dalla bellezza. E questa è la giustificazione dell’atto estremo e definitivo che segue immediatamente la dichiarazione d’amore:

 

  Und bist du nicht willig, so brauch’ich Gewalt.
            […]
  In seinen Armen das Kind war tot.
[E se tu non vuoi, uso la violenza.
[…]
Nelle sue [del padre] braccia il bambino era morto.]

 

Come abbiamo fatto sopra in relazione all’uso delle congiunzioni “e” e “ma”, possiamo (e dobbiamo) interrogarci sulle precondizioni della comprensione che ci fanno percepire come “letterariamente ben riuscita”, vale a dire verosimile e convincente nonché, a un livello più fondamentale, ragionevole e comprensibile, la narrazione di Goethe: com’è possibile che dall’affermazione di un amore presentato come reazione allo stimolo (“Reiz”) della bellezza si passi direttamente ad un uso della violenza (“Gewalt”) che non si ferma fino all’omicidio?
La consequenzalità narrativa della ballata di Goethe è la consequenzialità logica della cultura dello stupro. Lo stupratore sente di avere diritto al possesso di una persona che lo attira per due motivi logicamente incompatibili ma emotivamente sinergici: il primo è che la bellezza di questa persona ne fa un oggetto, e quindi legittima come ragionevole e aproblematico, un desiderio di possesso nei suoi confronti; ma il secondo è che lo stupratore percepisce il desiderio che prova come una reazione a un’azione di un soggetto esterno di fronte a cui lui è completamente passivo, che è l’attrazione esercitata dalla persona bella.
L’uso della violenza ha l’effetto pratico, ma soprattutto la fondamentale funzione psicologica e sociale, di ribadire la tranquillizzante ripartizione delle posizioni soggetto/oggetto, e pertanto non semplicemente di negare l’autodeterminazione della persona bella, bensì anche e soprattutto di riparare l’oltraggio all’ordine costituito rappresentato da quella che viene percepita come un’azione di cui la persona bella è soggetto autonomo e sovrano, attraverso la quale esercita, come abbiamo visto, un potere percepito come assoluto e irresistibile, e che pertanto viene interpretata come una ribellione al ruolo di oggetto che rappresenta una necessaria e indiscutibile implicazione della sua bellezza.

 

E proprio questo è il significato, nascosto ma logicamente necessario, della giustificazione onnipresente e demenziale dello stupro, in tutte le forme invariabilmente grottesche e ridicole in cui viene declinata: “Se l’è andata a cercare”. Le giustificazioni di copertura, nella loro inesauribile insostenibilità (“Portava un abito scollato / indossava una gonna corta / era in giro da sola di notte / era per strada / camminava / respirava / esisteva”) occultano tutte la stessa motivazione fondamentale, che probabilmente criminali, avvocati e magistrati hanno le stesse difficoltà a concettualizzare analiticamente, anche se riescono a percepirne chiaramente gli effetti. Motivazione che non ha semplicemente a che fare con l’attrazione esercitata da una bellezza “provocante”, che legittima l’uso della forza nel caso in cui la “provocatrice” prenda la decisione, fraudolenta e pertanto sanzionabile, di non onorare la cambiale in bianco che il suo aspetto rappresenta per tutti, in qualunque circostanza e in qualunque momento. Quello che vuol dire veramente “Se l’è andata a cercare” è: “L’attrazione è un’azione che la persona bella compie di propria iniziativa, e di cui è pertanto responsabile; non solo, ma è un’azione sovversiva, in quanto è, contro ogni logica categoriale, un’azione compiuta da un oggetto, dal momento che la qualità che definisce la persona attraente, la bellezza, è una qualità che suscita, invita e legittima l’istituzione di una relazione oggettivante per definizione, la relazione di possesso. Pertanto, l’attrazione colloca il soggetto che la subisce in una posizione inaccettabile, in quanto afferma la sua passività e sancisce la sua subordinazione rispetto a quello che non è, e non deve in alcun modo e in alcuna circostanza essere, altro che un oggetto. L’esperienza dell’attrazione mette in questione, nella maniera più radicale e più inequivocabile, la naturale dicotomia soggetto/oggetto e la ripartizione socialmente naturalizzata di questi ruoli, che sono alla base della ripartizione delle categorie nella cultura; di conseguenza è un’azione che giustifica, anzi che richiede, una sanzione esemplare, e in particolare esige che, per ristabilire il “naturale” equilibrio naturale, il vero soggetto ribadisca la propria autonomia e autodeterminazione compiendo un’azione di repressione violenta sull’oggetto.” Azione che naturalmente non sarebbe necessaria, anzi addirittura neppure concepibile, se l’oggetto fosse veramente tale.

