di Gilda Policastro
[Sono ricominciati in questi giorni corsi della scuola di scrittura Molly Bloom, che ha sede a Roma e a Milano. Gilda Policastro coordina i corsi di poesia]
Che cos’è la poesia. Una domanda essenzialista, cui non si può rispondere senza tentennamenti, parzialità, imbarazzo. Soprattutto perché il poetico è ormai convocato e applicato a una serie di manifestazioni molto lontane e ben distinte dalla testualità: un gesto atletico o un paesaggio, nel discorso comune, vengono definiti poetici, mentre la poesia come genere perde quota a vantaggio di espressioni di mera sensibilità propriocentrica, destinate a durare lo spazio di un post su Instagram. In ragione di questa rapida e inevitabile premessa, non stupisce trovare all’interno di un libro di Julien Gracq appena tradotto per L’Orma, ma scritto a metà degli anni Settanta, un vero e proprio trattatello di composizione poetica.
Di fatto il libro, intitolato Acque strette, descrive, anzi, evoca una passeggiata lungo l’Èvre, in una «giornata fuori dai giorni», vissuta o meglio rivissuta nell’immaginazione, con una serie di divagazioni letterarie ispirate dal paesaggio montano, impervio e aspro in più punti. Ma tra una descrizione e l’altra di questo percorso, noto all’autore che lo ha già compiuto diverse volte e che può perciò descriverlo in presa diretta pur facendo appello alla memoria visiva e cartografica (tanto che l’editore acutamente sceglie di posporre una mappa disegnata a questo itinerario mentale), ebbene, durante l’evocazione arrivano, a sorpresa, due paginette teoriche in cui il senso dell’operazione si chiarisce come poetico in due direzioni: rispetto al contenuto (che non è il racconto di un accadimento ma la restituzione, se mai, di accadimenti interiori) e a quelle che potremmo definire proustianamente “intermittenze” («la resurrezione di un soppresso momento del passato grazie a un oggetto che funge da intermediario»). Proust che è un modello inevitabile di questo tipo di letteratura intimista e allo stesso tempo descrittiva, viene espressamente convocato, nel testo, per ribadirci una cosa essenziale sulla scrittura: la discronia tra il tempo in cui essa si produce e il tempo effettivo della percezione.
La poesia, in particolare, non è nel gesto, nel momento, ma un minuto dopo. E la poesia è sempre evocativa, perché nell’atto di riferirci di un’impressione o di un’illuminazione, ha già fatalmente superato, a livello temporale, il suo contenuto. Questa idea, certamente non nuova, può consegnare al nostro presente, al di là del valore che ha nel libro di Gracq, un’indicazione molto importante sulla poesia e l’equivoco intimista o soggettivo (in un senso spesso deteriore) che l’accompagna nel senso comune: la poesia è sì l’espressione di un io che ci racconta un’impressione, intima, personale, e non alla maniera di un romanzo o di un racconto, ma in uno spazio solitamente breve e limitato, però il racconto o resoconto che definiamo poetico è tanto più fecondo e stimola l’immaginazione (e perciò diventa socialmente condivisibile e partecipabile) quanto meglio affonda le radici in quella incompossibilità tra l’immagine e la sua restituzione, ovvero nel «conflitto – insanabile almeno fintanto che il mondo verrà percepito e inteso come un dato obiettivo» tra l’io e il mondo. Con due conseguenze importanti: l’assunzione di un principio in partenza conflittuale e non pacificato rispetto alla realtà da rappresentare, in secondo luogo la rinuncia alla pretesa di una propria unicità percettiva, da restituire nella sua immediatezza. Questo in realtà le pagine di Gracq non lo dicono, ma lo possiamo dedurre con le consapevolezze dell’oggi, quanto più le caliamo in un contesto di percezione indiretta e costantemente schermata degli eventi.
Se Gracq, magari anche in contrapposizione agli strutturalisti, diffidava ancora delle teorie o delle applicazioni pratiche alla pagina di una concezione troppo cerebrale o “intellettuale”, la sua idea emotiva e introflessa ha sì il pregio di svelare, della poesia, l’aspetto misterioso e intraducibile, presentando, allo stesso tempo, il rischio di autorizzare o incoraggiare la confusione tra intimismo e poesia e il primato della sensibilità autistica sulla ricodifica sociale dell’emozione. Non era poi l’intento del suo racconto, che va, letteralmente, a spasso per tutt’altri orizzonti e visioni, ma è pure l’elemento, per i non appassionati di natura e passeggiate come la sottoscritta, di maggior interesse del libro, e quello che contro ogni aspettativa meglio risponde a un’idea di poetico anche molto volgare (nel senso etimologico): in mezzo ai boschi, ai sentieri ripidi, alle apparizioni impreviste, c’è anche questa: l’emozione intellettuale di comprendere qualcosa che ci riporti a un’altra parte di noi, a un altro momento della nostra esperienza, e che sia però condivisibile attraverso la parola. Che è quello che Acque strette alla fine ci consegna come monito, nel momento in cui con una sorta di colpo di scena finale, veniamo a sapere che (forse) quella passeggiata non avverrà mai più. Un inganno, o un avvertimento: la scrittura è un’illusione, ma resta pur solido l’ancoraggio alla parola, cioè il linguaggio. E allora non avevano tutti i torti, i vituperati strutturalisti, col senno di poi. Col senno del giorno dopo la passeggiata. E della poesia.
[Immagine: Foto di Axel Hütte].
Quand’è che terrete dei corsi di poesia “in mezzo ai boschi, ai sentieri ripidi, alle apparizioni impreviste”?
Che s’addà fà pe campà…
“ Senza data [1975] – l’ispirazione non sia troppa / inspira profondamente alla fine / del rigo // considera i tempi ma riservati / una considerazione giusta di te / prendi tempo // a nostro giudizio / c’è una grande confusione / sotto il cielo. “.
La poesia è una manciata di parole buttate su un foglio e finite per caso al posto giusto