di Fabio Pusterla

[È uscito da qualche settimana Una luce che non si spegne. Luoghi, maestri e compagni di vita (Edizioni Casagrande), un libro in cui Fabio Pusterla raccoglie una ventina di saggi e di scritti sui suoi maestri (tra gli altri Giorgio e Giovanni Orelli, Maria Corti, Vittorio Sereni, Fernando Bandini). Pubblichiamo uno di questi pezzi, dedicato a Sereni].

 

Sempre difficile, e a rischio di retorica, rispondere a domande come questa: cosa rimane, oggi, a un secolo dalla sua nascita, di Vittorio Sereni? Che ne è di lui? La prima, più ovvia ma anche più importante, risposta non è difficile: rimane moltissimo, e anzi il verbo rimane pare subito fuori posto, con quel suo mesto sorriso di rammemorazione, come se si parlasse di un passato quasi scomparso.

 

 No, la poesia di Sereni non rimane nel presente: cresce invece, come lievitando in silenzio dentro la madia delle letture contemporanee, delle riflessioni contemporanee. Non parlo tanto o soltanto delle letture critiche, che pure non mancano; mi riferisco piuttosto all’impressione forte, e direi indelebile, che la poesia di Sereni, e forse soprattutto oggi del Sereni che dagli Strumenti umani approda poi a Stella variabile, esercita sui nuovi, giovani lettori. È un fatto che mi capita non di rado di poter verificare a scuola, tanto al Liceo quanto all’università: non è detto che gli studenti conoscano già il nome di Vittorio Sereni; ma basta proporre la lettura delle sue poesie, e quel nome diventa subito memorabile e centrale. Anzi, ho talvolta l’impressione che proprio l’accresciuta distanza odierna dal fitto e talvolta opprimente reticolo intellettuale e culturale entro il quale la poesia di Sereni è cresciuta nel secondo dopoguerra, consenta di vedere meglio, di cogliere maggiormente la grandezza dei suoi testi, che letti così (dico letti da lettori nuovi, in larga parte ignari di quel mondo e del suo rumore di fondo) splendono subito come aghi di tante piccole bussole, in grado di orientare non solo la ricognizione del passato, ma anche il faticoso percorso del presente.

 

Un’altra sensazione, che avverto fortemente ad ogni rilettura, è che per ragioni non ancora facilissime da capire fino in fondo questa poesia non abbia affatto esaurito la sua carica di mistero e di vaghezza; leggere Sereni è sempre, almeno per me, un’operazione leggermente inquietante, leggermente destabilizzante; e ci sono, anche, regioni della sua opera non affatto pacificate, non affatto chiarite, non affatto prive di un fascino che sa unire la seduzione e la vertigine, una sorta di insinuante erotismo annodato a un annuncio di catastrofe, della cui concretezza oggi meno che mai ci è dato dubitare. Non è difficile vedere come epicentro di questa poesia sfuggente e insieme radicata nella storia di noi tutti il poemetto Un posto di vacanza, con le sue armoniche di memoria e di enigma, con i suoi avvallamenti meditativi e i suoi picchi lirici estremi. Ma quel testo straordinario è lo snodo di vettori espressivi già presenti nell’opera precedente; c’è qualcosa che sobbolle costantemente sotto la superficie linguistica e stilistica di Sereni, un’angosciata precarietà, una bellezza minacciata e mai del tutto vittoriosa, mai del tutto neppure sconfitta; qualcosa che già in Frontiera un orecchio sensibile poteva ascoltare, ma che prendere ad agitarsi con maggior impazienza nelle raccolte successive, dal Diario d’Algeria all’ultimo grande libro. È forse a partire da questa inquietudine, esistenziale, psichica, storica e politica, che Sereni accoglie nella sua scrittura le modalità più disparate e più innovative: voci che si annodano l’una all’altra, versi dialogati in cui non è sempre facile riconoscere i parlanti; monologhi interiori in cui l’io si scinde in due o più personaggi; mescolanze improvvise di alto e basso, lacerto di parlato e citazione coltissima; tendenza, infine (ma ben altro si potrebbe aggiungere) a un contemporaneo e contraddittorio moto di precisione e di dissoluzione: l’immagine tanto inseguita, e perfettamente indicata dalle parole si sfa un attimo dopo, come scomponendosi in elementi mobili che mutano il disegno e lo cancellano: proprio come accade in un testo celeberrimo degli Strumenti, quando l’acqua dei canali di Amsterdam e la memoria di Anna Franck appaiono nitidi e immediatamente scompaiono. Tutte cose, queste, da cui la poesia contemporanea non può prescindere, e su cui al contrario è da decenni chiamata ad una costante riflessione; cosa che spiega almeno in parte la centralità di Sereni.

