di Claudio Giunta
È stupefacente quanto siano importanti per quasi tutti noi le canzoni e quanto poco siano studiate, quanto poco se ne parli seriamente, la serietà con cui si parla non solo dei romanzi e delle poesie ma ormai anche dei film. Questa asimmetria è dovuta, mi pare, principalmente a due ragioni. La prima è che in Italia – molto meno negli Stati Uniti – le canzoni sono ancora percepite come oggetti culturalmente subalterni, indegni dell’attenzione degli studiosi; la seconda è che parlare con competenza di canzoni non è facile, perché occorre intendersene un po’ sia delle parole sia della musica, e di parole e musica che spesso sono molto diverse da quelle che s’imparano ad apprezzare a scuola o al conservatorio.
Quanto al primo problema, è ben vero che di canzoni indegne ce ne sono tante. Ma da un lato: forse che tutti i romanzi, tutte le poesie, tutti i film sono memorabili? No, certo; ma è come se la canzone fosse per statuto un genere meno eletto, come se, a causa del ruolo preponderante che vi svolge la musica, la gamma delle sue possibilità espressive fosse costitutivamente più ristretta. Dall’altro: non è forse vero che sono spesso proprio le canzoni meno riuscite dal punto di vista estetico quelle che hanno maggiore risonanza, quelle che incidono più in profondità nel costume? E così come si studia con rigore la Trivialliteratur per ciò che essa dice sullo spirito dei tempi, non è opportuno fare lo stesso esercizio sulle tante canzoni triviali che ci riempiono (felicemente) la vita?
Quanto al secondo problema, cioè il necessario incrocio di competenze letterarie e musicali, ecco un libro che indica la strada come meglio non si potrebbe. Luca Zuliani aveva già pubblicato nel 2009 un volume importante dal titolo Poesia e versi per musica. L’evoluzione dei metri italiani (Il Mulino), in cui si occupava soprattutto del Medioevo (Dante, Petrarca) e dell’età moderna (Chiabrera); sui contemporanei, solo qualche pagina, ma molto intelligente, nell’introduzione al volume. In L’italiano delle canzoni (Carocci, 2018) Zuliani riprende quegli spunti e li usa per costruire non un sistema, perché la materia non si presta, ma un eccellente lavoro di sintesi sul rapporto tra parole e musica nelle canzoni italiane degli ultimi decenni.
Ora, per apprezzare a dovere questa sintesi conviene avere presente, almeno a grandi linee, l’evoluzione storica del genere. La canzone moderna ha, si può dire, mezzo secolo di vita: vale a dire che sono ancora su questa terra alcuni dei pionieri che l’hanno creata, come Bob Dylan e Paul McCartney. Dire ‘creazione’ non è dire troppo. Che cosa sono state infatti le canzoni fino alla fine degli anni Cinquanta? Che cosa era possibile dire, che cos’è stato detto nelle canzoni fino a quella data? Da una parte, esse conservavano un legame autentico, tanto nel linguaggio quanto nell’esecuzione, con la tradizione popolare della romanza e del belcanto; dall’altra, parlavano (per lo più) d’amore in termini talmente elementari e generici da rendere vana qualsiasi speculazione intorno allo stile personale dell’interprete o, men che meno, alla sua personale visione del mondo. Naturalmente, questo filone ‘ingenuo’ della canzone pop non si è affatto esaurito: al contrario, occupa ancora grandissima parte dei palinsesti radiofonici, spopola ancora nelle playlist; ma a cominciare dagli anni Sessanta è diventato possibile adoperare la canzone per dire cose autenticamente – e non più solo retoricamente – personali sul proprio conto. Quando la Rock and Roll Hall of Fame elogia Leonard Cohen per avere, in mezzo secolo di carriera, «raised the songwriting bar», è a questa iniezione di verità e profondità che intende rendere omaggio; e qualcosa di simile fa l’Accademia di Svezia quando assegna a Bob Dylan il premio Nobel per la letteratura. Del resto, non è una rivoluzione che i rivoluzionari abbiano compiuto in maniera inconsapevole, al contrario. Nella celebre intervista del 1971 a Jann Wenner di «Rolling Stone», John Lennon riesce a situare questa transizione dall’ingenuo – diciamo – al sentimentale all’interno della sua stessa carriera di songwriter, alla metà degli anni Sessanta: «Ho cominciato a pensare alle mie emozioni, non so esattamente se la cosa è iniziata con I’m a Loser o con Hide Your Love Away, o giù di lì. Invece di proiettarmi in una situazione ho cercato di esprimere quello che provavo su me stesso […]. Credo sia stato Dylan ad aiutarmi a capire, non con una discussione o altro, ma solo ascoltando il suo lavoro [… Prima] non pensavo che le canzoni, le loro parole o altro, avessero alcuna profondità. Erano solo uno scherzo. Poi ho cominciato a essere me stesso nelle canzoni, scrivendole non oggettivamente ma soggettivamente».
