di Rino Genovese
[Dal 18 al 27 aprile LPLC sospende la sua programmazione ordinaria. Per non lasciare soli i nostri lettori, abbiamo deciso di riproporre alcuni testi e interventi apparsi all’inizio del 2012, quando i visitatori del nostro sito erano circa un quinto o un sesto di quelli che abbiamo adesso. È probabile che molti dei nostri lettori attuali non conoscano questi post. L’articolo di Rino Genovese è uscito il 16 febbraio 2012].
Nel 2011 un ex “nuovo filosofo” francese, di cui è superfluo ricordare il nome, effettuò un’azione di lobbying presso il più alto potere politico del suo paese per perorare la causa dell’intervento militare occidentale nella Libia sconvolta dalla guerra civile. In un libro di oltre seicento pagine sulla vicenda, pubblicato a tambur battente, l’ex “nuovo filosofo” dà l’impressione – verità o millanteria? – che senza la sua mediazione, senza i rapporti diretti da lui stabiliti tra l’organo dell’opposizione libica, il Consiglio nazionale di transizione (Cnt), e il presidente della repubblica francese, la guerra in Libia non ci sarebbe stata.
Com’è noto, la questione sollevata inizialmente era quella di una dichiarazione da parte dell’Onu di una no fly zone per la difesa della città di Bengasi, minacciata dalla forza aerea oltre che dai carri armati di Gheddafi. L’idea di fondo, per quanto neutralista o utopica possa sembrare, sarebbe stata di porre i contendenti libici su un piano di relativa parità nell’uso degli strumenti bellici, così da favorire un “cessate il fuoco” e avviare dei negoziati che mettessero fine alla guerra civile. Ma il presidente francese (tra parentesi giù nei sondaggi e alla ricerca di consensi), ottenuta la risoluzione dell’Onu, si diede immediatamente a scavalcarla con bombardamenti ad ampio raggio, trascinando con sé prima il Regno Unito e poi la Nato. Quello che sarebbe dovuto essere un uso della forza limitato, finalizzato alla ricerca di un’intesa tra le parti, mutò in breve nella solita guerra occidentale guerreggiata dall’alto, nel prosieguo anche con assistenti militari a terra, in appoggio agli sbrindellati ribelli libici che, dopo mesi di alterne vicende, arrivarono a sbarazzarsi di Gheddafi linciandolo.
In tutto questo, come si vede, nulla che possa essere avvicinato all’intervento di un Lord Byron in Grecia o a quello di Malraux in Spagna, e nemmeno alle imprese dannunziane, per citare alcuni precedenti storici d’impegno “romantico” d’intellettuali combattenti sul campo. Si tratta piuttosto di una guerra di militari e tecnici delle potenze occidentali in alleanza con alcune tribù locali contro altre tribù: a quanto pare il succo di ciò che negli ultimi decenni – dalla Somalia all’Afghanistan, all’Iraq, passando per Belgrado –, si è convenuto di chiamare ingerenza umanitaria, ma che sarebbe meglio definire, come suggerisce il giornalista Nicolas Truong (Le Monde del 25 novembre 2011), “l’imposizione con la forza dell’imperiosità universalista”. Con il probabile effetto, aggiungo io, di spingere più verso il caos che verso un ordine giusto, più verso la successiva anarchia dei “signori della guerra” che verso uno scenario di pace.
Rony Brauman (si veda lo stesso numero di Le Monde appena citato), un medico di Medici senza Frontiere, buon conoscitore della realtà africana e critico delle guerre umanitarie, ha dichiarato: “Di fronte alla minaccia di uno schiacciamento del sollevamento di Bengasi, all’inizio ho avuto una reazione di stupore e d’angoscia: sì, bisognava contrastare una offensiva blindata di Gheddafi […]. In questo contesto, un intervento limitato alla protezione della città era giustificabile. Non ho tardato a mutare d’avviso accorgendomi che le minacce in questione facevano parte della propaganda, e non delle realtà osservabili”. Nessuno sarebbe stato capace, secondo Brauman, di mostrare i tanks che si dirigevano su Bengasi: e il fatto stesso che sia stato sufficiente un raid aereo per spezzare la presunta offensiva, con la distruzione di quattro carri, dimostrerebbe che non si sarebbe trattato di una colonna. Inoltre Amnesty e Human Rights Watch, avrebbero accertato che, all’inizio dell’intervento francese e occidentale nel marzo 2011, i morti sarebbero stati tra i duecento e i trecento (una cifra vicina a quella delle analoghe rivolte in Tunisia e in Egitto), e non i seimila di cui favoleggiava il Cnt libico. Anche i presunti attacchi aerei sui manifestanti a Tripoli sarebbero stati, per Brauman, un’invenzione dell’emittente Al-Jazira. Insomma è la percezione stessa della realtà che è posta in questione, chiamando in causa un’attribuzione di realtà di tipo propagandistico senz’altro fine se non di spingere all’intervento militare su larga scala.