 

E tuttavia questo primo, brevissimo bilancio positivo non può far dimenticare il molto che di Vittorio Sereni è andato, speriamo solo provvisoriamente, perduto. Lasciamo da parte, ovviamente, il dato biografico, personale, che riguarda solo i suoi familiari e gli amici che hanno avuto la fortuna di conoscere e frequentare quest’uomo eccezionale e certo non facile; di tutto questo rimane ciò che rimarrà di noi tutti, ed è inutile farne ora questione. Ma del Sereni prosatore, traduttore, critico, operatore culturale, insomma della vastissima opera culturale svolta da Vittorio Sereni negli immediati dintorni della poesia, a partire almeno dagli anni ’50, cioè dal momento in cui lascia l’insegnamento per entrare al servizio prima della Pirelli, poi della casa editrice Mondadori: cosa rimane di tutto ciò? A trent’anni dalla sua morte, quale contributo è stato offerto, per la ricostruzione di una complessità culturale che forse non ha altri termini di confronto, nel periodo di cui stiamo parlando, se non nella figura di Italo Calvino? Questa volta, la risposta non può essere particolarmente allegra. Per ragioni poco chiare e purtroppo poco nobili manca a tutt’oggi una vera ricostruzione editoriale del gigantesco lavoro svolto da Sereni; manca il secondo Meridiano, che avrebbe dovuto e potuto raccogliere i testi del prosatore, del critico e forse del traduttore; e manca almeno un volume analogo a quello realizzato per Calvino con il titolo I libri degli altri, cioè un ritratto a tutto campo del Sereni che sprona, consiglia, suggerisce, critica, insomma che si mette in ascolto e davvero al servizio della poesia italiana. Né mancherebbero i materiali necessari ad una simile ricostruzione: l’Archivio Sereni di Luino, e quello della Mondadori, contengono centinaia e centinaia di pagine, manoscritti, progetti, faldoni che attendono solo di essere studiati, ordinati e portati alla luce. Eppure, da tempo tutto tace, oppure il poco che si è fatto, non sempre secondo criteri filologicamente impeccabili, è disperso in pubblicazioni spaiate, insufficienti a darci il quadro d’assieme. Basterebbe leggere l’unico volume davvero importante, realizzato da Barbara Colli e da Giulia Raboni a partire dai fondi conservati a Luino, cioè Un tacito mistero. Il carteggio Vittorio Sereni-Alessandro Parronchi (1941-1982), per avere immediatamente un’idea lancinante di ciò che sarebbe possibile fare, e che purtroppo ancora non è stato fatto. Quando quel carteggio venne pubblicato, nel 2004, Sereni era scomparso da più di vent’anni; Parronchi sarebbe morto di lì a poco, e Giovanni Raboni, che scrisse la prefazione, ci avrebbe lasciati nello stesso anno. Eppure il dialogo tra queste figure oggi scomparse anima un panorama ricchissimo e affollato, eticamente ammirevole e culturalmente invidiabile, che dal 1941, anno in cui appaiono le prime corrispondenze tra Sereni e Parronchi, ci conduce, sia pure con inevitabili momenti di vuoto, sino ai primi anni ’80. Quale inimmaginabile tesoro devono contenere i materiali ancora inediti! E come è difficile capire l’apparente disattenzione degli studiosi, e insieme l’assenza di forza propulsiva da parte delle istituzioni e delle amministrazioni pubbliche. In un’altra epoca o in un altro paese ci si contenderebbe l’onore di poter accedere a simili preziosissimi archivi; qui, oggi, si preferisce fare come se non esistessero.

