di Paolo Costa

 

Sovranisti e Macroniani

 

Osservato dal punto di vista di un filosofo della politica formatosi a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta del Novecento – anni dominati dal dibattito tra liberali e comunitari – il repentino cambio di tenore della discussione nella sinistra italiana causato dall’esito delle ultime elezioni politiche è un fenomeno allo stesso tempo sorprendente (per la sua velocità) e prevedibile (negli esiti). Per andare direttamente al punto, descriverei il nuovo scenario come dominato dalla polarizzazione tra sovranisti e macroniani (o macrosovranisti e micromacroniani, come mi piacerebbe chiamarli, se l’ironia non avesse effetti nefasti sulla qualità del ragionamento, soprattutto oggi, nell’epoca del sadismo blasé incentivato dai social network). Parlando in generale, i sovranisti sono accomunati da un’insofferenza spiccata verso la rappresentazione liberale della relazione tra i diritti come fonte di empowerment individuale e l’anonimo potere coercitivo dello Stato e del Mercato – una rappresentazione che considerano allo stesso tempo sbagliata, moralista e ipocrita – mentre i macroniani vivono tale ostilità verso la teoria e la pratica di un ordinamento sociale imperniato su procedure rigorose e innovazione dall’alto come il prodotto di una critica unilaterale, preconcetta e ingenerosa e, nelle sue punte estreme, come un rigurgito di barbarie che ha reso inopinatamente verosimile la prospettiva di una catastrofe politica ed economica anche in Europa.

 

Per molti aspetti, il nuovo dualismo ideologico rispecchia quello tra il costruttivismo liberale e il realismo comunitario, ma l’umore che domina la conversazione attuale è molto diverso da quello passato. In che senso? La prima differenza – la più macroscopica – è l’inversione dell’onere della prova. Mentre trent’anni fa gli esponenti della koiné liberale godevano di un vantaggio di posizione che faceva apparire tutti i loro avversari, a dispetto delle differenze, come dei neotradizionalisti, oggi il senso comune liberale è sulla difensiva. Che cosa ha minato alle radici un’egemonia che a un certo punto era apparsa inattaccabile? Per quel che vale, quella che seguirà è la mia interpretazione, pennellata a tinte grosse, del significato storico di questa inversione del campo di influenza intellettuale a cui aggiungerò alla fine qualche riflessione sui buoni motivi per resistere alla svolta sovranista nel nome di una visione della democrazia non meno critica nei confronti dell’eredità (im)politica del liberalismo.

 

La parabola storica del liberalismo

 

Fin dalle origini il liberalismo è stato non solo una teoria del governo imperniata sulla salvaguardia delle libertà individuali, ma soprattutto una filosofia della civilité. Parlando di «filosofia della civiltà» mi riferisco essenzialmente all’invenzione e diffusione di un ideale di soggettività potenziata a cui corrispondono, dal lato della teoria, il primato sistematico dell’individuo sulla comunità di appartenenza, una visione procedurale della ragione e una concezione non paternalistica (e, in ultima istanza, non dialettica) del rapporto tra desideri e conoscenza. In un’ottica liberale, detto altrimenti, una concezione esile e volontarista dell’identità personale è la condizione per l’insediamento dell’idea di autoaffermazione come principio di legittimazione dell’ordine sociale e, tacitamente, anche come segnaposto dell’unica destinazione immaginabile del genere umano: la libertà dalle interferenze esterne in un piano di vita scelto dall’individuo in piena autonomia.

 

Nel liberalismo delle origini, fatte le debite eccezioni (Hobbes e Mandeville, su tutti) il potenziamento della soggettività mantiene una patina di nobiltà perché la libertà autentica dell’individuo si realizza non come capriccio, ma come progetto ragionevole. Si manifesta cioè nella forma seducente di un’autodisciplina spontanea, quasi che esistesse un’armonia prestabilita tra il desiderio umano e la razionalità strumentale, tra il soggetto desiderante e l’individuo deliberante, tra gli impulsi e i mezzi più idonei per il loro soddisfacimento. Le nuove discipline del corpo (per esempio le buone maniere studiate da Norbert Elias) costituiscono infatti una forma di soggettivazione il cui orizzonte ideale è il riconoscimento istintivo del proprio interesse più autentico e una forma di cooperazione basata non sull’altruismo, ma su una forma di egoismo socialmente non distruttivo.

