di Francesca Del Zoppo

[Questo saggio è uscito, con un titolo diverso, sulla rivista «Contemporanea»].

Nessuno più di un poeta è adatto a dire cose concrete sulla poesia

Vittorio Sereni

Introduzione

Nell’Archivio storico della Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori[1] sono conservati i giudizi editoriali che Vittorio Sereni, in qualità di direttore letterario o di consulente, ha espresso su alcuni testi, valutati in vista di una pubblicazione dal 1958 ai primi anni Ottanta. Tali giudizi permettono di approfondire la figura di Sereni in quella veste di «funzionario dei poeti»[2] che occupò gran parte del suo tempo. Questo articolo è la prima tappa di un’analisi completa di tutti i documenti, perché la quantità dei fascicoli conservati è molto consistente. Si è scelto di cominciare dai giudizi sulla poesia italiana, che suscitava l’interesse personale e critico di Sereni più della narrativa. I paragrafi che precedono l’apparato delle trascrizioni hanno la funzione di introdurre, contestualizzare e interpretare la corrispondenza e i giudizi editoriali raccolti.

I. Sereni, la Mondadori, la collana dello «Specchio».

Grazie al prezioso lavoro di Gian Carlo Ferretti[3] si può definire la strada che porterà Sereni alla direzione letteraria della Mondadori. L’insegnamento, dopo la laurea, affiancato da collaborazioni con riviste e case editrici, poi la dirigenza Pirelli, abbandonata nel novembre 1958, quando, «stanco della gomma e affini»[4], ha finalmente l’opportunità di occuparsi di libri.

Nel campo editoriale italiano la Mondadori emerge per l’impostazione moderna del proprio lavoro; in particolare, rivaluta il rapporto fra editore e pubblico secondo una struttura di reciproco scambio. In questo senso, la conquista di una nuova fascia di lettori è un punto di svolta: non più l’élite, ma il lettore medio, interessato al libro «di diletto», che trova la sua forma principe nel romanzo. Si tratta di una «letteratura “di consumo” destinata a un pubblico ampio e variegato»[5], corroborata da una politica editoriale che «non si fonda tanto sulla sperimentazione, sull’avanscoperta e sulla ricerca, quanto piuttosto sull’attesa e sulla domanda del pubblico, sia pure a livelli di indubbia qualità e prestigio»[6].

Sottoposta alla direzione editoriale, a sua volta affiancata da quella commerciale, la direzione letteraria si occupa di selezionare le opere da pubblicare, i curatori e i traduttori; gestire i rapporti con autori, eredi, media e giurie dei premi; organizzare le campagne pubblicitarie. L’autorità di Sereni nei processi decisionali è indiscussa, ma questi seguono una forma verticale rigida, al cui vertice sta Arnoldo, progressivamente sostituito da Sergio Polillo[7]. Il percorso di pubblicazione è composto da alcune tappe fondamentali:

arrivo del testo attraverso canali esterni o interni, lettura o letture editoriali assegnate dai più diretti collaboratori di Sereni (Crovi, Giannelli, Fertonani, Forti, Paolini, Barbone) che non escludono un suo o un loro personale contributo, sintesi delle letture da parte dei collaboratori stessi in base alla quale il direttore letterario formula un suo breve giudizio conclusivo favorevole o meno alla pubblicazione, che via via raccoglie appunto i vari e no del direttore editoriale e degli altri dirigenti, su fino all’editore[8].

La più importante delle collane già attive all’arrivo di Sereni è la «Medusa» (1933-1971), dedicata alla letteratura straniera contemporanea. Nel 1934 e nel 1939 nascono rispettivamente i «Classici italiani» e i «Classici contemporanei italiani». Gli «Omnibus», riservati a saghe e opere complete di autori italiani o stranieri, esordiscono nel 1937, mentre, nel 1940, su iniziativa di Alberto Mondadori e Arturo Tofanelli, si inaugura «Lo specchio». Sotto la direzione letteraria di Sereni nascono nuove collane, come i celebri «Oscar», diffusi dal 1965, seguiti per fama da «I meridiani» – nome suggerito dallo stesso Sereni –, che prendono avvio nel 1969. «Il tornasole», diretta da Sereni e Gallo dal 1962 al 1968, è invece una collana sperimentale, aperta sia alla narrativa sia alla poesia, che tenta di correggere l’immagine della Mondadori come casa editrice per scrittori «arrivati». Sereni crede nella necessità e nel successo di questa operazione, tanto da convincere Zanzotto, autore dello «Specchio» dal 1951, a far parte, con le sue IX Ecloghe, degli scrittori che inaugurano il «Tornasole». La collana tuttavia non avrà un bilancio positivo: l’unico caso editoriale è rappresentato dall’esordio di Piero Chiara con Il piatto piange, nel 1962. Nel 1968 si assiste al fallimento delle collane sperimentali, che confluiscono tutte negli «Scrittori italiani e stranieri». La decisione di raggruppare autori stranieri e italiani in una sola collana senza un direttore ufficiale

nasce da una serie di istanze editoriali convergenti: arginare la spinta degli autori italiani, vecchi e nuovi, penalizzando soprattutto i nuovi; sfoltire i titoli e razionalizzare le uscite; sostituire al criterio della specificità, della direzione personale e del discorso di collana […] il criterio dell’indistinzione, della spersonalizzazione e della politica di titolo, che consente l’accostamento di valori diversissimi e che prevede il lancio su larga scala dei singoli titoli candidati al best seller[9].

Benché alcuni titoli di poesia compaiano nella collana del «Tornasole», alla Mondadori è «Lo specchio» la sede poetica d’eccellenza. Prima dell’arrivo di Sereni, erano Vittorini, Ravegnani e in parte Alberto Mondadori a occuparsi dello «Specchio», che al tempo pubblicava quasi esclusivamente poeti italiani. Nel giudizio su Elio Filippo Accrocca, trascritto in apparato, Vittorio Sereni parla di «un’epurazione da me operata a partire dalla fine del ’58 nei confronti dello “Specchio” di Ravegnani»[10], che prevede la concessione di spazio agli esordienti e, soprattutto, agli autori stranieri, senza peraltro trascurare i grandi nomi italiani. Uno dei meriti di Sereni, forse il più grande, è stato quello di aver accolto nello «Specchio» le traduzioni di molti poeti contemporanei stranieri, alcuni inediti in Italia; per quanto riguarda i contemporanei già noti in Italia, invece, si provvede a elaborare nuove traduzioni. Prendendo in considerazione tutti questi punti di novità rispetto allo «Specchio» di Ravegnani, la «ristretta – anche troppo – fascia di produzione cui dobbiamo provare che teniamo gli occhi aperti e che non ci addormentiamo sui facili, troppo facili allori»[11], può a ragione considerarsi soddisfatta. La media annuale di pubblicazioni dello «Specchio» fra il 1958 e il 1983 è di otto volumi l’anno: una quantità infinitamente maggiore rispetto agli ultimi anni, ma comunque sottoposta a limitazioni. Come accaduto nel 1957, con la cessione di Pasolini a Garzanti in cambio di Papini[12], anche a causa di tali restrizioni saranno altri editori a pubblicare la maggior parte delle opere sperimentali apparse negli anni Sessanta e Settanta.

II. Una politica editoriale

Lontano da classificazioni arbitrarie, schemi ideologici e corporativismi[13], Sereni rifugge l’elaborazione di una politica editoriale programmatica, che escluda o includa a priori determinate linee poetiche. Esaminiamo le operazioni editoriali dello «Specchio» nel 1976: accanto all’esordio di Cucchi, si trovano importanti nomi stranieri come Plath e Celan – entrambi alla prima raccolta edita in volume in Italia[14] –, insieme a dei «veterani» Mondadori come Risi o De Libero. Un altro esempio lampante dell’estraneità di Sereni editore dalla sterilità della logica programmatica è dato dal giudizio su Terra del viso di Milo De Angelis[15]: la poesia di De Angelis non gli è «del tutto simpatica», ma non ha dubbi «sull’interesse del caso e sull’opportunità editoriale di acquisirlo». Sereni coglie la potenza e discontinuità della voce di De Angelis rispetto alla produzione poetica precedente, esattamente come era accaduto per Leonetti e Pagliarani, e si dichiara a favore della pubblicazione di De Angelis, avvenuta nel 1985. Altro caso singolare, ma sicuramente più affine alla poetica sereniana, Maurizio Cucchi ha esordito nel 1974 sul terzo numero dell’«Almanacco dello Specchio»; ottenuto subito un parere positivo da parte di Pasolini, riceve anche quello di Alfredo Giuliani, riuscendo addirittura a mettere d’accordo la neoavanguardia con il suo peggior nemico[16]. Sereni ne dà un giudizio pacato e fiducioso: ammette di preferirlo «alla stragrande maggioranza dei suoi coetanei», lo definisce «uno che promette di crescere, chissà, anche in senso narrativo». Cucchi è, per Sereni, un autore che una casa editrice deve assicurarsi fin dall’esordio e, benché sia evidente la carenza di una sede adatta per questa pubblicazione, quale sarebbe stata il «Tornasole», opta per lo «Specchio», onde evitare «di lasciarlo ad altri e magari a Garzanti». Il problema della mancanza di una collana adatta agli esordienti e alle sperimentazioni si presenta molte volte all’interno delle carte raccolte. Di nuovo De Angelis: La corsa dei mantelli, inviato alla Mondadori nel 1978 con il titolo provvisorio Fiaba, ottiene l’approvazione parziale di Sereni. Per Sereni si tratta di un testo proponibile per le «Silerchie» del Saggiatore e magari per il «Tornasole», la cui collocazione negli «Scrittori italiani e stranieri», tuttavia, risulterebbe audace ma non impraticabile. Alla Mondadori manca il coraggio di pubblicare il volume nella collana dei SIS[17], coraggio di cui non sarà priva Guanda nel 1979[18]. Con gli anni, «Lo specchio» va progressivamente incontro a una saturazione. Un esempio che fa parte delle carte raccolte: Bruna Dell’Agnese. Scoperta da Bertolucci, ha esordito sulla rivista «Nuovi Argomenti» nel 1980 e, nel 1982, ha inviato due fascicoli di poesie alla Mondadori. Il parere di Sereni è sostanzialmente positivo, ma l’impossibilità di collocazione nello «Specchio» porta Sereni a ripiegare sull’omonimo «Almanacco», che definisce il «risultato di una “concessione” fatta in seguito alle nostre rimostranze per lo spazio sempre più ridotto in materia di poesia»[19]. Una testimonianza di questa impasse è data anche da una lettera di Sereni a Silvio Ramat, datata 11 gennaio 1972.