Ciò che mi preme mettere in luce, non disponendo evidentemente dei mezzi per una verifica riguardo alla situazione libica dell’anno passato, è che il partito preso dell’ideologia della guerra umanitaria – il droit-de-l’hommisme, come talvolta lo si chiama in Francia – può benissimo infischiarsene di appurare i fatti: se la vita di un solo essere umano è in pericolo, questo non è già sufficiente per propugnare un’azione in sua difesa? Così non si dà mai un limite all’ingerenza militare, e neppure all’attività di lobbying in suo sostegno. Una politica intellettuale (al netto della vanità, e rammentando che comunque anche i dreyfusardi furono accusati di pavoneggiarsi) si identificherebbe in toto con quell’attività. D’altra parte si obietta però, e non senza ragione, che un pacifismo del tutto intransigente finirebbe con l’abbandonare le vittime ai loro carnefici. Quali dunque i criteri di un’ingerenza eticamente sostenibile?
La prima condizione è che la guerra, ogni guerra, sia considerata intrinsecamente ingiusta. Il fatto che sia stato necessario combattere alcune guerre, per esempio quella contro il nazifascismo, non cancella questo presupposto. Che si debba conquistare o difendere la propria libertà con una guerra, indica già che qualcosa non va da un punto di vista etico. E d’altronde l’etica non è tutto: da un certo momento in poi, comincia la politica che, rovesciando un famoso detto, è la guerra continuata con altri mezzi. Quando una possibilità puramente politica non c’è, ecco che la guerra riappare. Riappare tuttavia come guerra propria, per la propria liberazione, non come quella guerra che si fa, o si dice di fare, a favore di altri. Qui c’è un inganno: la guerra degli altri la si può combattere, se la si combatte, limitatamente, magari nella forma di una forza d’interposizione internazionale per arrivare alla pace o a una tregua tra i contendenti. È cioè un elemento rafforzante all’interno di un’iniziativa politica e diplomatica più vasta. Ogni intenzionalità bellica che si schieri con una delle forze in campo, e che distribuisca in anticipo i torti e le ragioni, può rientrare in un logica politica o geopolitica, ma se cerca una giustificazione etica finisce in una mistificazione pseudoetica. Anche perché, se l’obiettivo dichiarato è quello di proteggere le popolazioni civili, è impossibile decidere a priori che cosa sia meglio o peggio: meglio lasciare che si scannino tra loro oppure rischiare, con bombardamenti intensivi, gli “effetti collaterali” ancora più distruttivi e la probabile moltiplicazione del numero delle vittime?
La seconda condizione è che quella dei diritti umani sia considerata una prospettiva decisiva ma pur sempre limitata, in nessun modo un orizzonte onnicomprensivo. Passare per le armi in modo sommario un dittatore (e, a maggior ragione, esporne il cadavere penzoloni in una piazza) non rispetta i diritti umani del dittatore, ma è comprensibile all’interno di una dura lotta per la propria liberazione. Così il linciaggio di Gheddafi è accettabile se ci poniamo nell’ottica dei ribelli. Non lo è più, non lo è affatto, se assumiamo il punto di vista di un’ipotetica forza di pace tesa a promuovere un accordo tra le parti e a ripristinare una qualche forma di legalità. Altro esempio, altrettanto scottante: che cosa pensare delle mutilazioni sessuali femminili diffuse in ampie zone del continente africano (tra l’altro proprio in Egitto, uno dei paesi della cosiddetta primavera araba)? Sono inammissibili e muovono orrore in chi sta dalla parte dei diritti umani: ma ciò giustificherebbe un intervento armato se, poniamo, si venisse a sapere che in un dato villaggio si sta per compiere una mutilazione pseudorituale su un certo numero di bambine? Appare evidente che si dovrebbe puntare su un moto di rifiuto nei confronti di quelle pratiche “barbariche” che nasca nella stessa comunità, a cominciare dalle sue donne. La questione del rispetto dei diritti umani nel mondo non può essere sollevata e strumentalizzata a piacere, in modo intermittente, a seconda delle opportunità e delle situazioni: perché per sua natura è complessa e perfino scivolosa: non consente l’assunzione di atteggiamenti univoci, subordinandosi a un insieme di considerazioni e interessi di portata più ampia. Del resto, se si trattasse di un imperativo categorico kantiano, perché l’intervento in Libia sì e in Siria no?
Dalle due premesse o condizioni sopra enunciate, ne discende una terza, che vale in modo specifico per gli intellettuali e il loro impegno presunto o reale che sia. Questo non può che esplicarsi in una posizione critica, o meglio in un insieme di proposizioni critiche, nei confronti della propria forma di vita, del proprio mondo, del proprio potere politico. Non ha senso schierarsi per i diritti umani in generale, mentre per un intellettuale occidentale ne avrebbe uno promuovere una campagna per questi stessi diritti conculcati ai prigionieri di Guantanamo. Non si tratta di fare dell’antiamericanismo (avrei allo stesso titolo potuto citare la situazione dei migranti, o quella dei detenuti, nei paesi europei), ma di sapere che una critica a trecentosessanta gradi è ineffettuale, quando non è, come spesso è, una forma di arroganza nei confronti degli altri popoli e delle altre culture. La tensione universalistica va misurata sul particolare e sui particolari. Non ha alcuna valenza, è un flatus vocis, è pura chiacchiera schierarsi per la giustizia contro l’ingiustizia in generale, per la libertà contro l’illibertà in generale, e così via. Per fare questo non sono necessari grandi studi o riflessioni: chiunque può sventolare la bandiera ogni volta che gli pare. Un atteggiamento critico capace di adoperare argomenti è invece un atteggiamento logico-universale, in quanto si serve di princìpi e concetti, e pratico-particolare come momento in cui un’analisi generale si applica, in un preciso contesto, a una situazione determinata. Al di fuori di ciò, c’è l’aria fritta mediatica che può dare lustro a chi interviene (per esempio all’ex “nuovo filosofo” di cui sopra), ma non serve affatto a rilanciare la funzione, anche politica, dell’intellettuale. È un mettersi in posa citandone il gesto. E serve solo a sottolineare clownescamente quel sentimento più o meno drammatico della fine che ne segna dal principio l’avventura.