 

È questa armonia prestabilita che è andata via via erodendosi a mano a mano che la società cooperante dei produttori e lavoratori si è trasformata per gradi in una comunità di consumatori e imprenditori del sé sempre più in balia di forze impersonali deresponsabilizzate sia dal lato del soggetto (vittima di un dedalo di desideri sempre più compulsivi) sia dal lato del mondo (la gabbia di acciaio di cui parlava Max Weber). In un caso da manuale di eterogenesi dei fini, l’effetto generale è stato un indebolimento crescente della soggettività, anziché un suo potenziamento.

 

È importante notare en passant come questa diminuzione del senso di padronanza del proprio destino è proceduta parallelamente a due processi all’apparenza indipendenti: (1) la progressiva spoliticizzazione delle società affluenti e (2) il declino del potere di attrazione dei moventi ideali, di cui la crisi delle utopie politiche è soltanto il sintomo più eclatante. Osservati dal punto di vista degli individui, questi processi storici complessi ed enigmatici sembrano avere cause sia esogene sia endogene. Tra le cause esterne un ruolo di primo piano spetta evidentemente alle trasformazioni economiche che hanno condotto alla globalizzazione del capitalismo e del suo modello di stabilizzazione dinamica basata su una forma apparentemente inarrestabile di distruzione creatrice. Tra le seconde spiccano, da un lato, la diffusione di una concezione strumentale della politica e di una visione aggregativa dei beni comuni e, dall’altro, la perdita di radicamento nell’esperienza dell’idea che il destino personale dipenda in modo significativo anche dalla capacità di trascendere se stessi mediante l’accesso a un dominio immateriale di contenuti ideali (verità oggettive, norme intersoggettive, beni architettonici, valori intrinseci, ecc.). Con l’assottigliamento di questi contrappesi la soggettività moderna si è come dissolta nell’aria lasciando dietro di sé il suo simulacro nella forma di un bizzarro edonismo stoico che, memore della lezione del barone di Münchausen, spinge i suoi adepti a scommettere sulla propria autorealizzazione anche in un universo saturo di contingenza e caratterizzato da una moltiplicazione esponenziale e disordinata delle opzioni di scelta.

 

Democrazia e sovranità

 

È da questa crisi del liberalismo in quanto senso comune della civiltà occidentale moderna che trae gran parte della sua forza persuasiva il realismo politico sovranista ed è sempre essa, di converso, a spingere i macroniani a insistere ancora di più sulla forza civilizzatrice della forma di vita liberale, vissuta ora ansiosamente come ultimo baluardo contro la barbarie. Questa polarizzazione, a sua volta, accentua l’impressione di trovarsi di fronte a un conflitto tra l’élite (composta da coloro che non hanno grosse difficoltà a superare lo scoglio della socializzazione alla civilité) e il popolo (identificato con quanti invece faticano ad adeguarsi con successo al nuovo modello di personalità e sociabilità). È da tale tensione che scaturisce, infine, quel fenomeno politico registrato dalla maggioranza degli osservatori contemporanei e descritto in genere come la disponibilità di una porzione crescente dei cittadini delle democrazie occidentali a rinunciare a una quota significativa di una libertà che viene percepita come disabilitante – «negativa» in senso assiologico – in cambio di una condizione che viene immaginata invece come più sicura o, se vogliamo, di maggiore sovranità.

 

Il cambiamento appena analizzato concerne quindi il senso generale di una perdita di controllo sul proprio destino che i sovranisti hanno oggi buon gioco a sfruttare proponendo una radicale ripoliticizzazione delle questioni fondamentali dell’esistenza. Nel loro orizzonte, in effetti, il concetto di sovranità funziona retoricamente come un surrogato del senso di empowerment che deriva dalla certezza tacita di poter influire sul proprio destino. A quella che le persone percepiscono come una perdita di sovranità personale i sovranisti rispondono astutamente proponendo un recupero di sovranità politica che, significativamente, situano al livello intermedio dello stato-nazione: la più tipica delle invenzioni politiche moderne.