Lo Specchio ha un numero chiuso imposto da ragioni di opportunità e convenienza editoriali: non più di sette-otto volumi all’anno tra italiani e stranieri […]. Non è che con ciò ci si precluda la possibilità di nomi nuovi, ma è evidente che l’immissione rimane problematica anche in rapporto alla prolificità dei nostri autori[20].

La questione relativa ai romanzi di Mascioni – qui inserito sia perché si tratta dell’esordio narrativo di un poeta[21], sia perché importante per quanto riguarda l’evoluzione della politica editoriale Mondadori – è un esempio del peso sempre più forte che l’istanza commerciale ha nei processi decisionali. In una lettera di Sereni a Mascioni, conservata dal Fondo Grytzko Mascioni dell’Archivio svizzero di letteratura, spiegando perché il romanzo Test non sia stato pubblicato, Sereni chiarisce in poche righe gli obiettivi della Mondadori e il proprio conflitto interiore.

In poche parole la Mondadori è sempre più restia a tener dietro a un libro ritenuto “difficile” e le cui proiezioni di vendita non si estendano al di là della pur ragionevole tiratura della IEI, settemila copie. Il fatto che io non sia d’accordo, oggi come ieri, per questo criterio non ha ormai molto peso e non c’è che da prenderne atto[22].

Una nota interna di Sereni su Mascioni, datata ottobre 1978, indirizzata a Paolini e riportata in apparato, riassume ulteriormente la politica editoriale portata avanti dalla Mondadori: «è chiaro che la Mondadori odierna evita il più possibile libri di questo tipo e non arrischia volentieri». Si tratta della stessa casa editrice che, pur non avendo poi ottenuto la pubblicazione del volume in seguito alle lamentele e ai cambiamenti d’opinione di Pagliarani, nel 1962 aveva accordato un mensile all’autore, durante la stesura de La ballata di Rudi, scegliendo di esporsi a un rischio pur di non cedere ad altri i diritti. La questione Pagliarani merita un’attenzione particolare, perché definisce i rapporti di Sereni e della Mondadori con la neoavanguardia e le sue sperimentazioni, ed è inoltre uno dei pochissimi autori a turbare la pazienza di Sereni. Dopo alcune lettere che riguardano la scelta dei testi confluiti ne La ragazza Carla e altre poesie, Fortini[23], nel gennaio 1961, dà un primo giudizio su Pagliarani: «a noi tocca riconoscere che qui c’è una pronuncia spesso molto intensa; che definisce benissimo un momento, forse un decennio lombardo, che resiste». Pagliarani, il più «lombardo» fra gli autori della neoavanguardia, esordisce effettivamente un anno dopo, con la pubblicazione de La ragazza Carla e altre poesie nella neonata collana del «Tornasole». La collocazione del volume non è casuale, anzi acquista un valore simbolico: accostato ad autori legati a Sereni da rapporti personali e letterari, all’interno di un’operazione editoriale fondamentale, Pagliarani dimostra di avere una certa importanza per la politica editoriale di Sereni. In seguito all’approvazione della Ballata da parte di Mondadori, la questione Pagliarani si fa più complessa: dopo varie discussioni e la proposta di contratto per uno «Specchio» che non avrà luogo, Pagliarani nel 1967 deciderà di revocare a Mondadori anche i diritti sulla Ballata di Rudi, pubblicata presso Marsilio ventotto anni dopo.

Dalle carte emerge la priorità di Sereni: nel catalogo deve potersi riflettere il quadro della poesia contemporanea, composto dagli sviluppi nazionali e dalle voci più autorevoli dell’attualità estera. Nel giudizio di Sereni sul Tappeto volante di Francesco Leonetti[24] si trova un passo emblematico di questo atteggiamento; dopo averlo definito «ostico, a prima vista sgradevole», Sereni aggiunge che

qui siamo sul terreno della ricerca apertamente dichiarata e il libro ha in ciò il suo significato. In termini molto semplici: a un anno dalla pubblicazione di entrambi, il libro di Pasolini potrà essere ricordato dal lettore essenzialmente in termini emotivi; quello di Leonetti lo sarà invece nella misura in cui avrà significato un certo momento della ricerca[25]. Da questo punto di vista il difficile libro di Leonetti mi sembra però importante, anche perché dimostra di aver assimilato a modo suo certe istanze della neoavanguardia e di averle ristrutturate, sempre a modo suo, in una costruzione narrativa. Senz’altro, sotto questo aspetto, il libro di Leonetti è un libro di punta e lo è anche in senso positivo rispetto al significato disgregante e polemico sul piano formale della neoavanguardia. Di questa il Leonetti sembra recuperare i frantumi e riutilizzarli, appunto, in senso costruttivo.

Così, per una certa forma di coerenza che è propria di Vittorio Sereni, si manterrà sempre valido il giudizio che, da lettore esterno, elaborò nel 1952 riguardo alla raccolta È fatto giorno, di Rocco Scotellaro: «tutto ciò non è decisamente negativo, né positivo, è piuttosto un fatto da registrare»[26].

***

Premessa alle trascrizioni

Le trascrizioni provengono nella loro totalità dall’archivio storico Arnoldo Mondadori Editore (AME), conservato a Milano dalla Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori (FAAM). Le due sezioni sulle quali ci si è concentrati sono la «Segreteria editoriale autori italiani» e la «Direzione letteraria. Vittorio Sereni 1952-1982». Il fondo dedicato a Sereni è diviso in varie serie e sottoserie, tra le quali si è attinto solamente dai «Giudizi italiani» e dalla sezione «Autori e collaboratori» della serie «Rapporti letterari e contrattuali». Quando presenti, sono stati trascritti integralmente i pareri di lettura dattiloscritti di Vittorio Sereni, che verranno contestualizzati attraverso i dati ricavati dalla relativa corrispondenza, se inclusa nei fascicoli dell’archivio.

 Elio Filippo Accrocca

11 aprile 1978

DOTTOR MARCO FORTI

 

Elio Filippo Accrocca – A passo d’uomo

Caro Marco,

          diciamo la verità: offrendo questa “chance” al buon E. F. Accrocca abbiamo entrambi ceduto a un moto di pietismo verso l’autore, ex – molto ex – mondadoriano, da noi più volte respinto. È in sostanza una vittima dell’epurazione da me operata a partire dalla fine del ’58 nei confronti dello “Specchio” di Ravegnani (basta guardare il catalogo per verificare questa affermazione). In altri termini abbiamo ceduto a un vago, non tanto vago, senso di colpa.

Ho letto la raccolta e ho provato a segnare i punti di dissenso e i punti di dubbio. Dove non ci sono segni non è detto che ci sia consenso. Significa solo che lì i testi mi sembrano passabili. A partire dal momento in cui E. A. rievoca il figlio morto segni non ce ne sono più.

Purtroppo E. F. veste coi versi (spesso, specie nelle chiuse, rispunta uno stanco endecasillabo) ovvii filosofemi, considerazioni “attuali”, osservazioni dettate dalla quotidianità anche turistica. Fa del giornalismo, di opinione oppure di cronaca, in versi.

Inutile cercare di definirlo ulteriormente. Il discorso cambia solo in parte per le poesie dedicate alla fine e al ricordo del figlio. L’aspetto patetico prevale e al tempo stesso conferisce all’accento una parvenza di intensità e di necessità. Ma è difficile ascoltarsi fuori dalla suggestione della parentela con l’affine sezione del Dolore ungarettiano. Sono, di questo, la ripercussione. Vivono sull’onda di questa.

Si dovrebbe respingerlo. Ma questa è una cosa che dico a te, e a te soltanto, perché a questo punto non possiamo tirarci indietro. Non possiamo aggiungere alla precedente durezza (imparziale) questa che sarebbe, a questo punto, un’offesa e una beffa crudele. Dobbiamo pagare la nostra debolezza con una immissione che certo non giova alla “linea” dello Specchio. Per limitare il danno non c’è da fare altro che pubblicare le poesie per il figlio sopprimendo il resto. Questo, almeno, è il mio punto di vista (e d’altra parte mi pare che diversamente ne verrebbe un libro “composito”, con falle troppo visibili; mentre così come lo propongo avrebbe il pregio di una compattezza e il pregio esteriore, almeno, di una certa emotività).

Suggerisco di fare il contratto dopo avere avvertito l’interessato che comunque dovrà aspettare.

Vittorio Sereni[27]

Maurizio Cucchi

 

Direzione Letteraria                                                                          Sede, 17 maggio 1974

A Forti

 

Maurizio Cucchi – “Il disperso”

 

       Mi ha persuaso, anche se è augurabile che a un certo punto dia uno strappo a questo procedere per accumulazioni di cose e fatti allusi in un costante “parlato”. È piuttosto singolare anche negli sviluppi abbastanza inattesi della cosiddetta “linea lombarda”. Certo era più da Tornasole o sarebbe da “bianca” Einaudi. Ma perché lasciarlo ad altri e magari a Garzanti? È uno che promette di crescere, chissà, anche in senso narrativo. Caso tipico di autore da assicurarsi fin dal suo inizio editoriale. Lo preferisco alla stragrande maggioranza dei suoi coetanei. (Con qualche riserva sulla “sorprendente leggibilità” di cui parla Giudici nella sua lettera).

Facciamolo.

Vittorio Sereni[28]

 

Milo De Angelis

 

22 MARZO 1978

DOTTOR ALCIDE PAOLINI

 

Milo De Angelis – Fiaba[29]

 

Ti ho fatto passare lettera e testo di Milo De Angelis, il cui nome non penso ti sia nuovo.

Ho letto il testo, dall’autore definito “fiaba”, e ne ho riferito all’interessato con una lettera privata. È un testo curioso, lirico-narrativo, di struttura sostanzialmente narrativa, fondato su un continuo giro di dislocazione di tempi, luoghi e personaggi e sulla tecnica dello spaesamento. Le pagine non sono molte ma la spaziatura è ridotta, tanto da farne un testo convertibile in libro. Il problema è di vedere se un testo così, proponibile – ad esempio – per le Silerchie del Saggiatore e magari del Tornasole, possa andare nei SIS. Con un certo coraggio sì, ma non a colpo sicuro. Parliamone.

Vittorio Sereni[30]

 

 

Segrate, 12 luglio 1979

PER IL DOTTOR FORTI

 

Milo De Angelis – Terra del viso

Nemmeno a me è del tutto simpatica la poesia di De Angelis, ma sull’interesse del caso e sull’opportunità editoriale di acquisirlo non ho dubbi.