 

Come abbiamo visto, la connotazione oggettivante della bellezza la rende una qualità essenzialmente femminile. Questa attribuzione socialmente obbligata è di interesse non secondario, in quanto si trova alla base di una ferrea ripartizione dei ruoli nella narrazione del desiderio canonica per nostra cultura: un maschio (naturalmente eterosessuale) vede una donna bella, la desidera, la avvicina, la possiede. Di conseguenza, per quanto nella realtà empirica gli stupri di uomini siano, purtroppo, non soltanto attestati ma anche frequenti, in linea di principio le vittime designate della logica dello stupro, nella forma in cui l’abbiamo appena schematizzata, sono le donne.

 

[Immagine: Gian Lorenzo Bernini, Il ratto di Proserpina].

6 thoughts on “Bellezza, desiderio, violenza. Per un’analisi della cultura dello stupro

  1. Questo è valido per le rappresentazioni artistiche dello stupro. Ma nella realtà, la bellezza non è un elemento che accomuna le vittime di stupro. Le persone vittime di violenza sessuale sono quelle deboli di cui è facile approfittarsi, quelle che “devono” essere punite, o quelle che rappresentano il punto debole di un altro uomo. La bellezza ricopre un ruolo secondario nel suscitare l’attrazione; molto più importante è la possibilità di esercitare un potere su qualcuno.

  2. La bellezza come causa dello stupro è un mito (per l’esattezza, un mito di stupro, come l’idea che l’uomo sia cacciatore o che la persona se la sia andata a cercare) che serve a mascherare la reale dinamica sottostante la violenza sessuale, distogliendo l’attenzione da chi la esercita per concentrarla su chi ne è vittima. Quindi questa interessante e acuta analisi riguarda uno strumento retorico della cultura dello stupro, ma credo sarebbe utilmente completata se proseguisse fino a prendere in considerazione “the whole picture”: il meccanismo maggiormente rivelatore del funzionamento della cultura dello stupro non consiste nell’effetto suscitato dalle caratteristiche (estetiche o di altro tipo) della vittima, ma nel desiderio (bisogno?) dello stupratore di trasformare gli altri in oggetti, per ribadire la propria posizione o identità sociale. È la relazione di potere che lo stupratore attiva a rendere la vittima oggetto, e non una sua caratteristica personale come la bellezza o la debolezza.

  3. PER LA PACE PERPETUA. AL DI LA’ DELLA “DIALETTICA DELLA LIBERAZIONE” . Un’indicazione di Gregory Bateson…

    “L’uso della violenza ha l’effetto pratico, ma soprattutto la fondamentale funzione psicologica e sociale, di ribadire la tranquillizzante ripartizione delle posizioni soggetto/oggetto, e pertanto non semplicemente di negare l’autodeterminazione della persona bella, bensì anche e soprattutto di riparare l’oltraggio all’ordine costituito…” (Carmen Dell’Aversano)

    MITO E STORIA. All’origine della tradizione europea, c’è la guerra di Troia e, per comprendere la guerra di Troia, c’è da ricordare Elena e “il giudizio di Paride”: la mela d’oro di Eris (dea della discordia), con l’iscrizione “alla più bella”, è consegnata da Paride non ad Era, né ad Atena, ma ad Afrodite, e Afrodite “regala” Elena a Paride. A questo “dono”, c’è da collegare l’altra e complementare tradizione, quella biblica, altrettanto a fondamento della tradizione europea: la “donazione” da parte di Dio di Eva ad Adamo e di Eva che dà la “mela” ad Adamo!!!