 

Già questo dovrebbe però far suonare un campanello d’allarme nelle teste di coloro che non sono insensibili al fascino di un appello alla politicizzazione del disagio esistenziale contemporaneo (e chi scrive appartiene a questo gruppo di persone). La scelta dello stato nazionale come comunità di destino, infatti, non solo non è teoricamente innocente, ma è anche il sintomo di un punto cieco nel discorso sovranista, che ha una rilevanza speciale soprattutto per chi si pone l’obiettivo di declinare tale discorso in un’ottica socialista.

 

Provo a spiegarmi meglio. Il primo nodo riguarda, per così dire, la diagnosi del tempo. Se il sovranista è infatti uno che sostiene che la soluzione alla crisi del liberalismo risiede in un sostanziale recupero di sovranità da parte degli stati nazionali, la sua preferenza per una comunità che è non meno immaginata delle comunità cosmopolitiche a cui orienta idealmente le proprie scelte il cittadino liberale, è tutt’altro che ovvia. Anzi, proprio questo deficit di giustificazione porta alla luce un dato di realtà troppo spesso trascurato dai critici della globalizzazione: il fatto, cioè, che, retorica della globalizzazione a parte, gli stati non hanno mai smesso di essere i principali attori sulla scena politica internazionale. Sono solo gli stati deboli che hanno perso la capacità di esercitare un controllo reale sul proprio destino. Ma questa non è una novità nella storia umana. Forse una volta la causa principale della perdita di sovranità era la debolezza militare e oggi è la fragilità economica, ma il risultato finale non cambia. Da questo punto di vista, non è un caso che, preso atto della tendenza geopolitica a premiare entità statuali di dimensioni «imperiali» dopo la fine della Seconda guerra mondiale, il fallimento del progetto di unità europea si spieghi meglio con l’incapacità dell’UE di trasformarsi in uno stato sovrano a tutti gli effetti e di entrare in una competizione paritaria con le altre grandi potenze mondiali, che non incolpando un fantomatico progetto globalista. Riletta in quest’ottica, l’insistenza sulla perdita di sovranità finisce così per rivelarsi per quello che è: una petizione di principio. Si riduce, cioè, a un appello accorato a completare o emendare il processo di costruzione di una forma moderna di statualità – compito storico per il quale, notoriamente, non esistono ricette funzionanti.

 

Il deficit argomentativo del discorso sovranista non si limita, però, alla diagnosi del tempo. Un secondo punto debole è la sottovalutazione della questione politica per eccellenza in età moderna: il problema, cioè, dell’autogoverno democratico. Identificare democrazia e sovranità popolare non è sufficiente infatti per rendere conto del primato della forma di governo democratica in materia di affermazione dei principi di libertà e giustizia. Per certi aspetti, lo si potrebbe persino descrivere come un errore concettuale. Si può infatti ragionevolmente sostenere che, da un punto di vista ideale, il fine della forma di governo democratica non è tanto implementare un’entità misteriosa come la rousseauiana volonté générale, quanto piuttosto svuotare dall’interno l’idea moderna di sovranità, con cui l’ideale dell’autogoverno ha soltanto un legame contingente. L’esercizio dell’autogoverno presuppone infatti l’esistenza di uno stato sovrano robusto solo perché non c’è altro modo di salvaguardare la propria integrità territoriale di fronte ad altri stati che privilegiano la sovranità all’autogoverno (cioè all’ideale repubblicano del non-dominio). Su questa intuizione, d’altro canto, poggiava la singolare miscela kantiana di repubblicanesimo, cosmopolitismo e federalismo.