[Immagine: Desert Storm, videogioco (gm)].
Caro Rino Genovese,
condivido quasi pienamente questo tuo intervento. Ho però tre obiezioni sostanziose da farti:
1. perché viene fuori solo adesso che il latte è stato versato (crudamente: i morti sono stati fatti anche dall’Italia)?
2. perché parlare di nuora (l’ex “nuovo filosofo” francese) invece che di suocera (gli intellettuali di grido e non di grido italiani e non solo)?
3. perché fare questo discorso su LPLC, che si è mostrata del tutto sorda alla questione della guerra in Libia quando essa era ancora “calda”; e si mostrerà altrettanto sorda adesso sia su questa “vecchia questione” ormai archiviata sia sull’obbrobrio che stanno facendo alla Grecia quasi gli stessi che hanno messo in ginocchio la Libia?
Lo dico con amarezza e disgusto. Grazie comunque del tuo grido nel deserto. Alcuni lo sentono.
P.s.
Italia 1977-1993
Hanno portato le tempie
al colpo di martello
la vena all’ ago
la mente al niente.
Per le nostre vie
ancora rispondevano
a pugno su gli elmetti.
o imparavano nelle cantine
come il polso può resistere
allo scatto
dello sparo.
Compagni.
Non andate COSI.
Ma voi senza parlare
mi rispondete: «Non ricordi
quel ragazzo sfregiato
la sera dell’undici marzo 1971
che correva gridando
“Cercate di capire
questa sera ci ammazzano
cercate di
capire!”
La gente alle finestre
applaudiva la polizia
e urlava: “Ammazzateli tutti!”
Non ti ricordi?»
Si, mi ricordo.
( da«Composita solvantur», Einaudi , Torino 1994, pag. 43)
Trovo giusta la definizione, oggi, di “ideologia” relativa ai diritti umani. Ideologia, cioè, non nel becero senso negativo cui ci ha abituato il (becero) discorso della politica istituzionale, bensì come strumento del discorso e del fare politico. Questa ideologia dei diritti umani rinvia ad un preciso pensiero politico avente come epicentro l’ideologia e la cultura anglo-americana espressa anche dell’Onu, costruzione ideologica fondata sul riconoscimento del soggetto come individuo, essere separato, anziché come essere sociale, vale a dire come comunità. Mi pare questa la la differenza dirimente, soprattutto oggi
Per cui al posto delle oltre seicento pagine dell’ex e imbolsito novello filosofo, mi tengo strette le preziosissime 74 pagine dello Zizek di “Contro i diritti umani”.
sono d’accordo con questo intervento di Genovese.
specie laddove si sottolinea come (chiamando in causa e in *casa*, ad esempio, Guantanamo o i centri di detenzione sparsi sul *nostro* territorio) lo schieramento, l’ingerenza umanitaria, da parte intellettuale, pecca troppo spesso di inguaribile esotismo.
può valere, infatti, anche per la “denuncia” e per il discorso critico ciò che Susan Sontag, una decina d’anni fa, affermava nei riguardi della “compassione”: “Sarebbe meglio mettere da parte la compassione che accordiamo alle vittime della guerra e di politiche criminali per riflettere su come i nostri privilegi si collocano sulla carta geografica delle loro sofferenze e possono – in modi che preferiremmo non immaginare – essere connessi a tali sofferenze”.
è anzi soltanto da una tale preliminare coscienza autocritica che può svilupparsi un discorso critico sostenibile, lontano sia dal flatus vocis quanto dal “j’accuse!” autoassolutorio.
Bell’intervento, che richiama molti dei temi fondamentali da affrontare per chiarirsi le idee sulle guerre combattute negli ultimi anni.
Cerco di riprendere alcuni punti.
Il testo propone alcuni “criteri di un’ingerenza eticamente sostenibile”. E’ evidente a tutti che il concetto di “intervento umanitario” o di guerra condotta per i diritti umani è inadeguato. La guerra è sempre uno strumento di politica di potenza, e dare margini di azione, nel diritto e nella politica internazionale, per giustificare delle guerre significa dare margini per favorire politiche di potenza che si servono della guerra. Su questo concordo con lo spirito delle critiche alla “ideologia dei diritti umani”. Detto questo, è evidente però che dobbiamo interrogarci sulla legittimità della guerra, in certe condizioni.
Ovvero, all’inizio, bisogna rispondere alla domanda sulla guerra: la si rifiuta sempre o si accetta la necessità di ricorrere a essa, in certe condizioni?