Dal contenuto, questa soggettività si è trasmessa alla forma, cioè alla costruzione del discorso, alla figuralità, alla forma dell’espressione, ed ecco che queste emozioni autenticamente personali hanno anche cominciato a poter essere espresse in un linguaggio non meno idiosincratico di quello delle liriche post-simboliste; ecco che anche i testi delle canzoni hanno potuto diventare seducentemente opachi, e aperti a quella integrazione di senso da parte dell’ascoltatore che è lo stigma della ‘difficile’ poesia moderna. Basta vedere la ridda di interpretazioni e misinterpretazioni che si affollano in siti di ‘ermeneutica delle canzoni’ come songmeanings.com.
Ebbene, come si pone, in questo quadro così mosso, il rapporto tra le parole e la musica? Com’è noto, il problema più assillante per il paroliere moderno è trovare delle parole tronche da usare come rimanti in una lingua che è molto più ricca di parole piane: «Scrivere canzoni in italiano – ha osservato De André – è difficile tecnicamente, perché le esigenze della metrica ti rendono necessaria una gran quantità di parole tronche, che in italiano non ci sono, o comunque non abbondano, a questo punto ti vedi costretto, per garantire la qualità estetica del verso, a cambiare addirittura il senso di quello che vuoi dire». I parolieri antichi, prima della svolta di metà Novecento, non si davano troppa pena, e infarcivano le loro canzoni di cuore di amor. Oggi licenze simili sono possibili solo in testi giocosi-parodici («di noi ti puoi fidar», nel Gatto e la volpe di Bennato) oppure come «consapevoli arcaismi» (Zuliani), in autori come Conte o Capossela. E si preferisce invece aggirare il problema adoperando parole tronche straniere, anche a costo di torturare il testo (foulard, gay, es in rima nella meraviglia che è Stella stai di Tozzi-Bigazzi con tanti saluti al senso), o accentando monosillabi su cui generalmente non cade l’accento («guardavo il mondo che / girava intorno a me»), o riaccentando come tronche le sdrucciole (883: «Lasciati toccare, fa sentire cosa c’è, / lasciati slacciare, sei una libídiné»).
Questo allontanamento, spesso artificioso, dal registro del cuor e dell’amor, si accompagna a innovazioni linguistiche magari meno vistose, ma sostanziali: si diradano le voci di tradizione letteraria aulica (s’intende: salvo ritornare in certi cantautori come allusione erudita), le anastrofi, «le espressioni troppo enfatiche e convenzionali» (che tuttavia lasciano traccia, e più d’una traccia, ai piani bassi della produzione canzonettistica, perché per ogni canzone originale e ironica che arriva a Sanremo ce ne sono almeno cinque fabbricate con materiali di risulta, e insomma idealmente non contemporanee). Sino a quella sorta di divorzio tra parole e musica, o meglio di rinuncia alla melodicità, che Zuliani illustra nel paragrafo intitolato Quando vince la lingua: «un accompagnamento musicale elementare tiene il tempo e i versi sono cantati in una specie di recitativo che può essere urlato o sussurrato, ma solo raramente mostra elementi melodici marcati, anche se adatta il suo ritmo a quello degli accenti di battuta». Insomma, quanto all’esecuzione una sorta di salmodia (si pensa a certi pezzi di Vasco Brondi o di Moltheni); quanto alla struttura verbale, un testo che ha la libertà di sviluppo, quindi la complessità, della poesia non musicata, la poesia dei poeti. Col che si apre l’altra questione, del rapporto tra le canzoni contemporanee e la poesia: questione che Zuliani sfiora appena, ma con osservazioni molto precise – in genere in queste cose si è un po’ impressionistici – che chi è interessato all’argomento farà bene a leggere.
[Questo articolo è già uscito sul «Sole 24 Ore»].
” 24 marzo 1984 – Amava Brahms e faceva attenzione alle parole nelle canzoni di Lucio Battisti. Io no. “.