Sicché sono d’accordo sulle tue conclusioni.[31]

 

Bruna Dell’Agnese

Segrate, 21 ottobre 1982

PER IL DR. FORTI

Ti unisco due fascicoli di poesie di Bruna Dell’Agnese: I giorni disuguali e Il cerchio imperfetto[32]. Come sai l’autrice mi è stata presentata da Bertolucci (vedi lettera di Bertolucci all’interessata e i pareri che pure ti unisco, relativi ai primi due fascicoli). Ho letto a mia volta e ritengo che queste poesie meritino, almeno in parte, un rilievo maggiore di quello che risulta dalle letture. Ad esempio una poesia come “Le quattro porte” non è poi di stoffa tanto comune: ci trovo un’atmosfera degna del miglior Buzzati in prosa. All’interessata ho detto che alla collezione dello Specchio non c’è nemmeno da pensare, ma che a mio parere è praticabile l’ipotesi dell’Almanacco dello Specchio. Bertolucci da parte sua assicura che scriverà molto volentieri la presentazione.

Su entrambi i fascicoli ho operato una scelta puramente indicativa, senz’altro largheggiando. Per l’Almanacco occorrerà una scelta certamente più ristretta, che riservo agli altri componenti il Comitato. La mia scelta è indicata nei rispettivi indici con un cerchietto a matita.

            Vittorio Sereni[33]

 

Francesco Leonetti

La prima carta significativa riguardante Leonetti è un giudizio di Sereni su La cantica, datato 21 ottobre 1958[34]. A seguito dell’esito positivo di questa lettura e nonostante il ritardo nella pubblicazione, ritenuto da Sereni «ormai di prammatica», il volume verrà pubblicato nello «Specchio» nel 1959. Una delle carte successive contiene un testo scritto da Sereni in occasione della vittoria del premio Marzotto da parte di Leonetti.

 

Milano, 5 dicembre 1959

                   Francesco Leonetti è uno dei più apprezzati autori nuovi della nostra Casa Editrice. A un suo libro di versi edito nella nostra collana dello Specchio, “La Cantica”, è stato quest’anno assegnato un premio Selezione Marzotto.

                   Alla pubblicazione presso la nostra Casa Editrice Francesco Leonetti è giunto attraverso la sua precedente attività di scrittore e di critico. Le sue collaborazioni a varie riviste letterarie e di cultura ci avevano interessato al suo nome ed avevano fatto maturare in noi il desiderio di poter annoverare Francesco Leonetti fra i nuovi autori della Casa. Egli rappresenta ai nostri occhi uno dei valori più solidi della nuova letteratura italiana.

ARNOLDO MONDADORI EDITORE

Il Direttore Letterario

Vittorio Sereni[35]

 

Segue la testimonianza della ricezione di un testo di Leonetti, Giacomo o la comunicazione. Il dattiloscritto di centottanta pagine arriva alla Direzione letteraria il 28 aprile 1960; già il 10 maggio successivo si ha un giudizio di Giuseppe Cintioli[36], totalmente negativo, che definisce il libro «impossibile e per un buon sessanta, settanta percento noioso». Il 15 maggio dello stesso anno Sereni ammette di trovarsi in difficoltà.

 

Eccoci inguaiati. Inutile mandare a Barberi Squarotti col quale Leonetti (e Pasolini) hanno avuto dure polemiche.

Prima di mandare a Gallo pregherei Vittorini di leggere questo parere perché voglia – in via del tutto amichevole – suggerirci la linea da tenere con Leonetti[37].

 

È datata 18 maggio la risposta di Vittorini.

 

Ho paura, dall’esposizione di Cintioli, che sia un brutto libro. Del brutto che Leonetti è capacissimo di produrre. Ma sarebbe il caso di sentire un Romanò, cioè uno ben disposto di fronte a questo genere di cose. O un Fortini. (Romanò è un pezzo che non legge più per noi e forse rivolgerglisi ora sarebbe specioso)[38].

 

Il 22 maggio Sereni decide di inviare il manoscritto a Gallo, per non mettere in imbarazzo Fortini, i cui rapporti con Leonetti sono piuttosto complessi, cordiali ma difficili. Il testo viene spedito a Gallo il 24 maggio e, dopo una complicata vicenda che coinvolge la perdita del pacco, il suo parere giunge alla Direzione letteraria il 29 giugno. Quella di Gallo è una sostanziale conferma al parere di Cintioli: «il libro di Leonetti è un libro sbagliato, irrisolto»[39]. Il 18 luglio Sereni scrive garbatamente a Leonetti, sintetizza i pareri dei lettori e sostiene che un rifacimento sia possibile; nonostante questo, quattro giorni dopo Leonetti rifiuta la proposta e afferma che «ognuno punta sui cavalli che crede»[40]. Il 27 luglio Sereni prende atto della decisione di Leonetti con un certo rammarico, provvede a restituirgli il testo e gli rammenta che, qualora arrivasse a un’intesa con un altro editore, ha con Mondadori un’opzione di dieci anni con scadenza nell’ottobre 1968: l’eventuale impegno risulterebbe valido soltanto per l’opera restituita. La risposta di Leonetti non si fa attendere e, il 30 luglio, Sereni riceve la seguente lettera.

 

Caro Sereni, ti ringrazio della tua lettera. Io devo chiarire due cose: che il mio libro non è affrettato, ci ho pensato tre anni prima di scriverlo, e, peraltro, le soluzioni da cui si è svolto previdi già che forse produrranno due altri libri in parte strettamente legati a questo; in essi spero che tutto sia più dosato bene e di evidenza generale; e in questo una certa violenza introduttiva mi serve o è inevitabile, un certo turgore (ma non “stilistico”; invece di affollate idee semplicemente anticonformiste per principio, come è lecito, almeno da “nouvelle vague”). Se mai, nella futura fusione con altri sarà rivisto, non per essere appianato o stilizzato, ma più funzionale. Ciò non vuol dire che io non ci abbia lavorato, ancora tutto giugno, nel dosare i luoghi scottanti o di “eros” o di “polis”, e tutto il capitolo terzo e ultimo; ma non muta neanche di tono; e se altro richiede, io dal parere attendevo un qualche suggerimento lucidissimo, mentre vi si parla di “desolazione erotica” da estendere, dove io volevo che fosse “natura schietta”, di “grottesco possibile” dove io pensavo fosse “verità angosciosa”, ecc. presentando un fraintendimento rispetto al mio concetto fondamentale, che devo respingere se non voglio buttarmi a mare: in questo mi dai ragione, certi motivi interni hanno un senso in uno scrittore anche quando lo fanno sbagliare fino in fondo o non scrivere.

Quanti libri puliti, e i Bassani e i Cassola in cima, e quanti libri “grassi”, cioè di scrittori ingrassati, o di giovani furbi, nessun libro sbagliato con coraggio! Per seconda cosa, dunque, la mia risposta non era una reazione, ma un pensiero netto. Te ne scrivo a lungo perché te lo devo per questa ultima tua lettera, molto cara; le precedenti erano un “mare di perplessità”, e io posso pensare che questo parere era quello di due mesi fa, circa, e già allora potevo essere invitato in Casa editrice per parlarne a voce (anzi: un direttore di collana[41], quando un autore gli preme, procura un rapporto personale, e non c’è nulla di male, il lavoro di revisione insieme è una cosa molto bella, ed è tutt’altro che una pagina critica). Tutto non andava dal principio, credimi, e io del resto te lo dissi addirittura in anticipo: senz’ombra, credimi. Poi la tua cura mi fece supporre che ci fosse una soluzione; che certo nel tuo intento c’era.

Se il libro potrà essere altrove pubblicato, non so; certo lo sarà, se mai, come sostanzialmente è, o se mai raddoppiato. La leggibilità che tu dici è temibilmente giusta; e però, all’estremo, i successi americani si fanno su ricette critico-editoriali, e gli autori non facili hanno “diversamente” ragione col loro orgoglio. Qui non ricette, ma: io penso piuttosto di aver bisogno, perché si imponga la mia difficile leggibilità (ma non è una balla, già per “La cantica”?), di un contatto col pubblico impostato un po’ violentemente; l’assoluta prudenza mi nuoce; e, come chi si crede non andrà in fondo nonostante i benpensanti.

Mi fa piacere dirti questo (e come, naturalmente, “tenere” sia molto difficile anche per me, giovane invecchiato) mentre è in viaggio il manoscritto: e quindi del tutto amichevolmente; in più. Le tue precisazioni ulteriori mi sono care; grazie; il tuo

Leonetti[42]

 

Il 30 agosto, dopo aver affrontato la questione relativa a Gallo e alle proprie perplessità della lettera precedente ̶ Sereni sostiene che «quando si vorrebbe arrivare a un parere favorevole ed il primo espresso non è tale, si è perplessi» ̶ , riguardo alla questione della leggibilità Sereni scrive che

 

sempre dal punto di vista strettamente editoriale, vorrei osservare che essa [la leggibilità] si pone in qualche modo diversamente per un libro di versi (dal pubblico ristretto ma più o meno, a volte lamentevolmente, qualificato) che per un libro di narrativa. Dal punto di vista editoriale, ripeto. Purtroppo debbo osservare che io, se non eccezionalmente, quando tratto di queste cose dal tavolo dell’ufficio, debbo il più possibile guardarle da questo angolo ed entrare il meno possibile nel particolare e nelle questioni che riguardano strettamente il merito: è il tipo di lavoro che me lo impone, e ti prego di tenerne conto sempre[43].

 

La trattativa per questo testo si chiude così, mentre le carte proseguono con una lettera di Leonetti a Sereni del gennaio 1966, nella quale Leonetti definisce i propri rapporti con gli amici di «Officina».

 

Non mi intendo più con Pasolini, a parte l’affettuosa amicizia; m’intendo assai più con Volponi; Roversi, tanto amico un tempo, ha voluto appendermi tutta la vita a un mio piccolo gesto sbagliato – così dice un personaggio di Pirandello –, mentre io non sono convinto del suo lavoro recente; mi trovo invece con pittori, magari; né sono più tanto d’accordo con Vittorini che in questi anni ha avuto, per sue ragioni, una predilezione spiccata per i giovani di “avanguardia”, ai quali io ho usato una stima franca e un interesse (e quanto mi è costato, mentre era giusto far così) e tuttavia verso di loro mi riserbo o sono assai critico sulla loro direzione di “magma verbale”, e penso che bisogna andar oltre e altrimenti[44].