Se la risposta è la seconda (come sembra per Genovese) è inevitabile riflettere sul concetto di “guerra giusta”. Chiariamoci sulle parole: l’espressione guerra “giusta” va intesa non in senso morale (moralmente la guerra è sempre ingiusta), ma giuridico e di legittimazione politica. In definitiva: che cosa giustifica l’uso della forza nelle relazioni internazionali, partendo da una prospettiva democratica e ostile alla politica di potenza? Queste basi di giustificazione devono essere molto limitate: perché la guerra è uno strumento di potenza, e quindi giustificazioni troppo elastiche verranno facilmente trasformate in ideologia; e perché la guerra è sempre peggio di moltissime altre cose.
Ma ci sono casi in cui si è costretti a scegliere la guerra. Tolti i casi di legittima resistenza e difesa contro invasioni e violenze dall’esterno (o anche dall’interno: anche la guerra civile deve poter avere delle basi di legittimazione, pena l’equidistanza sospetta tra fascisti e partigiani, tra franchisti e repubblicani spagnoli, ecc.), c’è però anche il problema dei massacri di civili. Possiamo pensare di poter intervenire, in certi casi, o dobbiamo stare sempre a guardare?
Le condizioni proposte da Genovese mi sembrano corrette: collocare l’intervento all’interno di una iniziativa politica e diplomatica, e muoversi in termini di forze di interposizione. Ok, ma ci sono casi in cui non basta. Ci sono casi in cui è evidente che una parte massacra l’altra, per la sua superiorità militare; e se la parte più forte viene fermata, i massacri si fermano. Dobbiamo pensare anche a questi casi; e non per una “ideologia dei diritti umani”. Questa in effetti è una deriva. Si tratta di chiederci che tipo di ordine politico internazionale vogliamo: se vogliamo una politica internazionale in cui l’ultima parola è sempre quella di chi uccide di più, o se vogliamo un ordine diverso. E’ una questione di concezione politica. In questo concordo con l’idea che i diritti umani non devono essere l’orizzone onnicomprensivo. Portano alla “moralizzazione” e quindi a derive incontrollate. Ma se vogliamo una certa politica, dobbiamo chiederci se e come dobbiamo intervenire in situazioni estreme. E questo a volte richiede di schierarsi nei conflitti.
Non parlo del caso della Libia. Trovo però, da parte di molta sinistra, un atteggiamento di sufficienza quello che liquida i movimenti democratici in atto nel mondo arabo, o perché tutto sommato non sarebbero granché, o perché ora sarebbero sopraffatti da un’ondata islamista. Se siamo davvero democratici, dovremmo sostenerli, invece di fare i raffinati decadenti e di inalberare il nostro etnocentrismo criptocristiano ogni volta che vediamo un partito islamico prendere il potere, senza distinguere tra le diverse tendenze, senza vedere per esempio che in Tunisia gli islamici di Ennahda si sono alleati con i partiti laici per fermare l’avanzata salafita. Sulla questione della guerra, questo però solleva un problema politico che va oltre le giustificazioni “giuridiche” di cui sopra: quando ci sono veri movimenti democratici, che sfociano in guerre interne tra forze democratiche e forze di governo, dobbiamo restare a guardare? Lo chiedo sinceramente, non ho le idee chiare. E’ un problema, perché la politica di potenza si mescola sempre a guerre mosse per ragioni simili. Ma su questo dobbiamo essere lucidi: la Grecia nel primo Ottocento ha ottenuto l’indipendenza grazie agli interessi delle potenze europee nell’area, proprio come gli interessi europei in Libia hanno aiutato il governo di Bengasi; così come gli interessi europei e non, divergenti ma tutti paralizzanti, bloccano l’intervento in Siria.
Condivido molte delle cose scritte nell’articolo, che mi pare davvero un contributo importante sull’argomento in questione. Vorrei però aggiungere che sarà inevitabile vivere nella contraddizione. Inevitabile direi da quando si pretende di avere un diritto internazionale, senza che questo esista davvero.
La domanda più corretta è se possa esistere un diritto internazionale, e se esiste chi ne è garante.
L’ONU aveva di queste ambizioni in chi lo concepì, ma alla prova dei fatti ha finito col mostrarsi come un mezzo nelle mani di nazioni che sono molto più potenti di questa organizzazione.
Apparentemente, affermare alcune leggi che dovrebbero riguardare tutte le nazioni e tutti i popoli del pianeta, si è rivelato nei fatti come un potente mezzo di ingerenza dei potenti su chi non lo è.
Basti citare per tutti il tribunale dell’Aja, che non ha mai osato portare sul banco degli accusati gli USA: è evidente allora che qesti strumenti creati a supporto dei diritti umani così come sono definiti nell’apposita dichiarazione da parte dell’ONU, si sono trasformati in mezzi aggiuntivi, rispetto ai consueti mezzi bellici, per imporre un determinato ordine mondiale.
Infine, mi pare importante sottolineare come quest’ordine mondiale in questi ultimi anni tende a dominare senza neanche passare attraverso la mediazione dei poteri statali, direttamente attraverso la finanza. Credo che ogni prospettiva internazionalista dovrebbe sapersi confrontare sia con quanto scrive Genovese, che con i nuovi ed inediti scenari della finanziarizzazione globale.