 

Compresi in quest’ottica, gli appelli al rafforzamento identitario del demos non si giustificano da sé, quasi che fossero un requisito funzionale dell’autogoverno democratico. Lo sarebbero, se la democrazia coincidesse con l’espressione della volontà popolare. Ma non è così. La vera sfida delle democrazie contemporanee sta piuttosto nell’escogitare contesti di azione comune e spazi di identità collettiva sufficientemente inclusivi da rendere il pluralismo una risorsa politica anziché un fattore di destabilizzazione nella prospettiva dell’estensione degli ambiti di autogoverno. Idealmente, dal punto di vista democratico, una comunità politica funzionante non è esemplificata da uno stato che esercita pienamente la propria sovranità, ma da un popolo che prende forma intorno a una sfera pubblica che opera come teatro della pluralità dei punti di vista dei cittadini in condizioni di sicurezza, stabilità e solidarietà.

 

Una volta superato il dualismo, e il conseguente stallo, tra sovranisti e macroniani, sarà forse possibile ragionare insieme sulla vera grande questione a cui ci pone di fronte la crisi attuale del liberalismo e che, detto lapidariamente, consiste nella colossale spoliticizzazione della forma di vita occidentale e negli effetti imprevisti che questo fenomeno storico di lunga durata ha avuto sulla struttura della personalità degli attuali cittadini/consumatori/risparmiatori e, conseguentemente, sulla loro possibilità di riacquistare un senso affidabile di controllo sul proprio destino.

 

[Immagine: Banksy, Bandiera europea].

12 thoughts on “Sul sovranismo democratico

  1. Non posso dire di essere d’accordo o di non essere d’accordo con l’articolo di Paolo Costa, perché non ci ho capito niente. Pertanto non posso dire quale sia la sua posizione e che cosa abbia voluto dire. Dopo decenni di insegnamento di storia e filosofia nei licei e diversi anni di insegnamento (a contratto) di Storia delle dottrine politiche all’università e una diecina di libri scritti, leggo con relativa facilità Hegel, Kant, Marx, Lenin, Popper, von Mises, von Hayek, Schumpeter, Mosca, Pareto e altri classici, ma in questo articolo di Costa non riesco a tirarci fuori nulla. Forse, essendo in pensione, sono rimasto indietro. Ma se il linguaggio e la sintassi dell’analisi politica di oggi è questa di Costa, allora vuol dire che la possibilità di intendersi, parlando di cose politiche, si è ridotta al lumicino e forse si mantiene un po’ più viva solo fra piccole congreghe di affiliati allo stesso circolo. Ed io non sono iscritto a nessun circolo dal linguaggio esoterico. Ma se il linguaggio rispecchia qualche realtà, in questo caso lo fa al peggio, perché rispecchia la babele imperante di una vita politica caduta sempre più in basso, anche nel campo del giornalismo e degli studi accademici.

  2. “Una volta superato il dualismo, e il conseguente stallo, tra sovranisti e macroniani, sarà forse possibile ragionare insieme sulla vera grande questione a cui ci pone di fronte la crisi attuale del liberalismo e che, detto lapidariamente, consiste nella colossale spoliticizzazione della forma di vita occidentale ” (Costa)

    Spoliticizzazione? Chi pensa e dice nelle chiacchiere al bar o sui social “non sono razzista ma”, “prima gli italiani” è spoliticizzato? Chi tace di fronte a cose come queste (http://www.poliscritture.it/2018/09/23/vicofaro-un-mese-dopo/) o queste (https://www.facebook.com/luisa.morgantini.5/videos/1505283369572751/) e se ne sta nelle nuove maggioranze silenziose (invece che osannanti) è spoliticizzato?
    Dubito.
    Condivido la pars destruens dell’articolo, ma non la vaga conclusione.