“Che cosa sono state infatti le canzoni fino alla fine degli anni Cinquanta? Che cosa era possibile dire, che cos’è stato detto nelle canzoni fino a quella data? Da una parte, esse conservavano un legame autentico, tanto nel linguaggio quanto nell’esecuzione, con la tradizione popolare della romanza e del belcanto; dall’altra, parlavano (per lo più) d’amore in termini talmente elementari e generici da rendere vana qualsiasi speculazione intorno allo stile personale dell’interprete o, men che meno, alla sua personale visione del mondo”. Questo vale forse solo per le canzoni dei confini socio-spazio-temporali oltre cui lo sguardo dell’estensore dell’articolo non si spingono. Giusto tre controesempi: a) si vedano i repertori di canti di lavoro, politici e di protesta, vero tesoro della nostra tradizione (e di molte altre naturalmente); b) prima della fine degli anni Cinquanta in Francia c’è già qualcuno come Brassens, piena figura di “autore” prima di Dylan & c.; c) in Brasile, sempre a quell’altezza temporale, il poeta Vinicius de Moraes e il compositore Tom Jobim producono canzoni che, se non fosse per il nostro strabismo anglo-americo-centrico, a livello di riconoscimenti internazionali non sarebbero da meno di quelle di Dylan (e di De André in Italia). Per essere chiari: non “invece della canzone di Dylan, De André, ecc.” , ma “insieme” ad essa.
Nello stesso anno in cui Domenico Modugno presenta al Festivàl della canzone italiana, presso il casinò di Sanremo, il brano “Volare”, Nilla Pizzi si presenta nella medesima competizione con il brano “L’Edera”, composto da Saverio Seracini e Vincenzo d’Acquisto.
Riporto di seguito parte del testo:
«Lo so che forse piangerò / ma t’amerò. / Son qui tra le tue braccia ancor / avvinta come l’edera / son qui e respiro il tuo respiro / son l’edera legata al tuo cuor / sono folle di te e questa gioventù / in un supremo anèlito / voglio offrirti con l’anima / senza nulla mai chiedere. Così mi sentirai così / avvinta come l’edera / perché in ogni mio respiro / tu senta palpitare il mio cuor / finché luce d’amor / sul mondo splenderà / finché m’è dato vivere / a te mi legherò, a te consacrerò la vita. / Son l’edera per te / son l’edera legata a te».
Dell’uso degli iperbati in questo brano (e in tutta la canzone italiana degli anni ’50), così come del lessico para-poetico, che trova nei cantautori un forte antagonismo proprio a partire dal 1958, Umberto Fiori ne scrive molto bene in un testo uscito per Unicopli qualche anno fa, intitolato “Scrivere con la voce”, contenente saggi che all’interno di un perimetro di studi sulla canzone italiana (che non siano – vogliailcielo – cultural studies schizoidi) dovrebbero essere fondamentali; quantomeno non contiene il sussiego che Zuliani dimostra nei suoi percorsi analitici.
“En 1958, l’année avant sa mort, Boris Vian avait écrit ces paroles, pour une chanson qu’Henri Salvador enregistrera plus tard:
« Elle fait donner sur le pavé / Un air comme ça / Dou da da dou dah / Dou da da dou daiah… – Il vint à passer en sifflotant / Un air comme ça / (sifflé…) – Ils se sont r’gardés très étonnés / Elle a d’mandé : / “Comment ça s’fait-y que vous la sachiez, / J’suis épatée…” – Il a répondu : / (parlé) “Ben, euh, je, j’la connais pas”, / (chanté) “C’est v’nu comme ça…”/ Dou da da dou dah / Dou da dou da dou dah, dou da, dou dah… »
L’air est simple – un air comme ça, en effet. Un air qu’on sifflote en flanant dans les rues, un air qui vient comme ça, sans qu’on y pense, sans qu’on le veuille, voire sans même qu’on le connaisse ou reconnaisse. Un air, donc, qui pourrait avoir toutes les qualités – ou toute l’absence de qualités – pour faire un tube.
Ce mot – un tube – c’est d’ailleurs Boris Vian qui, dit-on, en a inventé l’usage argotique pour désigner un succès dans l’industrie musicale. ll l’emploie à deux reprises son « court traité » sur la chanson . Et il en avait fait auparavant le titre d’une autre chanson, écrite pour Henri Salvador en 1957, qui évoque les ingrédients nécessaires, ou plutôt suffisants, au succès […] En parlant d’elle-même, comme le font d’innombrables hits, cette chanson singulière qu’est Le tube de Boris Vian nous parle aussi des marchandises musicales en général : de leur facture, de leur fabrique, de leur production. Un air comme ça, en revanche, va plus loin, en nous chantant, à sa manière, ce que Marx, dans un passage célèbre du Capital, appelait le « secret » de la marchandise . Ou encore son « caractère fétiche », son « caractère mystique ».”
Peter Szendy, Tubes. La philosophie dans le juke-box. Paris, Les Éditions de Minuit. 2008 pp. 17-19