Caro Ennio Abate,
perché ti sorprendi se il mio intervento sull’impegno alla rovescia dettato dai diritti umani presi come ideologia appare proprio qui? “Le parole e le cose” è un sito aperto e plurale, anche se tendi a metterlo in dubbio. Si può forse rimproverare ai nostri amici, per lo più scrittori e critici letterari, di non esporsi abbastanza in termini politici, non certo di non ospitare interventi anche “scomodi”. Come sai, io stesso ne ho fatti prendendomi la mia buona dose di vituperi – d’altronde prevedibile quando si arriva ad accusare dl razzismo serpeggiante un’intera città, adducendo l’argomento, non provato, che ciò potrebbe essere la conseguenza di una frizione tra identità culturali diverse, ma entrambe di tipo mercantile, in quella sorta di parco turistico a tema che è diventata Firenze.
La maggior parte degli amici di “Le parole e le cose”, compreso il sottoscritto, proviene dalla Normale. Lì insegnano che si deve parlare con cognizione di causa, meglio ancora se da specialisti dell’argomento. Naturalmente questo è giusto in generale. Però la comunicazione in rete assomiglia più a quella propria di un bar che a quella di un istituto di ricerca. Inoltre, in alcune circostanze, è necessario, o almeno produttivo, prendere posizione su cose che si conoscono soltanto in modo sommario. La Libia è una di queste. Ma io ho inteso intervenire meno su di essa che su un determinato destino dell’intellettuale, su un certo “sfinimento” della sua figura e della sua funzione – il tema del mio lavoro a puntate, quello su cui mi sembra di avere qualcosa da dire. Dovresti perciò collocare il mio intervento nel suo contesto: quello di un discorso intorno agli intellettuali, sul loro esserci ancora e insieme non esserci più, in particolare in Francia, paese nel quale sono nati.
Se “Le parole e le cose” come sito letterario non ha preso posizione contro la guerra in Libia è perché le idee sono diverse, suppongo, e magari confuse, sia nella redazione sia tra i collaboratori abituali. D’altra parte, esclusi Gino Strada e quelli del “senza se e senza ma”, chi è riuscito a prendere posizione contro quella guerra? Le circostanze in cui avveniva erano in se stesse imbrogliate, difficili, nient’affatto chiare come furono quelle della classica guerra coloniale di cento anni fa. Nel 1911 saremmo andati alle manifestazioni, saremmo finiti in carcere con molti altri compagni – e lì vi avremmo trovato anche… Mussolini. “La storia è un incubo da cui cerco di destarmi”. Oggi la destra leghista-berlusconiana avrebbe volentieri fatto a meno di quella guerra, mentre il prode Napolitano, figura ormai quasi sacra, l’ha voluta con convinzione. Ciò è sufficiente a spiegare perché in Italia se ne sia parlato poco.
Lo so, Fortini protestò con veemenza contro l’invasione di Grenada, una piccola isola che gli americani paventavano potesse diventare una seconda Cuba. Ma non possiamo più riferirci in modo semplice e diretto a quel tipo di atteggiamento intellettuale e politico. Non soltanto perché la teoria dell’imperialismo, e il marxismo anche eterodosso, non funzionano più come chiave di lettura del mondo; ma anche perché è diventato sempre più difficile – in se stesso difficile – comprendere i torti e le ragioni. L’universalismo neoliberale andrebbe richiamato a questa elementare verità, e così disarmato. Solo le spoglie ragioni del controllo del petrolio possono spiegare, in ultima istanza, un intervento militare; ma le stesse spoglie ragioni spiegano, in certi casi, anche l’atteggiamento opposto da parte dell’Occidente (vedi la Siria, paese strategicamente centrale per l’equilibrio nell’area). È nell’oscillare e nel bilanciarsi reciproco degli argomenti e delle analisi, applicate alle differenti situazioni, che sta il bandolo della matassa che cerco di afferrare.
A Mauro Piras, per brevità, rispondo soltanto che la teoria della guerra giusta è, in partenza, una costruzione artificiosa nata per porre il cristianesimo, originariamente pacifista, sotto la protezione dell’impero romano. Nelle elaborazioni successive (in Grozio, per esempio), solo le guerre difensive sono giuste, cioè quelle condotte da un paese invaso da un altro. Nemmeno quella del 1991 in Iraq era quindi una guerra giusta, se non da parte del Kuwait invaso; e la decisione Onu voluta dagli Stati Uniti di bruciare le tappe e intervenire contro Saddam Hussein fu già una decisione con una giustificazione etica debolissima. Lo ricordo perché si ricominciò a parlare di “guerra giusta” proprio in quella occasione.
La mia posizione a riguardo è però più radicale. Contesto in radice l’idea che la politica e la diplomazia debbano porsi questioni di giustizia nelle controversie internazionali; sono legittimate a porsi soltanto obiettivi di diminuzione della violenza (il che è poi il compito della politica in quanto tale). Le questioni di giustizia sono comunque questioni di tipo etico: hanno a che fare e s’intrecciano con la politica degli Stati nazionali e di quelli sovranazionali, non con le controversie inter-statali e le guerre civili all’interno di Stati diversi dal proprio. Ciò significa essere in linea con quanto afferma la nostra Costituzione.
Infine, un sincero ringraziamento a tutti.
Articolo interessante, a mio parere molte delle risposte (non soluzioni) possono trovarsi nella critica postmodernista all’universalismo liberale e nella fine delle grandi narrazioni. Il libro di Philip Hammond “Media e Guerra, visioni postmoderne” parte da questi presupposti e sostiene che nella società del rischio, la guerra umanitaria funge da collante sociale. Il vecchio strumento del nemico esterno per la coesione interna rivive in un contesto di crisi dello stato-nazione, di morte del soggetto, disaffezionamento alla politica, e fornisce nuove fonti di significato all’esistente. Consiglio la lettura.