  3. Il comunitarismo tribale
    L’internazionalismo e il globalismo, che il “pensiero unico” dei benpensanti acclama attraverso il pianeta (vedi la potente rivista ideologico-finanziaria “The Economist”), sono diretti a promuovere la mondializzazione consumistica e culturale attraverso la distruzione dei confini di Stato e l’annullamento della nozione d’interesse nazionale.
    Agitando con mani, piedi e col resto del corpo il turibolo dei diritti umani, i demolitori della Nazione fanno ripetere alle masse in preghiera il mantra “Solidarietà! Solidarietà! Solidarietà!” (l’aggettivo sottinteso “planetaria” è di rigore).
    In questo nuovo esperimento di superamento della Nazione, condotto in nome del mercato unico e dell’americanizzazione dei popoli, i propagandisti dell’internazionalismo e del globalismo si fanno promotori all’interno dei singoli paesi di un “comunitarismo” frammentato di tipo tribale. Questo “comunitarismo” è diretto a demolire l’idea d’identità e di unità nazionale, elementi invece – per me e per altri – molto preziosi.
    Il comunitarismo che loro promuovono è l’appartenenza a un singolo gruppo e non all’insieme della Nazione.
    L’effetto di questo comunitarismo multiculturale e “multivaloriale” è di tenere smembrata, frazionata, atomizzata la Nazione in una serie di collettività distinte per colore di pelle, origine etnica, appartenenza religiosa, stili di vita, pratiche sessuali, handicap fisici, passati nazionali importati da altrove.
    La vera opposizione al globalismo e all’internazionalismo può venire solo dalla Nazione e dall’amore che noi proviamo per essa. Oltretutto si tratta di un internazionalismo assai particolare, perché nei fatti esso favorisce l’americanizzazione del pianeta. È un internazionalismo che fa da apripista alla dominazione americana.

  4. Grazie, un’analisi che seppure debole sul versante del che fare, come osserva Abate, è di un’acutezza e profondità impressionanti. Mi fa piacere che in giro ci siano dei liberali come Costa, perché vedo troppi micromacroniani.
    (La debolezza del che fare è e sarà ovviamente riempita non da filosofi politici, ma dai politici, che quelle sovrapposizioni retoriche – come quella fra sovranismo ed empowerment personale – useranno tagliando con il coltello della prassi le sottili sfumature della ragione di Costa).
    Grazie comunque, era l’analisi che aspettavo di leggere da mesi e mesi. Ora mi è tutto chiaro.

  5. Il mio articolo è solo un abbozzo, un condensato di ragionamento, e non potrebbe essere altrimenti, vista la sproporzione che esiste tra le sue dimensioni ridotte e la vastità del tema che discuto al suo interno. Certo, se non si capisce nulla di ciò che intendevo dire è un bel problema, perché almeno nella mia testa la progressione del ragionamento era molto chiara: (a) il liberalismo non proponeva agli individui solo un modus vivendi politico, ma un modello di soggettività potenziata; (b) l’esito, paradossalmente, è stato l’opposto sia dal lato della capacità del soggetto di governare la propria vita interiore sia dal lato della sua capacità di contrastare la sorte; (c) i sovranisti democratici oggi propongono una soluzione politica a questo scacco del progetto liberale, ma un recupero di sovranità statale non può essere la soluzione, perché, tra l’altro, (d) l’autogoverno democratico non coincide tout court con un rafforzamento della sovranità statale guidata da una presunta volontà generale.
    Su quest’ultimo punto – la minimale pars construens dell’articolo – mi preme sottolineare che la mia non è, in definitiva, una difesa del liberalismo. Il fraintendimento è in parte comprensibile, perché la mia critica della centralità della sovranità statale moderna si basa sull’idea che l’autogoverno democratico sia anche un modo per disinnescare la minaccia del Leviatano – un modo, cioè, per immaginare una forma di potere alternativa al decisionismo della sovranità. La differenza, però, sta nel fatto che mentre la soluzione liberale al potenziale autoritarismo dello Stato moderno è imperniata sulla difesa dell’individuo e della sua sfera privata, la mia predilezione per una soluzione politica allo spossessamento degli individui contemporanei fa leva invece su una concezione classicamente repubblicana della libertà positiva: la libertà che si sperimenta solo quando le persone agiscono insieme. La lezione generale che ricavo dalla crisi contemporanea del liberalismo è che l’assenza di questo tipo di esperienze solidali ha avuto un impatto notevole sul senso di padronanza di sé e del proprio destino di cui molte persone lamentano la mancanza oggi.
    Questa è una tesi molto controversa e l’ho aggiunta alla fine dell’articolo giusto per stimolare il dibattito.