 

Segue una lettera di Sereni a Garboli, datata 28 marzo 1966, nella quale vengono specificati gli estremi del nuovo accordo con Leonetti, che verrà concluso con la firma del contratto il successivo 22 aprile. Questi i patti: al Saggiatore la sua raccolta di saggi; nello «Specchio» la nuova raccolta di poesie; pubblicare, eventualmente, il nuovo romanzo; soprassedere, per il momento, alla ristampa dei romanzi da lui pubblicati con Garzanti (L’incompleto, 1964), Einaudi (Fumo fuoco e dispetto, 1956) e Feltrinelli (Conoscenza per errore, 1961).

Il 14 novembre 1966 Domenico Porzio comunica a Sereni l’imminente consegna del nuovo libro di Leonetti, Tappeto volante. L’autore stesso l’ha descritta come un’opera che sorprenderà molto Sereni, in quanto pur implicando un discorso assai teso verso l’avanguardia, è però di una estrema leggibilità e, proprio per questa ragione, «finirà per provocare una rottura completa tra lui e gli amici del Gruppo 63»[45]. Segue una lettera di Sereni a Garboli sul nuovo testo di Leonetti.

 

Direzione Letteraria

Milano, 12 dicembre 1966

Caro Cesare,

                   ritengo inutile sottoporre a lettura intermedia il testo di Leonetti. Non mi è possibile, per le ragioni che credo traspaiano dalla mia lettera in data 9 dicembre, diffondermi sul senso e sulle conclusioni della mia lettura. È un libro ostico, a prima vista sgradevole e, per dare un’idea, se dovessi recensirlo mi troverei in serio imbarazzo. Direi che sta all’opposto del libro di Pasolini, del quale direi che è da escludere la ricerca in senso proprio (se esiste è implicita nella “necessità” dell’opera). Qui siamo sul terreno della ricerca apertamente dichiarata e il libro ha in ciò il suo significato. In termini molto semplici: a un anno dalla pubblicazione di entrambi, il libro di Pasolini potrà essere ricordato dal lettore essenzialmente in termini emotivi; quello di Leonetti lo sarà invece nella misura in cui avrà significato un certo momento della ricerca. Da questo punto di vista il difficile libro di Leonetti mi sembra però importante, anche perché dimostra di aver assimilato a modo suo certe istanze della neoavanguardia e di averle ristrutturate, sempre a modo suo, in una costruzione narrativa. Senz’altro, sotto questo aspetto, il libro di Leonetti è un libro di punta e lo è anche in senso positivo rispetto al significato disgregante e polemico sul piano formale della neoavanguardia. Di questa il Leonetti sembra recuperare i frantumi e riutilizzarli, appunto, in senso costruttivo. Questa è la mia conclusione e non sto a indicare, per ora, le parti che mi sembrano più riuscite e le meno riuscite.

  Non pronostico a questo libro un particolare favore di pubblico, ma certamente uno spiccato interesse da parte della critica. Mia ulteriore impressione è che, salvo interventi dell’autore, non ci sia da fare altro che prendere o lasciare (ma al riguardo faccio presente che con Leonetti non esiste contratto, bensì una opzione in rapporto alla quale gli è stato corrisposto un mensile a partire dal 1 marzo 1966 e con scadenza il 31 marzo 1967. La nostra accettazione o non accettazione deve avvenire a 60 giorni dalla data di consegna, che è stata il 16 novembre).

Il mio parere è che si debba prendere e che si debba pubblicare in aprile, ma mi sembra comunque indispensabile una tua lettura.

                   Molti e affettuosi saluti,

                                                                   tuo

                                                                               Vittorio Sereni[46]

 

 

Il 2 gennaio 1967 vengono effettivamente acquistati i diritti per il Tappeto volante, pubblicato lo stesso anno nei «Narratori italiani».

 

Grytzko Mascioni

Direzione Letteraria                                                                             Sede, 29 agosto 1972

       Paolini

 

 

       Grytzko Mascioni[47] – “Bevuto alla nostra salute”[48]

 

 

       Ho letto il libro di Mascioni. Concordo abbastanza con le tue conclusioni, ma non vorrei che l’occhio troppo fisso alla eventuale “novità espressiva” (Pontiggia) facesse trascurare quanto c’è di significativo nella “confessione”: che poi è la liquidazione di un certo tipo di mentalità, il riconoscimento dell’insufficienza della dimensione estetica nella sua biforcazione tra strumento per affrontare l’esistenza e strumento per trasporre questa in realtà espressiva. Certo, non è la prima volta che ciò avviene nelle lettere di questo secolo e non è detto dunque che l’elemento da me evidenziato torni a vantaggio del libro com’è. Il quale è troppo uniforme, troppo caratterizzato da successi locali e mai o quasi mai in evoluzione tra loro, narrativamente non decolla mai. In particolare:

– certi episodi costantemente sottintesi guadagnerebbero (?) a rendersi espliciti

– occorrerebbero tempestivi sviluppi narrativi, intercalati al momento giusto.

Però certe qualità ci sono e le avete riconosciute. A me sembrano più evidenti qui che non nelle poesie (che conosco) di M. Vale la pena di parlare con l’autore, cosa che mi riservo di fare direttamente. Il credito che possiamo dare oggi a un libro che non ci convince del tutto dipende dai possibili (oggi più possibili) sviluppi della politica editoriale. Mascioni ha qualche numero per entrare in questo discorso.

Vittorio Sereni[49]

 

 

Segue, nella sezione dedicata alla corrispondenza con autori e collaboratori, un lungo parere sulla nuova stesura del romanzo.

 

 

Direzione Letteraria

8 gennaio 1973

 

Grytzko Mascioni – “Carta d’autunno”

       Nel precedente parere dicevo che il libro narrativamente non decolla mai. In seguito l’autore ha sottoposto il testo a un accurato lavoro di revisione e questo ha dato, a mio avviso, i suoi frutti. Lucentini e Fruttero, che già sostenevano il libro nella sua prima stesura, lo raccomandano anche più caldamente ora.

Alcune ambiguità del testo sono state eliminate e soprattutto sono stati chiariti alcuni nessi o punti decisamente oscuri e confusi, oppure approssimativi, della prima stesura. In più c’è qualche movimento nuovo, qualche passaggio più deciso, qualche articolazione più agile. Mi sono d’altra parte convinto, dopo la mia seconda lettura, che non sarebbero stati opportuni mutamenti strutturali in quanto la ragione di essere del libro non li avrebbe sopportati. Su sviluppi narrativi nel senso esteriore non si può insomma contare: ciò che normalmente si intende per trama o intreccio o “storia” narrata non esiste. Esiste invece una storia di movimenti interiori ed emotivi, questi con una loro linea evidenziabile, puntellata a momenti e situazioni a volte allusi soltanto, altre volte ampiamente evocati. A modo suo è un’“opera aperta” che si vale largamente della familiarità con la macchina da presa. Le figure femminili che si muovono nel libro sono almeno quattro, ma non è essenziale – per chi lo abbia letto – chiedersi se non si tratti invece di tre o anche di una sola. Perché il libro, sostanzialmente poetico senza essere poesia in prosa, si può – non dico si deve ̶ leggere come un libro di poesia, nel senso che si può anche leggerlo a intermittenze. Aperto a caso, rende sempre, vive a tensione costante catturando l’attenzione e concentrandola sul particolare che magari non verrebbe messo a fuoco debitamente se si adottasse il modo di lettura solitamente riservato al racconto-racconto e al romanzo-romanzo. E come per un libro di poesia l’evidenza e il rilievo del tutto risulta dalla ricostruzione, dal confronto e dalla somma dei singoli paragrafi di media e breve estensione di cui il libro è composto. Al tempo stesso gli si farebbe torto se non gli si riconoscesse il pregio di una progressione invischiante sotto l’aspetto emotivo: non si tratta di una storia d’amore, o si tratta allora di più storie incrociate o sovrapposte, ma piuttosto di una vicenda all’insegna, se così si può dire, del mal d’amore – per cui il libro è al tempo stesso cartella clinica di quel male, lettera intima, diario retrospettivo, confessione, bilancio. S’intende che quello che ho chiamato mal d’amore era all’origine promessa di vitalità, slancio verso la vita, entusiasmo biologico. Parlavo l’altra volta di erotismo vissuto come dimensione fondamentale, anzi unica, dell’esistenza; e dell’altra sua faccia, l’estetismo. Nella storia del nostro M. questi due mezzi di propulsione verso la vita manifestano la loro crisi e introducono il senso della morte. Dall’“apprendistato del seduttore al tempo della speranza”, si rotola alla desolata consapevolezza di “come da un letto all’altro si perda il senso dell’appartenenza, e che la povertà del seduttore non è mai immaginaria”. Ma il male è certo più complesso e inquietante di quanto possa dire questo sommario diagramma. Il personaggio scrivente, quello che dice “io” (ma a tratti cerca di obiettivarsi, introduce la terza persona, quasi fosse tentato di superarsi contemplandosi e versandosi in un racconto vero) vive la sua crisi tra schiarite, ritorni di vitalità, cadute d’energia, improvvise speranze. I sintomi del suo male assomigliano stranamente a quelli del meteoropatico; la sua ossessione – di volta in volta questa o quella donna; una pluralità di fantasmi che sono al tempo stesso le donne e la donna; gli amori e l’amore – si identifica nel simbolo dell’araba fenice, di quell’“uccello raro che vola sempre via che brucia e rinasce ma non c’è uno al mondo che sappia dire dov’è ma soltanto che lo si sente, da qualche parte, qualche volta cantare, ma poi ti dimentichi anche del verso che fa e non sai più se ride o piange”.

In questa sorta di eterno inseguimento – lungo un percorso disseminato di vittime che non sono altro che le successive figure del seduttore, regolarmente destinato a essere vittima dei propri illusori trionfi – il motore non è, come parrebbe, il desiderio o la avidità di sperimentare o conoscere, ma piuttosto la memoria: la memoria che fissa due o tre momenti tipici con una sua macchina da presa ed è portata inconsciamente a ripeterli, riaccendendo con ciò il desiderio. Il richiamo, ossia la preda inseguita e mai veramente raggiunta, è l’ineffabile dell’amore, sia questo dato da ricordi oppure da sensazioni, rimpianti, brusche resurrezioni. “Ma l’uomo che troppo a lungo si è accontentato di un simile pensiero [e che in questo ha ridotto, ad esclusione di ogni altro interesse, il senso dell’esistenza, la ragione del sentirsi vivo – n. d. r.] era battuto in partenza – adesso lo sa – se quello che gli stava a cuore, era solo di avere un po’ più di una vita o di una storia. Perciò, quando viene l’inverno, cerca una tana. E il romanzo possibile è il sogno che dirama da un vago letargo…”

Dal quale ultimo brano ci si potrebbe anche aspettare di essere immessi in un ennesimo “romanzo del romanzo”. Io mi limiterei invece a vedervi la motivazione e lo spunto a scrivere il libro come è stato strutturato: cartella clinica, lettera intima, diario retrospettivo, confessione, bilancio – non di un affanno d’amore; ma dell’ossessione con cui uno erige a ragione dell’esistenza gli affanni d’amore.