Mentre che la guerra sia la continuazione della politica con altri mezzi, mi si perdoni la pignoleria, non è un detto ma Clausewitz.
@Genovese, non faccia finta di non sapere che per mesi nessuno ha parlato di Libia, tra i principali blog italiani, tra questi LPLC, suscitando le perplessità di Abate, forse espressione di un certo massimalismo (no massinalismo), che da intellettuale di sinistra riteneva giusto che la comunità intellettuale di sinistra si ponesse almeno il problema degli abusi NATO. Comunque… non sono l’avvocato di Abate. Volevo dire che l’affermazione ” Le questioni di giustizia sono comunque questioni di tipo etico ” la trovo quantomeno azzardata (in ogni caso, riduttiva). Anzi, mi fa anche un po’ paura. Il problema è che queste guerre, compresa quella contro la Libia, sono fatte scavalcando il giuridico, quel poco che ci è rimasto in termini di autorevolezza del diritto internazionale, scassando le regole che gli Stati decisero di darsi per convivere pacificamente. Una volta che si scavalca il giuridico, temo si entri nel campo della forza… Se si vuole, di una cinica etica della forza, di una razionalità della forza, di una sua ragionevolezza, in quanto tale accettata da tutti, ahimè anche dagli intellettuali.
Insomma, Genovese, il compito degli intellettuali è quello di produrre enunciati veri. Invece, anche loro, tengono famiglia… E siccome il loro obbligatorio successo (altrimenti diventano oclocrati o trolls o seminatori d’odio…) dipende sempre di più da una sorta di abiura anticipata, finiscono sempre più spesso per legittimare l’ideologia che sostiene la ragione del più forte, i più sfacciati finiscono per dire a viso aperto che la vera ragione è contenuta nella forza… Il problema, quindi, potrebbe essere quello che la verità sta gradualmente scomparendo dall’orizzonte dei produttori di enunciati. Forse è per questo che si parla tanto di etica, come se la verità di un enunciato dovesse sottostare a ciò che fa più comodo alla comunità di appartenenza dell’enunciatore, e non più a una concezione scientificamente e universalmente riconosciuta, giustizia compresa.
Massino, mi scusi, la diffusa viltà degli intellettuali italiani è cosa nota; che della verità se ne infischino per tener dietro a incarichi e prebende, è altrettanto noto. Ma prendere posizione sulla guerra in Libia era oggettivamente difficile per via dell’ “antipatia” di Gheddafi e del suo grande amico italiano. Certo, esisteva una risoluzione dell’Onu a cui ci si sarebbe dovuti attenere: ma questa è diventata subito carta straccia a causa di Sarkozy e dei francesi. Il diritto internazionale è stato scavalcato in nome di presunte motivazioni etiche, di giustizia appunto: la lotta dei ribelli contro una dittatura… Ora le notizie che ci arrivano dalla Libia dicono di bande armate fuori controllo, di crimini e torture. Trovo più grave che non si parli di questo.
Genovese, la questione degli intellettuali asserviti secondo me non è solo italiana (temo che altrove, in termini di viltà, possa essere anche peggio).
Le presunte motivazioni etiche… delle quali parla ora, per me stanno a significare che per fare una guerra ogni pretesto è bello a’ mamma soja… La questione è sempre la stessa: si è violato il diritto internazionale o no? Sì, lo si è violato. Abbiamo un tribunale riconosciuto da tutta la comunità in grado di sancire questa violazione? No, non ce l’abbiamo. Questo vuol dire che il più forte si arroga il diritto di fare giustizia (sommaria), secondo codici non scritti, fondati sulla forza (come fanno le tanto vituperate mafie…). Gli Stati Uniti potranno fare guerra a chi gli pare a loro (però solo una per volta, in modo ordinato… così ha saggiamente deciso il congresso americano, pochi mesi fa, ché è bene razionalizzare e contenere le spese…). Lo stesso potrà fare Israele, che già tiene prigioniero un intero popolo; e perché no lo stesso potranno fare la Cina e la Russia. Senza che nel mondo si sviluppi un pensiero che si opponga semplicemente a questa strage di diritto. Mondo intellettuale in particolare, nel quale pare valgano gli stessi criteri: il più forte decide circa la validità degli enunciati. A peggiorare tutto c’è che il sapere è sempre più controllato e strumentalizzato da chi detiene la forza politica e militare: grandi istituzioni, banche, eserciti, industria militare e civile (della perdita di autonomia intellettuale delle Università, lei sarà certo più informato di me). Il dibattito critico è diventato roba tra straccioni, tra i quali, del resto (noi, senza offesa, ne siamo un esempio) dominano gli stessi criteri di verifica degli enunciati. Come se ne esce?
@ Mauro Piras
Mi attengo al piano del realismo politico da lei scelto e ammetto che non c’è oggi né un soggetto democratico puro né una prospettiva democratica pura. Cosa abbiamo di fronte invece? Direi delle “democrazie reali” in crisi (sì, proprio come si diceva “socialismo reale”). Stati cioè che fanno politica di potenza utilizzando abilmente l’ideologia (o verniciatura) democratica. (Poco differendo, nella sostanza, da quella politica di potenza che, sotto vernice socialista o comunista, prevaleva nell’Urss stalinista tanto vituperata; ma questo è un altro discorso che salto).