  6. Sul sovranismo, rovescio il deficit argomentativo su chi critica.

    Io non so se qualcuno mai si sia definito sovranista. A me pare un’etichetta che non dice nulla, poiché non descrive il punto. Una qualsiasi entità politica o è sovrana o non è. Coloro che trattano da barbari retrogradi i “sovranisti” sono quelli che parlano di Unione Europea. Ovvero della creazione di un altro Stato, federale o meno non importa. Per cui sono quest’ultimi a dimostrare un pensiero barbaro. In pratica vogliono solo avercelo più grosso.

    La questione vera invece è avere buoni argomenti per dire che dovremmo cedere sovranità a un nuovo organismo politico, ovvero a un nuovo Stato, che diverrebbe una nuova nazione. Ma di solito viene solo detto che gli stati e le nazioni sono roba vecchia. La cosa buffa è che io sono un liberale e considero lo spirito patriottico e l’idea di identità nazionale un po’ ridicola, ma non raggiungo tali livelli di poraccitudine intellettuale. E inoltre, se già mi pare ridicola l’idea di identità nazionale applicata alle nazioni attuali, una eventuale identità europea mi lascia molto più perplesso. Non vedo infatti il senso di fare gli Stati Uniti d’Europa. Non dico che sarebbe una cosa sbagliata, dico che proprio che non ha senso. Ha molto più senso il mercato unico europeo e la libera circolazione delle persone, senza però aggiungere altro. Già la moneta unica è una stronzata. Certo, se uno mi dice che o facciamo così o diverremo tutti più poveri può avere senso. Ma è così?

  7. Se non sbaglio, il concetto di sovranità a cui si appellano i “sovranisti” è un’invenzione specificamente moderna e, come molte altre invenzioni moderne, può essere interpretata come la sistematizzazione di una certa interpretazione di un fenomeno umano – in questo caso il potere – che verosimilmente circolava fin dalla notte dei tempi. Diciamo che la sovranità è il potere massimo immaginabile – al limite, il potere di vita o di morte – di cui un’istituzione (o una persona che ha titolo per presentarsi come un’istituzione personificata) può rivendicare il monopolio in un territorio ben delimitato e su una popolazione stanziale. Il ruolo della sovranità assomiglia molto a quello della volontà nella vita interiore delle persone. È il gesto che taglia il nodo gordiano.
    Bene. Per chi si definisce democratico, suppongo, il principale problema è stabilire se questo tipo di potere sia effettivamente il potere politico per eccellenza. Quando apparteniamo a un corpo politico, la prima cosa che ci interessa stabilire è se esso sia o no in grado di esercitare la propria “sovranità”? Nel mondo moderno si direbbe proprio di sì e questo spiega perché ormai ogni angolo della terra sia sotto il controllo di uno stato sovrano.
    Se la sovranità non avesse alternative, esisterebbero solo due opzioni. Rendere questa sovranità sempre più effettiva (sempre più potente) o limitarla dall’esterno nel nome di beni prepolitici (la libertà soggettiva dell’individuo o i diritti umani, per fare i due esempi più ovvi). Nella tradizione politica repubblicana, tuttavia, questa visione “monologica” e decisionistica del potere – un potere che non esiste nel momento in cui non produce effetti misurabili nel mondo – ha un contraltare formidabile nell’immagine di un potere che le persone generano quando si trovano ad agire insieme e, nel farlo, sono motivate da una qualche forma di fine o bene ideale (ad esempio la libertà o la condizione di parità che deriva dal non essere dominati). Nella pratica e nella teoria democratica moderna, questo potere è stato pensato come un antidoto alla sovranità e ai suoi potenziali tirannici, proprio perché è una forza sui generis che non può essere generata ed esercitata monologicamente e decisionisticamente. È un potere per definizione condiviso e distribuito: il potere dell’autogoverno.
    Questa idea è una pia illusione? È il proverbiale vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro? La mia impressione è che, se uno ha a cuore il governo e la forma di vita democratica, pensare di poter rinunciare a questa forma di potere sui generis – fragile e invisibile quanto si vuole, ma che si è dimostrata straordinariamente efficace ed esaltante in alcuni momenti cruciali della storia umana – significa commettere un errore esiziale. La responsabilità enorme delle classi politiche liberali europee, secondo me, è avere gradualmente perso il senso dell’importanza di questa concezione repubblicana del potere in favore di una visione mite e spoliticizzata della sovranità tradizionale. Alla base c’è un pessimismo antropologico che non mi sembra granché di sinistra e che la riduzione monologica del potere alla sovranità esemplifica alla perfezione. È quella roba che dai tempi della Thatcher si usa chiamare TINA – there is no alternative – e di cui paghiamo il prezzo politico (con interessi superiori a quelli del debito italiano) oggi.