Si potrebbe obiettare che cose così le abbiamo ormai alle spalle, che psicologia, sociologia e altre discipline ci hanno insegnato, oggi che la sessuologia è diventata rubrica di settimanale, a vedervi nient’altro che sublimazioni dei fatti sessuali. E si potrebbe anche osservare che non è un caso se questa storia ha per sfondo di base, riconoscibilissimo, il Canton Ticino, più o meno asetticamente isolato da ben altre vicende e interessi, o dove gli echi di questi giungono in qualche modo attutiti. Ma trovo più importante osservare che in queste pagine sembra compiersi la parabola di un personaggio di nostra conoscenza: quello di don Giovanni, colto negli ultimi spasmi di una sua versione o reincarnazione novecentesca, proprio sul rovescio della tracotanza e del vigore originari. Detto questo, non vorrei che si pensasse d’altra parte a una sorta di divagazione saggistica o di romanzo-saggio. Al contrario, l’interpretazione che ne ho data sorge senza forzatura da una partecipazione che il linguaggio impone coinvolgendo paesaggi, ore, atmosfere, gesti, volti, atteggiamenti. È in questo senso ricco e avvincente e penso non si debba lasciar perdere. Non promette, per il modo della sua fattura, di ottenere largo e immediato successo di pubblico; ma non potrà non riscuotere attenzione. A mio parere entra con buoni titoli in quella ristretta – anche troppo – fascia di produzione cui dobbiamo provare che teniamo gli occhi aperti e che non ci addormentiamo sui facili, troppo facili allori.

Vittorio Sereni[50]

 

L’8 gennaio 1973 Sereni fa recapitare a Mascioni il parere conclusivo sul suo libro, in via del tutto eccezionale e riservata, e gli comunica che riceverà il contratto in breve tempo. Lo stesso giorno Sereni scrive a Fruttero.

 

Milano, 8 gennaio 1973

Caro malignazzo,

                   ecco il parere conclusivo con cui viene varato il libro di Mascioni. In bozze non sarà male ripulirlo di qualche aggettivo di troppo, ma debbo dire che sono convinto del libro.

Speriamo bene e arrivederci presto (vale anche per Lucentini).

Con affetto

Vittorio Sereni

 

Dott. Carlo Fruttero

Corso Cairoli 4

10123 Torino[51]

 

Le notizie successive riguardo a Mascioni si hanno nel 1978, con la ricezione del dattiloscritto del suo nuovo libro, Test[52].

 

Sede, 4/4/78

 

AL DOTTOR PAOLINI

 

Grytzko Mascioni: “Test”

Come sai avevo letto la prima stesura, in parte indigesta, e avevo dato alcuni consigli all’autore che poi ci ha lavorato.

Una seconda lettura del testo attuale mi pare indispensabile (a parte la rilettura che difficilmente potrò evitare io).

Vittorio Sereni[53]

 

E infatti, nel giugno dello stesso anno:

 

13 giugno 1978

DOTTOR PAOLINI

 

Grytzko Mascioni – Test

Ti passo parere e note sul libro di Mascioni, il quale aspetta una risposta entro il 25 al più tardi perché poi sarà assente per tutta l’estate o quasi. Del ritardo mi assumo quasi per intero la responsabilità e Mascioni ne è al corrente. Circa le osservazioni da fargli, posto che accetti di lavorare ancora a una revisione e che la casa editrice ritenga che ne vale la pena, sono disponibile.

Vittorio Sereni[54]

 

 

13 giugno 1978

 

DOTTOR PAOLINI

 

Grytzko Mascioni – Test

Mascioni, per chi lo conosce nelle cose scritte in precedenza (versi e prosa) è addirittura un maestro nell’analisi delle cose dell’amore, sulla diagnosi dell’innamoramento, del tutto che questo pretende di essere al suo insorgere, del niente che ne rimane a esperienza consumata. Un esempio – ma ce n’è una serie – a pag. 162-163. Di questo libro avevo letto la prima stesura e ne avevo riferito all’autore, indicandogli i tratti a mio parere difettosi o ingombranti. Ho letto ora la seconda stesura e a parte unisco una serie di nuovi appunti, presi (come di solito non faccio) via via che leggevo.

Il libro era e rimane di lettura tutt’altro che riposante e certamente richiede un molto di concentrazione e a volte di pazienza (che non vuol dire indulgenza). Mascioni è sostanzialmente un poeta (e prima o poi Forti farà bene a interessarsi alla sua poesia in versi) che però affronta l’impegno narrativo: vorrei dire che avverte il bisogno di espandersi narrativamente al di là dei versi. Con risultati alterni. Le mie note rendono conto di questa oscillazione. Quando narra è puntiglioso fino alla sovrabbondanza, accanito nel rendere conto delle componenti psicologiche e morali delle situazioni che affronta. Le due nature, del poeta “tout court” e del poeta che si prolunga narrativamente fino alla sofisticazione e alla cavillosità dimenticandosi della dote più naturale e quasi contraddicendola, si alternano come dicevo: basterebbe confrontare le pagine – molto belle – del capitolo Il ragazzo che ero con le pagine 108-120 per intendere il senso di questa convivenza contrastata. Sulle pagine 108-120 v. mio commento nella nota corrispondente.

C’è dunque uno sdoppiamento che si riflette poi nei due personaggi centrali. Peter crede di confessarsi a Sidney nella prima parte del libro e Sidney si confessa in un certo senso a se stesso nella seconda. Finiranno in qualche modo per coincidere rimanendo le due facce diverse dello stesso personaggio (probabilmente dell’autore stesso) portato alla religione della “gioia”, e aggrovigliato, problematico non appena tenta di risolvere in meditazione e in bilancio tale propensione. Se poi veniamo a considerare i molti personaggi femminili, evocati o direttamente rappresentati, finiamo col concludere che si tratta di una serie di rifrazioni di un unico ossessionante idolo o fantasma: la donna appare, più genericamente, l’amore. Lo schema qui accennato potrebbe far pensare a una divagazione autobiografica, non immune da estetismi, compiacenze, futilità; ma sarebbe uno scambiare il contenuto della cosa rappresentata col valore della rappresentazione. Questo libro riesce di fatto a una rappresentazione aggrovigliata di aspetti, condizioni e motivi del nostro tempo vissuti e sofferti nel loro porsi quotidiano; e per questo va preso in considerazione, e non solo perché dovuto a uno che è già nostro autore. Quello che vorrei mettere in chiaro è che, contro ogni apparenza, Mascioni è tutt’altro che un istintivo o un candido. Caso mai i suoi difetti vanno cercati nella direzione opposta e sono in parte correggibili nel senso di uno sfoltimento, ulteriore rispetto alla prima stesura. Le mie note tendono anche a questo, sebbene non si sia incluso il suggerimento di alleggerire un poco l’inizio del libro e alcuni tratti della parte conclusiva. Penso che valga la pena di intrattenere in proposito lo scrittore. Vedremo se sarà in grado di operare uno sforzo in più rispetto a quello cui già si è sottoposto.

In ogni caso il libro, estraneo in positivo alla più tranquilla linea media italiana, non solo è pubblicabile ma è da pubblicare al di là di ogni opinabile previsione sulla sua fortuna di pubblico.

Vittorio Sereni[55]

 

E ancora sullo stesso romanzo, a distanza di qualche mese.

 

Vittorio Sereni

 

 

       ap                                                                                                         Sede, 27/10/78

AL DOTTOR PAOLINI

 

Grytzko Mascioni: Il gioco delle voglie[56]

Nella lettura di Antonelli c’è tutto il bene e tutto il male che si possono dire di questo libro, da me letto nella prima stesura e nella seconda, non coda di particolareggiate osservazioni all’autore. Ma Antonelli conclude nel solo modo a questo punto possibile: le considerazioni da fare sono “in primo luogo d’ordine editoriale”.

Vedi dunque tu: o si dà credito all’autore, che ha ormai dimostrato di non essere uno qualunque, e gli si passa per buono il peccato per eccesso di letteratura; oppure lo si invita a una ulteriore riflessione, che a questo punto mi pare inattuabile e un tantino sadica.

Fossi in te lo convocherei e gli parlerei francamente. È chiaro che la Mondadori odierna evita il più possibile libri di questo tipo e non arrischia volentieri. L’autore vuole arrischiare lo stesso?

Per quanto mi riguarda posso limitarmi a riferirgli le ragioni di perplessità “editoriale”, ma non mi sento di compiere una terza lettura e di discuterne criticamente con l’autore.

Vittorio Sereni[57]

 

Daria Menicanti

 

Direzione Letteraria                                                  30 agosto 1974

A Morando

Daria Menicanti – “Poesie per un certo Federico”

       Parliamo della Menicanti, di cui mi farebbe piacere se tu leggessi personalmente il malloppo che ti unisco e che penso ti divertirà. Ho segnato con una crocetta a matita, in fondo, le poesie che sicuramente terrei. Sul resto si può discutere con la responsabile.

La Menicanti è una falsa naive ma si potrebbe ripetere per lei quello che Sinsgalli ha detto una volta per Orenore Metelli: “questi fenomeni giovano a mettere in sospetto le facili sistemazioni dei critici” (v. il testo stampato nel quartino dedicato appunto a O. M. che fa da involucro, vedi caso, al malloppo menicanteo).

La Menicanti – per usare una “facile sistemazione” – sta tra Saba e Penna; ma ci si sente un’assidua lettura di Kavafis con aggiornamenti dal Montale di Satura. In ogni modo questa è solo una caratterizzazione esteriore. Conta la limpidezza, la potabilità, la comunicabilità immediata per via d’arguzia[58]: tutto il contrario di quanto oggi va di moda tra gli addetti ai lavori. È uno dei pochi casi di presa diretta rispetto a un pubblico potenziale da parte di un testo di poesia. Me lo conferma il fatto che gente del tutto anonima, oscuri lettori, le scrivono con una certa frequenza (e non perché sia celebre o senatrice o potente) in questo o quel giro).