Lei scrive: «la guerra è uno strumento di potenza, e quindi giustificazioni troppo elastiche verranno facilmente trasformate in ideologia». Appunto. La guerra la fanno *soltanto* le potenze. Non a caso, quando si poté parlare, e non del tutto a vanvera, di rivoluzione, lo si fece contro la guerra mondiale scatenatasi tra gli Stati (borghesi) d’Europa: Lenin 1917….
Rivoluzione contro guerra è oggi e purtroppo prospettiva improbabile, quasi impensabile. Perciò le ribellioni, che vengono etichettate da mass media sempre iperbolici come rivoluzioni (quella dei gelsomini in Tunisia, quella in Egitto, ecc.) partono zoppe, senza un nucleo promettente ed evidente di indipendenza. (Almeno per quel che ne sappiamo, non riusciamo a distinguere in questi movimenti il peso dei “sinceri democratici” da quello dei “democratici infiltrati” al soldo della Cia o di altri servizi segreti di potenze europee o d’altre ancora).
Fu così anche per la Resistenza italiana e europea o per le lotte anticolonialiste degli anni Sessanta nel Terzo Mondo? O allora distinguere era più facile? Se però siamo arrivati a concludere che «la guerra è sempre peggio di moltissime altre cose», prima di sostenere che «ci sono casi in cui si è costretti a scegliere la guerra», vogliamo chiariamo chi è che quel “noi” che è costretto a scegliere o a porsi la fatidica (e spesso melodrammatica) domanda: «Possiamo pensare di poter intervenire, in certi casi, o dobbiamo stare sempre a guardare?» ( che è poi la domanda di Sofri o del nuovo filosofo francese che tutti conosciamo).
Chi è quel “noi”, dunque?
Per me l’ipocrisia della domanda sta nel fatto che il “noi” che di solito la pone – oggi qui in Italia – non è indipendente, ma è un ventriloquo. Parla – lo dico col linguaggio di una volta – con la voce dei padroni, delle potenze “democratiche reali” (Usa innanzitutto). È un “noi “ che “s’è fatto Stato”, ma non lo dice. Anzi pretende, contro le “anime belle”, di parlare a nome di una sinistra (che non c’è più). Questo “noi” s’è trovato, infatti, negli ultimi decenni di fronte a «casi di legittima resistenza e difesa contro invasioni e violenze dall’esterno» promosse dagli Usa. È stato il caso dell’Irak, dell’Afghanistan e alla fine anche della Libia. (E forse sarà il caso della Siria). Ma non ha mai voluto riconoscere quelli che si opponevano agli Usa come legittimi resistenti. E in un calando di mobilitazioni pacifiste, dal ‘91 ad oggi, si è alla fine adattato a definire resistenza *soltanto* quella approvata e sostenuta dagli Usa (vedi il caso libico). Ha accettato, dunque, tutte le guerre di potenza delle “democrazie reali” occidentali contro falsi Hitler (in possesso di fantomatiche armi di distruzione di massa) e contro quella parte della popolazione che si riconosceva nei suoi capi di Stato (che fino a poco tempo prima erano riconosciuti pure dalle stesse potenze attaccanti!).
Quando lei scrive: «Ci sono casi in cui è evidente che una parte massacra l’altra, per la sua superiorità militare; e se la parte più forte viene fermata, i massacri si fermano», fa un discorso parziale e in parte falso. Perché abbiamo visto che perlopiù i massacri sono continuati e spesso si moltiplicano: e che quegli interventi militari (e politici) generano nuove tensioni e spesso fanno rimpiangere il precedente tiranno o dittatore.
Se, impossibilitati a combattere per una “democrazia pura” o “assoluta”, siamo (da sempre) nella disperata situazione di dover scegliere quale dei più forti appoggiare, diciamocelo.Diciamoci realisticamente: siamo con Obama perché è più forte di Gheddafi, non perché è più giusto di lui. Ma, per favore, non parliamo di indipendenza. Leiscrive:«la Grecia nel primo Ottocento ha ottenuto l’indipendenza grazie agli interessi delle potenze europee nell’area, proprio come gli interessi europei in Libia hanno aiutato il governo di Bengasi». Ma è indipendenza quella che ha ottenuto oggi la Libia? E, sempre realisticamente parlando, il “noi” italiano o il “noi” libico, alleati subordinati degli Usa ci hanno guadagnato? Non pare a sentire i bilanci ad un anno dalla “rivoluzione” che ha rimosso Gheddafi e reso più ingovernabile la situazione. Lei però scrive: «Non parlo del caso della Libia». Beh, troppo comodo limitarsi a un generico rimbrotto dello snobismo «di molta parte della sinistra».
@ Mauro Piras
Mi attengo al piano del realismo politico da lei scelto e ammetto che non c’è oggi né un soggetto democratico puro né una prospettiva democratica pura. Cosa abbiamo di fronte invece? Direi delle “democrazie reali” in crisi (sì, proprio come si diceva “socialismo reale”). Stati cioè che fanno politica di potenza utilizzando abilmente l’ideologia (o verniciatura) democratica. (Poco differendo, nella sostanza, da quella politica di potenza che, sotto vernice socialista o comunista, prevaleva nell’Urss stalinista tanto vituperata; ma questo è un altro discorso che salto).