    QUESTO “NODO” MITICO non sollecita, forse, a meglio riflettere sulla nostra umanissima vicenda e sulla sua più che tragica situazione?! Non sollecita, forse, ad uscire da questo vecchio (ormai “delirante”) orizzonte “preistorico”, troiano e biblico?!

    Se non si vuol fare la fine di Troia… non è meglio cercare di guardare in bocca a ogni cavallo che ci vien donato, e uscire – come consigliava G. Bateson, in una sua riflessione del 1967 – dalla logica “dialettica” della “liberazione” (cfr.: Aa.Vv.: “Dialettica della liberazione”, Torino, Einaudi, 1969)!?

    Sul tema, mi sia consentito, cfr. TROIA, L’OCCIDENTE, E IL PIANETA TERRA. PER LA PACE PERPETUA – http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=1612

    Federico La Sala

  4. La bellezza è un potere che suscita diverse reazioni: timore, reverenza, piacere, rispetto, dolcezza. La bellezza è divina, inesplicabile, magica. Precaria e breve.
    Lo stupro è invece un potere che nasce da invidia, violenza, rabbia, superbia. Lo stupro è della pochezza del singolo, che fa eventualmente gruppo per trovarsi tra simili. Tragicamente vuoto di senso.
    Il legame tra stupro e bellezza è solo occasionalmente vero, ma nel ragionamento del testo offrirebbe quasi una giustificazione allo stupro, e non mi pare necessario.

  5. “Definire “bello” un oggetto implica , affermare di desiderarne il possesso nella forma socialmente prescritta per quell’oggetto”

    Ci sono edifici belli architettonicamente che uno non desidera possedere, quanto semplicemente guardare. Ci sono un sacco di oggetti belli esteticamente con i quali uno non ci farebbe niente, ma che ugualmente si riconoscono come belli. Ci sono un sacco di indumenti che mi piacciono esteticamente che non indosserei: quelli femminili perché appunto femminili e quelli maschili nei quali non mi troverei a mio agio.

    Il motivo per cui una bella donna non ci si limita a volerla guardare non dipende certo da questa premessa errata, ma dalla natura tanto della donna tanto dell’uomo. E poi non è neanche del tutto vero. Ci sono donne esteticamente stupende, ma per nulla sensuali, per vari motivi. Pur essendo etero, trovo il corpo di Roberto Bolle stupendo. Il desiderio sessuale è un dato naturale, e non si può in alcun modo ricondurlo a una prescrizione culturale.

    “L’ “oggetto” bello (che naturalmente può benissimo essere una persona, ma che, come abbiamo visto sopra, per il fatto stesso di essere qualificata come bella, viene automaticamente declassata a cosa)”

    Quando la categoria di bellezza viene applicata a un essere senziente ciò non implica in alcun modo la sua declassazione a oggetto. Questo è uno dei più grandi errori dell’epoca attuale, oltre che essere un errore logico madornale.

    Per il resto i canoni estetici non rappresentano la realtà dell’apprezzamento maschile. Le top model anoressiche sono espressione di una funzione estetica della moda, ma per gli uomini fa fede la massima di Califano: meglio quattro chili in più che quattro etti in meno.

    Gli stupri hanno a che fare con il sesso molto più che con la bellezza. Il motivo per cui le donne sono le vittime designate dipende dall’evoluzione della nostra specie nella forma patriarcale, tratto comune ad altre specie a noi affini per dimorfismo sessuale. La cultura dello stupro e le conseguenti narrazioni arrivano dopo, non prima.

  6. Dell’Aversano’s algorithm is clear: beauty > desire > objectification > attempted possession > rape. The root of violence is in desire itself, as Matthew says in his Gospel: “But I say you that everyone who looks at a woman with lust has already committed adultery with her in his heart.” (Matthew, 5:28).

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