Da noi ha pubblicato due libri, uno nel Tornasole, uno nello Specchio. Ha tradotto su mia indicazione, in modo discutibile ma efficace, le poesie di Géraldy (Biblioteca di Grazia). Ha idealmente un suo posto nello Specchio – e dunque non ci sarebbero problemi, se non di epoca di apparizione (non il ’75, forse il ’76). Piace molto a Solmi, a Betocchi, alla Banti, alla Romano, abbastanza a Montale.

Non piace a Zanzotto.

Perché te ne parlo chiedendoti di leggerla? Perché mi sembra un caso particolare. Penso che se debitamente appoggiata dai nostri settimanali femminili se ne potrebbe fare (v. il titolo) un piccolo caso. Ma vedrei più un’edizione poco costosa (non un Oscar), del tutto a parte, oppure senz’altro un volume tipo Géraldy, magari illustrato, per Biblioteca di Grazia: un libro di poesia per la campagna estiva del ’75 o per le strenne dello stesso anno. Può essere un esperimento, con i rischi del caso. Ma non è un esperimento di quelli che possono indurre a successivi esperimenti analoghi: è davvero un caso a sé.

Se questa soluzione non la vedi, è chiaro che ripiegherò su una proposta di contratto per lo Specchio esortando l’autrice alla pazienza.

Vittorio Sereni[59]

 

Elio Pagliarani

 

La turbolenta corrispondenza con Elio Pagliarani è conservata in gran parte nella «Segreteria editoriale autori italiani» e copre un arco di tempo che ha inizio nel 1959 e si chiude nel 1973.

La prima lettera inviata a Pagliarani, firmata Arnoldo Mondadori Editore, risale al 14 febbraio 1959 e si tratta di una richiesta di notizie riguardo al suo lavoro poetico. Pagliarani risponde il 20 febbraio di avere pronto un poemetto narrativo o racconto in versi dal titolo La ragazza Carla: «una giovanissima dattilografa milanese, corso serale di dattilografia, primo impiego in piazza Duomo in una società d’import-export, di circa settecento versi»[60]. L’uscita è prevista entro l’anno in rivista e in un libretto, a un anno dalla pubblicazione del quale Pagliarani avrebbe intenzione di assemblare una raccolta riassuntiva di questo suo periodo di lavoro, che dovrebbe comprendere i testi migliori da Cronache e altre poesie (Schwarz, 1954), l’appena edito Inventario privato (Veronelli, 1959) e, appunto, La ragazza Carla. È datata 21 luglio 1960 la proposta di uno «Specchio» da parte della Direzione letteraria per le Poesie di Pagliarani, raccolta che comprende i testi da lui stesso selezionati nella lettera precedente e dalla consegna prevista entro fine settembre 1960. Dal 26 gennaio 1961 si ha notizia di due solleciti a Pagliarani, finché il 10 aprile finalmente il parere – che sostiene la necessità di pubblicazione perché «a noi tocca riconoscere che qui c’è una pronuncia spesso molto intensa; che definisce benissimo un momento, forse un decennio lombardo, che resiste»[61] – scritto da Franco Fortini riguardo il testo definitivo de La ragazza Carla e altre poesie. Il 15 dello stesso mese Sereni lo propone per «Il Delta», «titolo provvisorio, ma forse definitivo della nuova collana»[62], di cui dovrebbe essere il secondo, subito dopo una raccolta di Zanzotto. Il 20 luglio Sereni comunica a Pagliarani di aver programmato il suo libro per novembre, nel secondo gruppo della nuova collezione. Dopo aver rimandato l’uscita del libro per problemi tecnici e ritardi, finalmente si ha traccia di un telegramma datato 11 marzo 1962, inviato a Pagliarani da parte di Alberto Mondadori, che si ritiene lieto e compiaciuto di annoverarlo fra gli autori della sua Casa, e augura a La ragazza Carla un felice cammino. Da qui le carte testimoniano la problematicità che determina i rapporti fra Pagliarani e la casa editrice Mondadori. Una lettera di Sereni a Gallo datata 19 settembre 1962 riassume la questione Pagliarani.

 

Milano, 19 settembre 1962

Caro Niccolò,

                   la questione di Pagliarani (che, detto tra noi, mi ha non poco disturbato) è la seguente. Pagliarani ha fatto le solite lamentele, ha chiesto la rescissione del contratto e poi interrogato con santa pazienza da me ha finito col farmi sapere che due editori (Feltrinelli e Bompiani) si contendono il romanzo in versi che sta scrivendo.

                   Non so come sarà questo romanzo e quale effettiva presa possa avere sul pubblico, ma è chiaro che Pagliarani vorrebbe pubblicarlo nei Narratori. In caso positivo sarei anch’io del parere di pubblicarlo lì e non nello Specchio.

Naturalmente con un lancio adeguato e particolarissimo. Nella contrattazione poteva entrare anche una certa antologia sulla poesia più recente, per la quale Pagliarani era impegnato con Feltrinelli e di cui Feltrinelli aveva più volte rinviata la pubblicazione.

                   Saputo del nostro interesse, Feltrinelli si è precipitato ad assicurare Pagliarani circa la data della pubblicazione. Rimane dunque in gioco il solo romanzo in versi, per assicurarci il quale Pagliarani chiede un mensile. Ne ho parlato anche ad Alberto che è d’accordo con me sull’opportunità di arrischiare un fiasco e di non cedere questo rischio ad altri. È tuttavia indispensabile che Pagliarani, come mi ha promesso, ti faccia vedere quanto ha scritto sino a questo momento. Dipenderà molto dal tuo parere una decisione anche sul piano economico. Non direi che tu debba per questo precipitarti a telefonargli. Tocca a lui farsi vivo. Se però si fa vivo, mostrati pure al corrente della questione.

Grazie se mi terrai informato. Con vivo affetto,

tuo

Vittorio Sereni[63]

 

L’8 ottobre 1962, la Direzione letteraria invia un appunto alla Contabilità autori in cui si registra la decisione dell’Amministratore delegato di corrispondere un anticipo di centomila lire a Pagliarani sul romanzo in versi che sta scrivendo, in modo da tenerlo legato a Mondadori. In una lettera del 13 ottobre 1962 Gallo informa Sereni che

 

Pagliarani ritiene di poter concludere il suo lavoro tra la fine del ’63 e i primi del ’64. Ne verrà fuori un libro singolare, discutibile se vuoi, ma di innegabile interesse e l’idea dei “Narratori” mi trova, in linea di massima, del tutto consenziente[64].

 

Si tratta de La ballata di Rudi (Marsilio, 1995), di cui Gallo ha già letto i primi 300 versi, definiti buoni. Aggiunge anche che Pagliarani ha appena accettato di curare una collezione di poeti per Rizzoli e che

 

la collaborazione di Pagliarani potrebbe anche essere utile: in questo senso che, essendo molto lontano, agli antipodi, da quelli che possono essere i miei gusti, probabilmente il suo intervento potrebbe provocare scariche elettriche e contrasti tutt’altro che inutili[65].

 

L’importante, secondo Gallo, è

 

definire in un modo o nell’altro la questione, data la suscettibilità del personaggio e dato che, a stare alle sue affermazioni, altri editori sono disposti ad andargli incontro generosamente[66].

 

Il 17 ottobre dello stesso anno Pagliarani comunica a Sereni le proprie richieste: ottantamila lire al mese per due anni per la Ballata oppure centomila lire per lo stesso periodo, compresa però una lettura motivata di dattiloscritti. Due giorni dopo, Sereni, in disaccordo con la proposta, chiede a Gallo di convincere Pagliarani, la cui lettera «non è certamente un modello di cortesia e di senso dell’opportunità»[67], ad abbassare la cifra a sessantamila lire. Sereni esclude la possibilità di impiegare in letture Pagliarani, perché

parla troppo, vede troppa gente, e certe questioni piuttosto delicate prenderebbero chissà quali sviluppi passando poi attraverso di lui. Temo che tra l’altro un contatto quotidiano con lui sarebbe per te un motivo in più di complicazioni e contrasti[68].

Il 25 ottobre, Pagliarani, «euforico, entusiasta e pieno di gratitudine»[69], annuncia a Sereni di aver stipulato un accordo con Alberto Mondadori. Alla luce delle ultime disposizioni, il 13 novembre Sereni scrive a Pagliarani per conoscere la consistenza del suo volume da destinarsi allo «Specchio» e, prestabilito che tra «Specchio» e «Tornasole» verranno pubblicati sei libri di poesia tra primavera e autunno, propone l’uscita dello «Specchio» di Pagliarani per il novembre del 1964. Il 15 novembre Pagliarani si dice d’accordo sulla data di pubblicazione, ma con alcune rimostranze: con una giusta fascetta, comunque il volume non dovrebbe mancare di interesse e ragione editoriale anche immediati; fosse pubblicato in primavera, uscirebbe due anni dopo il «Tornasole» e un anno prima della Ballata, mentre, uscendo in novembre, rischia di accavallarsi alla Ballata. Aggiunge inoltre notizie sullo stato dei propri testi editi solo in rivista o del tutto inediti: al momento dice di avere pronti cinque recitativi drammatici di circa ottanta versi ciascuno e non più di una mezza dozzina di poesie sparse. In risposta, Sereni stabilisce in via definitiva la data di uscita dello «Specchio» di Pagliarani per novembre 1964, salvo improbabile anticipo. Il 23 novembre 1962, Pagliarani, dopo aver cambiato idea, scrive a Sereni circa la propria speranza di terminare la Ballata entro il prossimo ottobre, affinché possa uscire per primi del ’65, rimandando lo «Specchio» a una futura discussione tra giugno e settembre, in caso di ritardo con la Ballata.