  8. @ Paolo Costa

    Faccio fatica a capire dove vada a parare il discorso che lei tiene sempre su un piano molto alto – ma anche un po’ elusivo (almeno per me) – d’astrazione. E perciò le porrei alcune domande. Quale sarebbe « il potere politico per eccellenza» al quale «chi si definisce democratico» dovrebbe guardare? Nel corso della storia quali sono stati i tipi di potere che le «persone» ( anche questo termine mi pare un eufemismo elusivo) hanno generato quando si sono trovate «ad agire insieme […] motivate da una qualche forma di fine o bene ideale (ad esempio la libertà o la condizione di parità che deriva dal non essere dominati »? Dove e quando ci sono state esperienze di «autogoverno»? Sono state veramente sostenute e incoraggiate dalle forze «di sinistra»? O queste, di fronte a spinte davvero forti « in alcuni momenti cruciali della storia umana» verso forme di vita democratica o più democratica di quelle passate, in base non so se a «pessimismo antropologico» o ad altro, che qui non è il caso di tirare in ballo, hanno avuto un atteggiamento non dissimile da quello della Thatcher da lei evocato?

    P.s.
    Mi fa effetto – ma io sono d’altra epoca – che nel suo discorso compaia un sola volta la parola ‘capitalismo’ senza effetti significativi su tutto il ragionamento che ha condotto sul tema della sovranità: « Tra le cause esterne un ruolo di primo piano spetta evidentemente alle trasformazioni economiche che hanno condotto alla globalizzazione del capitalismo e del suo modello di stabilizzazione dinamica basata su una forma apparentemente inarrestabile di distruzione creatrice».

  9. Non nego di avere una predilezione per le questioni più astratte – il mio campo di ricerca è la filosofia, dopo tutto – ma la mia comprensione del potere politico, in realtà, punta a spostare il focus dell’attenzione dalle manifestazioni più eclatanti del potere a quelle meno visibili e più trascurate. Nella mia vita, per esempio, il tipo di potere democratico a cui faccio riferimento nell’articolo l’ho conosciuto in mille situazioni quotidiane che spesso passano inosservate. Esperienze politiche a scuola o in università, forme di mobilitazione locale, persino le odiatissime forme di rappresentanza previste dai decreti delegati del 1974. Ne ho fatto esperienza diretta, insomma, in tutte quelle situazioni in cui si esce di casa per incontrare persone che non conosci, si discute, ci si entusiasma o ci si arrabbia, si vince o si perde e alla fine inevitabilmente si cambia il proprio punto di vista sul mondo. Per come lo comprendo io, il potere politico dell’autogoverno è una forma distribuita, non centralizzata di potere. Il motivo per cui uso con parsimonia concetti sistemici o di filosofia della storia come quello di “capitalismo” è che, per i miei scopi – che si possono riassumere nell’idea che abbiamo bisogno di arricchire la nostra dieta di esempi – è più utile privilegiare la posizione di chi agisce. Sono consapevole che questo mi espone all’obiezione di chi è scettico sulla reale efficacia di un potere del genere di fronte alla forza bruta dei soldi e delle armi. Ma io non ho la pretesa di avere un argomento da k.o. per difendermi da questa obiezione. Mi accontento di mettere in campo un numero di ragioni convincenti per mostrare che non è tutto qui.
    La situazione è per certi aspetti analoga a quella di una persona che vuole convincere il proprio interlocutore che non si può vincere un’argomentazione tirando un cazzotto in faccia a una persona. Per come è fatto il nostro mondo, può sembrare che chi zittisce l’altro tappandogli la bocca vinca l’argomentazione per knock out, ma la verità è che non è così. Un cazzotto può essere efficace, ma non può (quasi) mai essere una ragione convincente – cioè una ragione che l’altro può riconoscere e far propria.
    È una ben magra consolazione? Può darsi. La cosa che so per certo è che questa è una verità che non si scopre restando chiusi nella propria stanza, ma uscendo nel mondo e facendo i conti con la realtà insieme agli altri, e a volte contro gli altri. Quando alla fine dell’articolo parlo di spoliticizzazione liberale delle nostre società ho in mente principalmente questo: la progressiva rarefazione di questo tipo di esperienze banali dove si nasconde, a mio avviso, la fonte del desiderio e della speranza di poter sperimentare libertà migliori di quelle accessibili in una società dei consumi.