 

Eppure, da ben altro punto di vista, anche questa incuria, questo abbandono colpevole da parte di chi avrebbe il potere e il dovere di comportarsi diversamente, dicono qualcosa del poeta, entrano in circolo come un attrito sotterraneo, un brusio fastidioso che costituisce il fondale su cui danza la parola vera di Vittorio Sereni: parola che prova ad essere anche parola di gioia e di speranza, ma che non dimentica mai il peso, la fatica, la realtà quotidiana, il contrasto. Proprio Alessandro Parronchi, del resto, aveva perfettamente intuito qualcosa del genere, e in anni ben lontani, se nel settembre del 1948 poteva inviare all’amico una poesia in suo onore, che è un ritratto piuttosto notevole del poeta al lavoro:

 

Ho rispettato la quiete

del tuo studio, erano là

a fissarmi i tuoi occhi.

Li vedevo assorti nel lavoro

ardere dietro un apparente

velo di tristezza: dietro, era la gioia.

E i miei si chiusero. Non una

di queste cose mi seguì, nel breve

viaggio che feci verso le ombre,

non una, ma, ricordo, strane immagini

d’abbandono, e pensieri

importuni che venivano a riprendermi.

Dopo filtrò più luce, ed era ancora

Milano, la tua stanza,

l’Italia che mai più grande e leggera

è di quando risale

a Lecco per le valli e io mi dicevo:

si slargherà il suo cielo

su noi e sempre più lievi ombre saremo

al suo perpetuo accendersi.[1]

 

Ci sono, negli archivi e talora sui libri, fotografie in cui Vittorio Sereni appare in circostanze diciamo ufficiali: al tavolo di una conferenza o di un premio, in compagnia di altre figure, culturali o politiche, palesemente a loro agio. Lui, in quelle foto, sembra sempre fuori posto: una ce n’è in particolare in cui, tra un oratore e un politico, sembra quasi volersi accasciare sul tavolo, la testa pesante leggermente china, e le mani grandi poggiate davanti a sé, quasi per evitare il crollo. Chi scrive, per ragioni anagrafiche, non ha potuto incontrare Sereni se non una sola volta, più che fugacemente, a Pavia, in occasione di una lettura presso l’università fortemente voluta e introdotta da Maria Antonietta Grignani; ma la memoria che resta di quell’incontro è proprio, fisicamente, non discorde rispetto alla fotografia di cui si accennava; e in questo impaccio, in questo fastidio, in questa meravigliosa attitudine alla marginalità, è difficile non avvertire qualcosa di profondamente fraterno, come un insegnamento affettuoso e involontario, di cui probabilmente Sereni declinerebbe persino la responsabilità. Sarà per questo che recentemente, proprio a Luino, la vista di quella fotografia, unitamente a qualche altra esplorazione e vicenda luinese che non è qui necessario raccontare, ha smosso qualcosa, ispirando una breve serie di tentativi poetici intitolati Settimana dell’ombra. Sulle tracce di Vittorio Sereni. Eccone un movimento, speriamo non troppo impresentabile, a mo’ di conclusione:

 

Ruglia la Tresa in fondo alle sue gole

minime e già bastevoli al disastro: strettoie di roccia

friabile, anfratti,

e poi, proprio in fondo, alta, la chiusa.

C’è come un ruga nell’aria,

oggi più avanti il lago sembra mare

irritato, un’aspra voce d’aprile

che sgrana vecchie storie, disonori,

ombre di gente in transito, pastrani.

Ci dicono che qui veniva spesso,

appunto qui, sulla diga dei suicidi, a guardare.

Dopo, dentro una foto, lo vediamo stretto al centro

da qualche antico o nuovo comiziante,

quasi nell’atto di sdraiarsi sul tavolo,

come sempre come sempre fuori posto,

meravigliosamente desolato

testa pesante e mani molto larghe

sguardo alle luci basse di vertigine.

 

[1] In Un tacito mistero. Il carteggio Vittorio Sereni-Alessandro Parronchi (1941-1982), a cura di Barbara Colli e Giulia Raboni, prefazione di Giovanni Raboni, Feltrinelli, Milano, 2004.

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