A distanza di tre anni, nel febbraio 1965, Crovi ricorda a Pagliarani di consegnare a Mondadori il testo per il suo «Specchio» entro fine mese. Pagliarani risponde il 23 febbraio, recapitando le poesie per lo «Specchio,» che prenderà il titolo Lezione di fisica e comincerà con sei Lettere, alcune Cronache e poi La ragazza Carla (l’alternativa è finire con le Cronache). Della Lezione, già edita da Scheiwiller nel 1965, manca E altri recitativi, e non è stato inserito l’Inventario privato. Comunicata la propria selezione, Pagliarani sostiene di essere a disposizione per obiezioni sul titolo e sulla scelta. L’11 marzo Crovi scrive un appunto per Sereni, trovando «almeno discutibile» l’esclusione di Inventario privato e lamentandosi perché «di inediti non se ne mette proprio nessuno»[70]; Sereni, probabilmente provato dai contrasti editoriali con Pagliarani, annota a mano un appunto: «per me sta bene riguardo alla raccolta proposta e faccia lui riguardo al titolo»[71]. La proposta di contratto, datata 7 giugno, è così strutturata: il titolo provvisorio è Poesie; il volume include i testi de La ragazza Carla e altre poesie (escluso Inventario privato) e sei testi da Lezione di fisica. Alla proposta seguono ulteriori dubbi di Pagliarani, esposti in una lettera a Crovi del 27 luglio, riguardanti sia l’inadeguatezza del formato dello «Specchio», così poco adatto ai suoi versi lunghi a causa delle «orribili parentesi quadre che spezzano il verso», delle modalità degli a capo non sempre rispettate, dei caratteri e dei titoli troppo piccoli; sia il rinnovo dell’opzione, poiché il «Tornasole» di Zanzotto ha avuto più del doppio della pubblicità rispetto al suo; sia su cosa stampare o ristampare. Conclude la lettera dicendo che forse la cosa migliore sarebbe sospendere lo «Specchio» e riparlarne dopo l’Antologia[72].

Segue una lettera del 3 marzo 1967, inviata da Sereni a Forti per segnalare la mancata consegna de La Ballata di Rudi da parte di Pagliarani, che ha già ottenuto un grande anticipo. In una nota della Direzione letteraria riguardante Pagliarani si legge che

 

Pagliarani non ha risposto[73], per quanto ne so, e si è rivolto a Garboli adottando la solita tattica dell’attaccare per difendersi. Si è lamentato di nostre inadempienze a proposito dell’Antologia di poesia sperimentale, che noi non avremmo né sostenuto né diffuso secondo le promesse. Ha detto di essere disposto a restituire la cifra corrispostagli, pur di essere lasciato libero. Non ha tuttavia escluso di riunire i frammenti sin qui scritti per la Ballata in un volume, e intendeva con ciò di estinguere il suo debito verso di noi. È chiaro che di fronte a un volume di questo tipo non regge l’ipotesi Narratori, e il mio punto di vista è che si potrebbe accedere alla sua proposta, purché accetti la pubblicazione nella NCL[74]. Comunque, P. chiede di parlare direttamente con Alberto[75].

 

In una lettera datata 11 ottobre 1967 e indirizzata ad Alberto Mondadori è riportata la conferma di Pagliarani riguardo l’impossibilità di consegnare La ballata di Rudi alla Mondadori, sia per ragioni oggettive (il lavoro non è ancora compiuto) sia perché

 

[…] come è stato dimostrato dalle vicende successive alla costituzione del Gruppo 63 e relative polemiche sull’avanguardia, io non possa più considerare la Mondadori, pur così benemerita sotto tanti altri punti di vista, la sede adatta alla pubblicazione della mia Ballata: e ciò, mi pare, nell’interesse reciproco[76].

 

Alberto, che d’ora in poi si occuperà solo del Saggiatore, indirizza a Sereni la corrispondenza il 26 dello stesso mese. Segue una lettera di Forti a Sereni, datata 28 novembre 1967, dove viene trasmessa la conversazione sostenuta con Lamberto Pignotti, al quale Pagliarani ha riferito di non pubblicare più con Mondadori ma col Saggiatore. È quasi automatica allora la proposta di un collaboratore su Roma (Gallo?) che copra lo stesso ruolo che assunto da Garboli per il Saggiatore.

Una nota di Glauco Arneri[77] a Polillo, datata 13 novembre 1968, chiarisce definitivamente la posizione di Pagliarani nei confronti della Mondadori: già autore Mondadori con La ragazza Carla e col Manuale di poesia sperimentale, il 12 novembre 1962 aveva firmato un contratto per una nuova opera di poesia intitolata La ballata di Rudi[78], ma la consegna, prevista per il 30 ottobre 1964, non è mai avvenuta; nel frattempo gli anticipi (2.020.000 lire) gli sono stati regolarmente versati. Nel novembre 1967 è scaduta l’opzione quinquennale sulle opere future e, nel maggio 1968, è uscito presso Feltrinelli Lezione di fisica e Fecaloro, il nuovo libro di Pagliarani.

La questione Pagliarani si esaurisce con una lettera di Forti a Sereni del 13 dicembre 1973, dove Forti esprime contrarietà nei riguardi di una possibile pubblicazione di un tascabile dedicato a Pagliarani, il cui comportamento «visto in termini di correttezza editoriale, può solo definirsi “indecente”»[79] e che «dal tempo della Ragazza Carla, ha solo prodotto una letteratura parecchio lambiccata in cui ripeteva i moduli della neoavanguardia neanche tanto bene»[80].

 Alessandro Peregalli

 

Segrate, 2 novembre 1982

PER IL DR. FORTI

 

Alessandro Peregalli – “L’anima”

 

 

Evviva! Siamo davvero ad una svolta, la svolta che consente ai libri come questo di essere accolti alla pari con libri di tutt’altro rigore e intensità. Per intenderci: vincerebbe a mani basse la fetta del Premio Gatti riservato al “pubblico” (onesti professionisti esclamerebbero che sì è poesia).

Mi fa pensare a un romantico tedesco tradotto in modo certo decente: al quale siano concesse espressioni come “dolce volto assorto”, “gioia astrale”, “al tuo aspetto immortale, regina dell’anima mia”, “il viso angelico soave”. Come se Ungaretti non fosse mai esistito, e nemmeno Saba e Montale fosse stato letto in modo indebito. Pontiggia ha ragione nell’affermare che la raccolta ha una unità di tono e di esperienza; ma si tratta di unità nella direzione sopra accennata.

Ingenuo nel versificare ovvietà meditanti e sotto sotto presuntuoso, il P. ha abbastanza sovente, come all’insaputa di se stesso, tratti di pregnanza e di incisività. Mai o quasi mai in una intera poesia, capace com’è di sciuparla con le proprie mani.

Per me, se penso allo Specchio, è pollice verso.

                                                                               Vittorio Sereni[81]

 

Alberico Sala

Tra il 22 ottobre e il 16 novembre 1962, la Direzione letteraria fa avere a Fortini le poesie di Sala, in vista di un parere editoriale. Il 10 gennaio 1963, Fortini esprime su carta intestata Direzione Editoriale A. M. E. un giudizio estremamente negativo, che viene riassunto in un’altra carta presente nel fascicolo e datata 8 febbraio.

 

Lette con attenzione queste numerose liriche, le giudico insignificanti. Non si capisce proprio di che cosa si stia parlando: vagamente di un amore, di gite, di viaggi. Non c’è nemmeno l’enfasi o la copia. Dice, nella poesia “Memoria”: “lo spettatore più accorto – non vedrà la mia lotta con la memoria”: Sfido che non la vedrà. Non si vede nulla. Non è la poesia dell’opaco: è l’opaco e basta. È inutile che Sala condisca con allusioni storico-geografico-politiche (i cosmonauti, il muro di Berlino o la guerra d’Algeria): tutte cose delle quali manifestamente non gli importa nulla[82].

 

Sulla stessa pagina, viene trascritto il parere di Sereni in relazione al giudizio di Fortini (che compare anche in un’altra carta, intestata Mondadori e datata 12 febbraio).

 

Trovo il parere di Fortini in questo caso eccessivo e moralistico. Una certa futilità di fondo (non solo di origine giornalistica) non impedisce all’autore di dare immagini vive della nostra contemporaneità urbana ed extraurbana. La labilità stessa delle immagini e delle situazioni che ci offre, credendoci in modo effimero e distruggendole subito dopo, è in qualche modo una dimensione attuale e dolorosa, di cui forse il Sala non si rende contro come dovrebbe per lavorare più utilmente nella direzione in cui l’istinto lo ha portato.

Per questa ragione e per altre di opportunità che ho esposto verbalmente all’Amministratore Delegato avendone l’approvazione, esprimo parere favorevole per la pubblicazione del libro nel TORNASOLE[83].

 

Firmato il contratto, l’autore in data 10 aprile ritira il testo e lo riconsegna rivisto e corretto il 18 aprile; il volume viene pubblicato nel «Tornasole» nel 1963, con il titolo Un amore finito male.

Un nuovo volume di versi, Il verso giusto, è pronto nel 1967 e il parere di Forti è sostanzialmente positivo. L’autore desidererebbe uno «Specchio», ma è impossibile, perché il programma dei successivi due anni è già completo, mentre il «Tornasole» sarebbe adatto, ma ormai si è configurato come sede dedicata in esclusiva agli esordienti[84]. Nello stesso tempo, Sala confessa a Forti di avere ricevuto proposte da Gramigna e Bo per Rizzoli. Ancora nel dicembre 1968, Forti scrive a Sereni dell’impasse che ha provocato la questione Sala, il quale pubblicherà finalmente la raccolta presso Rusconi nel 1970, con il titolo Il giusto verso.

 

 

[1] I più vivi ringraziamenti vanno al personale della Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, e agli eredi di Vittorio Sereni, che hanno permesso la pubblicazione di questo lavoro.

[2] La definizione deriva dal celebre epigramma di Fortini: «Poeta e di poeti funzionario, / prima componi quei tuoi versi esatti / poi componi i tuoi colleghi nel sudario / dei tuoi contratti». F. Fortini, 136 [Epigrammi per Vittorio], oggi contenuto in Id., Saggi ed epigrammi, Milano, Mondadori, 2003, p. 1064.

[3] G. C. Ferretti, Poeta e di poeti funzionario. Il lavoro editoriale di Vittorio Sereni, Milano, il Saggiatore/Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 1999.

[4] V. Sereni, nota autobiografica in Ritratti su misura, a cura di E. F. Accrocca, Venezia, Sodalizio del libro, 1960; si cita da V. Sereni, Poesie, Milano, Mondadori, 1995, p. CXVII.

[5] N. Tranfaglia, A. Vittoria, Storia degli editori italiani. Dall’Unità alla fine degli anni Sessanta, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 311.

[6] Ferretti, Poeta e di poeti funzionario, cit., p. 41.

[7] Questo processo si colloca in un periodo che va dalla fine degli anni Sessanta al 1971, anno della scomparsa di Arnoldo Mondadori.

[8] Ferretti, Poeta e di poeti funzionario, cit., p. 54.

[9] Ivi, p. 108.

[10] Per il giudizio su Accrocca si veda l’apparato. La sottolineatura, come tutte le successive, è di Sereni.

[11] Si cira da una carta riguardante Mascioni, trascritta in apparato.