  10. SOVRANITA’ (Costituzione), SOVRANISMI (Partiti), E … “FORZA FRANCIA” (1994-2018)!!! IL SOGNO DI UNA COSA …

    Per mettere (per così dire) i piedi per terra (e la testa in aria), a mio parere, data la situazione storica presente in cui “naviga” l’Italia e l’intera Europa, considerato “il nuovo scenario come dominato dalla polarizzazione tra sovranisti e macroniani” (Palo Costa), mi sembra più che pertinente richiamare la lezione marxiana:

    “Non basta dire come fanno i francesi che la loro nazione è stata colta alla sprovvista. Non si perdona a una nazione, come non si perdona a una donna, il momento di debolezza in cui il primo avventuriero ha potuto farle violenza. Con queste spiegazioni l’enigma non viene risolto, ma soltanto formulato in modo diverso. Rimane da spiegare come una nazione dì 36 milioni di abitanti abbia potuto essere colta alla sprovvista da tre cavalieri di industria e ridotta in schiavitù senza far resistenza” (K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, 1852).
    “Io mostro, invece, come in Francia la lotta di classe creò delle circostanze e una situazione che resero possibile a un personaggio mediocre e grottesco di far la parte dell’eroe”(K. Marx, cit., 1869).

    SOVRANITA’ DEMOCRATICA E COSTITUZIONE ITALIANA. Prima di tutto, concepire e recuperare la nostra personale e politica “sovranità”: “Sàpere aude!” (Kant)! Presupposto fondamentale e necessario è che ogni cittadino e ogni cittadina della Repubblica (artt. 1, 2, 3), uscito dallo “stato di minorità”, sia un sovrano e una sovrana e, in quanto tale, rispetti come “re” e come “regina” il “patto di alleanza” (la Costituzione) sottoscritto e, all’interno di essa, come “suddito” e “suddita”, “obbedisca” alle decisioni del Governo (il “patto di sudditanza”).

    A TUTTI I LIVELLI, (micro e macro!), in ogni società COSTITUZIONAL-MENTE organizzata, a questi DUE PATTI tutti e tutte si è legati/e… se non si vuole “vivere” nella guerra di tutti/e contro tutti/e. E, ovviamente, il “patto di alleanza” è quello fondante – in sua assenza, si è fuori dalla “grazia” di “Dio”, e nelle braccia “Mammona”!

    SOLO camminando SU QUESTA STRADA, forse, è possibile vincere il ” pessimismo antropologico che non mi sembra granché di sinistra e che la riduzione monologica del potere alla sovranità esemplifica alla perfezione. È quella roba che dai tempi della Thatcher si usa chiamare TINA – there is no alternative – e di cui paghiamo il prezzo politico (con interessi superiori a quelli del debito italiano) oggi” (P. Costa), e contrastare il misticismo politico del “sovranismo democratico”!

    PURTROPPO “la semplicità – è difficile a farsi” (B. Brecht)! La “produzione” va avanti a pieno regime – e non c’è più solo qualcuno/a che vuole e pretende di essere al di sopra della Costituzione, della Legge, “come Dio”, un “Diavolo in persona”, e lavora per la “pace perpetua” di tutto il Pianeta!!!

    CHE FARE?! Questa è l’alternativa: “Uno spettro si aggira per l’Europa (…) una lotta che è sempre finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società, o con la totale rovina delle classi in lotta”(“MEGA” – “Marx-Engels Gesamtausgabe”).

    Federico La Sala

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