[12] Nel luglio 1957 ha luogo la «transazione Pasolini»: la Mondadori concede a Garzanti la pubblicazione delle Ceneri di Gramsci, ricevendo in cambio l’autorizzazione a inserire Vita di Michelangiolo nella vita del suo tempo (Garzanti, 1949) e Passato remoto (L’Arco, 1948) nel corpus dell’opera omnia di Giovanni Papini.

[13] Uno degli svariati esempi che testimoniano questa caratteristica di Sereni si trova nella prosa Ciechi e sordi, dove il «discorso sulla poesia» viene definito come il campo di una «folta schiera di esponenti, di dottori in ideologia letteraria», con «il suo linguaggio parascientifico, parapolitico, parasociologico, parapsicanalitico, parafilologico, paratutto; così ricco di corsivi e virgolette, così come sempre più corsivi e tra virgolette, quando non parafrastici rispetto a un testo non scritto o da scrivere, sembrano i testi poetici che ne derivano; che alla sua prestigiosità extraletteraria, più che a reali esigenze extraletterarie, affida i suoi programmi di rinnovamento letterario; e che in ogni caso è infinitamente più sollecito e ansioso di se stesso e delle proprie dimostrazioni che non dei testi su cui si esercita; pedantesco, ipertrofico discorso, abnorme verifica della scienza, della politica, della sociologia, della psicanalisi eccetera sul suo pretesto prediletto e per così dire più indifeso, a volte più futile: cioè sul prodotto poetico». V. Sereni, Ciechi e sordi, ne Gli immediati dintorni primi e secondi, Milano, Il Saggiatore, 2013, p. 76.

[14] Mentre per Celan lo «Specchio» del 1976 è il primo volume in italiano in assoluto, la Mondadori aveva già tradotto il romanzo di Plath, La campana di vetro, nella collana «Nuovi scrittori stranieri» (1968).

[15] Per i giudizi relativi a Milo De Angelis si veda l’apparato.

[16] M. Cucchi, Poesie 1965-2000, Milano, Mondadori, 2011, p. 263.

[17] La questione SIS è stata riassunta puntualmente da Antonio Loreto: «Se nelle intenzioni il grande contenitore “SIS” avrebbe dovuto essere caratterizzato da comprensività ampia, di fatto, senza una collana specifica destinata a gusti non semplici, i libri meno commerciabili, uno dopo l’altro, in nome di quella redditività che doveva essere massima per ogni singolo prodotto, sono stati molto spesso evitati». «Se io fossi editore». Vittorio Sereni direttore letterario Mondadori, a cura di E. Esposito, A. Loreto, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 2013, p. 39.

[18] Il volume verrà pubblicato ne «I quaderni della Fenice», diretti da Raboni.

[19] Si cita da Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori (d’ora in poi, FAAM), Milano, (in seguito omesso) Archivio storico Arnoldo Mondadori Editore (successivamente, AME), Direzione letteraria – Vittorio Sereni, b. 24, fasc. 8 (Silvio Ramat).

[20] Ibidem.

[21] Basterà citare due passi dei giudizi di Sereni, trascritti in apparato, per giustificare la presenza dei romanzi Mascioni: «sostanzialmente poetico senza essere poesia in prosa, si può – non dico si deve – leggere come un libro di poesia, nel senso che si può anche leggerlo a intermittenze»; «Mascioni è sostanzialmente un poeta […] che però affronta l’impegno narrativo: vorrei dire che avverte il bisogno di espandersi narrativamente al di là dei versi».

[22] Y. Bernasconi, Il fondo Grytzko Mascioni dell’Archivio svizzero di letteratura, in Quaderni grigionitaliani, 2010, n. 3, p. 267.

[23] I giudizi di Fortini sono un punto di riferimento fondamentale per il lavoro di Vittorio Sereni. Capita spesso che Sereni, in disaccordo con Fortini, si trovi nella posizione di dover stemperare i pareri dell’amico. La sezione dell’apparato che riguarda Alberico Sala mostra un esempio di questa circostanza: Sereni giudica «eccessivo e moralistico» il parere, estremamente negativo, che Fortini ha espresso sulle poesie inviate da Sala alla Mondadori.

[24] Per il giudizio relativo al Tappeto volante di Francesco Leonetti si veda l’apparato.

[25] Bisogna sottolineare che la sperimentazione e la ricerca poetica non sono criteri che valgono a priori una pubblicazione; Sereni non si ritiene necessariamente a favore di una ricerca prossima al «generale ambito che io chiamo della brevettistica, per cui lo svolgersi della poesia è assimilabile al progresso tecnologico (ognuno propone il proprio brevetto nell’illusione di superare il precedente o di costruirne un’alternativa da illustrare al pubblico pubblicizzandolo: al critico non resta che registrare. Ma al lettore che cosa rimane?)». Nella stessa sede, sostiene che «siamo ormai al parossismo di tale tendenza e d’altra parte non ho idea sul chi sul come e sul che cosa, tra i giovani, la contrasterà validamente» e riflette sulla problematicità della propria posizione nei confronti dei giovani poeti, chiedendosi se «sarà solo una questione generazionale per chi, come me, ha già dovuto ingoiare – e non so quanto assimilare – il transito di almeno una generazione più giovane?». La questione sui poeti di ultima generazione è contenuta nel fascicolo collocato in FAAM, AME, Direzione letteraria – Vittorio Sereni, b. 38, fasc. 20 (Cesare Viviani).

[26] V. Sereni, Occasioni di lettura. Le relazioni editoriali inedite (1948-1958), a cura di F. D’Alessandro, Torino, Nino Aragno Editore, 2011, p. 160.

[27] Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori (d’ora in poi FAAM), Milano, AME, Direzione letteraria – Vittorio Sereni, b. 33, fasc. 1 (Elio Filippo Accrocca).

[28] FAAM, AME, Direzione letteraria – Vittorio Sereni, b. 34, fasc. 14 (Maurizio Cucchi).

[29] Fiaba è un titolo provvisorio per il racconto La corsa dei mantelli, pubblicato da Guanda nel 1979.

[30] FAAM, AME, Direzione letteraria – Vittorio Sereni, b. 34, fasc. 16 (Milo De Angelis)

[31] Ibidem.

[32] Poesie che confluiranno nella raccolta Stanza occidentale, pubblicata dai tipi de La Pilotta nel 1985, con il risvolto di copertina curato da Bertolucci.

[33] FAAM, AME, Direzione letteraria – Vittorio Sereni, b. 34, fasc. 21 (Bruna Dell’Agnese).

[34] Il giudizio è edito nel volume Occasioni di lettura. Le relazioni editoriali inedite (1948-1958), a cura di Francesca D’Alessandro, Torino, Nino Aragno Editore, 2011.

[35] FAAM, AME, Segreteria editoriale autori italiani (a seguire, SEAI), fasc. Francesco Leonetti.

[36] Consulente esterno della Mondadori soprattutto negli anni Sessanta.

[37] FAAM, AME, SEAI, fasc. Francesco Leonetti.

[38] Ibidem.

[39] Ibidem.

[40] Ibidem.

[41] Si riferisce a Niccolò Gallo.

[42] FAAM, AME, SEAI, fasc. Francesco Leonetti.

[43] Ibidem.

[44] Ibidem.

[45] Ibidem.

[46] Ibidem.

[47] Dopo l’esordio nel 1953 con la raccolta Vento a primavera, pubblicata presso l’editore Intelisano di Milano, Mascioni ha continuato a pubblicare versi per vent’anni, finché, nel 1972, non ha proposto un romanzo alla Mondadori.

[48] Titolo provvisorio del romanzo che verrà poi pubblicato come Carta d’autunno.

[49] FAAM, AME, Direzione letteraria – Vittorio Sereni, b. 36, fasc. 13 (Grytzko Mascioni).

[50] FAAM, AME, Direzione letteraria – Vittorio Sereni, b. 19, fasc. 12 (Grytzko Mascioni).

[51] Ibidem.

[52] Test è uno dei romanzi inediti di Mascioni, conservato nel Fondo Grytzko Mascioni dell’Archivio svizzero di letteratura, sotto forma di dattiloscritto quasi completo del 1976-1978, con diverse versioni e pagine manoscritte.

[53] FAAM, AME, Direzione letteraria – Vittorio Sereni, b. 36, fasc. 13 (Grytzko Mascioni).

[54] Ibidem.

[55] Ibidem.

[56] Si tratta di una variante di titolo del romanzo Test.

[57] FAAM, AME, Direzione letteraria – Vittorio Sereni, b. 36, fasc. 13 (Grytzko Mascioni).

[58] Sereni annota a piè di pagina: «aggiungo: di dolcezza o di ferocia».

[59] FAAM, AME, Direzione letteraria – Vittorio Sereni, b. 19, fasc. 23 (Daria Menicanti).

[60] FAAM, AME, SEAI, fasc. Elio Pagliarani.

[61] Ibidem.

[62] Sotto a «Il Delta» è stato barrato il titolo «Le Triadi». Sono tutti titoli provvisori di quello che sarà il «Tornasole».

[63] FAAM, AME, SEAI, fasc. Elio Pagliarani.

[64] Ibidem.

[65] Ibidem.

[66] Ibidem.

[67] Ibidem.

[68] Ibidem.

[69] Ibidem.

[70] Ibidem.

[71] Ibidem.

[72] Con «antologia» Pagliarani indica il Manuale di poesia sperimentale, curato insieme a Guido Guglielmi e edito presso Mondadori nel 1966.

[73] A una lettera della Segreteria Editoriale che gli chiedeva informazioni, su sollecito dell’ultima nota interna inviata da Sereni a Forti.

[74] Sigla per la collana «Nuova collezione di letteratura».

[75] FAAM, AME, SEAI, fasc. Elio Pagliarani.

[76] FAAM, AME, Direzione letteraria – Vittorio Sereni, b. 21 fasc. 11 (Elio Pagliarani).

[77] Consulente per il Saggiatore, assunse poi la direzione degli «Oscar».

[78] Pubblicata poi presso Marsilio nel 1995.

[79] FAAM, AME, Direzione letteraria – Vittorio Sereni, b. 21 fasc. 11 (Elio Pagliarani).

[80] Ibidem.

[81] FAAM, AME, Direzione letteraria – Vittorio Sereni, b. 37 fasc. 6 (Alessandro Peregalli).

[82] FAAM, AME, SEAI, fasc. Alberico Sala.

[83] Ibidem.

[84] In effetti, nel 1968, ad esclusione di una raccolta del vicedirettore letterario Crovi, nel «Tornasole» vengono pubblicate solo raccolte di esordienti: Tiziano Rossi, Folco Portinari e Basilio Reale.

[Oscar Niemeyer, Palazzo Mondadori, Segrate, Milano]

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