Lei scrive: «la guerra è uno strumento di potenza, e quindi giustificazioni troppo elastiche verranno facilmente trasformate in ideologia». Appunto. La guerra la fanno *soltanto* le potenze. Non a caso, quando si poté parlare, e non del tutto a vanvera, di rivoluzione, lo si fece contro la guerra mondiale scatenatasi tra gli Stati (borghesi) d’Europa: Lenin 1917….
Rivoluzione contro guerra è oggi e purtroppo prospettiva improbabile, quasi impensabile. Perciò le ribellioni, che vengono etichettate da mass media sempre iperbolici come rivoluzioni (quella dei gelsomini in Tunisia, quella in Egitto, ecc.) partono zoppe, senza un nucleo promettente ed evidente di indipendenza. (Almeno per quel che ne sappiamo, non riusciamo a distinguere in questi movimenti il peso dei “sinceri democratici” da quello dei “democratici infiltrati” al soldo della Cia o di altri servizi segreti di potenze europee o d’altre ancora).
Fu così anche per la Resistenza italiana e europea o per le lotte anticolonialiste degli anni Sessanta nel Terzo Mondo? O allora distinguere era più facile? Se però siamo arrivati a concludere che «la guerra è sempre peggio di moltissime altre cose», prima di sostenere che «ci sono casi in cui si è costretti a scegliere la guerra», vogliamo chiariamo chi è che quel “noi” che è costretto a scegliere o a porsi la fatidica (e spesso melodrammatica) domanda: «Possiamo pensare di poter intervenire, in certi casi, o dobbiamo stare sempre a guardare?» ( che è poi la domanda di Sofri o del nuovo filosofo francese che tutti conosciamo).
Chi è quel “noi”, dunque?
Per me l’ipocrisia della domanda sta nel fatto che il “noi” che di solito la pone – oggi qui in Italia – non è indipendente, ma è un ventriloquo. Parla – lo dico col linguaggio di una volta – con la voce dei padroni, delle potenze “democratiche reali” (Usa innanzitutto). È un “noi “ che “s’è fatto Stato”, ma non lo dice. Anzi pretende, contro le “anime belle”, di parlare a nome di una sinistra (che non c’è più). Questo “noi” s’è trovato, infatti, negli ultimi decenni di fronte a «casi di legittima resistenza e difesa contro invasioni e violenze dall’esterno» promosse dagli Usa. È stato il caso dell’Irak, dell’Afghanistan e alla fine anche della Libia. (E forse sarà il caso della Siria). Ma non ha mai voluto riconoscere quelli che si opponevano agli Usa come legittimi resistenti. E in un calando di mobilitazioni pacifiste, dal ‘91 ad oggi, si è alla fine adattato a definire resistenza *soltanto* quella approvata e sostenuta dagli Usa (vedi il caso libico). Ha accettato, dunque, tutte le guerre di potenza delle “democrazie reali” occidentali contro falsi Hitler (in possesso di fantomatiche armi di distruzione di massa) e contro quella parte della popolazione che si riconosceva nei suoi capi di Stato (che fino a poco tempo prima erano riconosciuti pure dalle stesse potenze attaccanti!).
Quando lei scrive: «Ci sono casi in cui è evidente che una parte massacra l’altra, per la sua superiorità militare; e se la parte più forte viene fermata, i massacri si fermano», fa un discorso parziale e in parte falso. Perché abbiamo visto che perlopiù i massacri sono continuati e spesso si moltiplicano: e che quegli interventi militari (e politici) generano nuove tensioni e spesso fanno rimpiangere il precedente tiranno o dittatore.
Se, impossibilitati a combattere per una “democrazia pura” o “assoluta”, siamo (da sempre) nella disperata situazione di dover scegliere quale dei più forti appoggiare, diciamocelo.Diciamoci realisticamente: siamo con Obama perché è più forte di Gheddafi, non perché è più giusto di lui. Ma, per favore, non parliamo di indipendenza. Lei scrive: «la Grecia nel primo Ottocento ha ottenuto l’indipendenza grazie agli interessi delle potenze europee nell’area, proprio come gli interessi europei in Libia hanno aiutato il governo di Bengasi». Ma è indipendenza quella che ha ottenuto oggi la Libia? E, sempre realisticamente parlando, il “noi” italiano o il “noi” libico, alleati subordinati degli Usa ci hanno guadagnato? Non pare a sentire i bilanci ad un anno dalla “rivoluzione” che ha rimosso Gheddafi e reso più ingovernabile la situazione. Lei però scrive: «Non parlo del caso della Libia». Beh, troppo comodo limitarsi a un generico rimbrotto dello snobismo «di molta parte della sinistra».
Caro Rino Genovese,
sul grado di apertura e pluralità di LPLC abbiamo valutazioni in parte divergenti. Tu (credo di poterti dare del tu perché sento che ragioni con me su un piano di ideale parità…) hai visto ospitati i tuoi interventi “scomodi”. Io l’unico che avevo proposto (vedi caso sulla Libia; e già respinto da “Nazione Indiana” e “alfabeta 2” e accolto poi da “L’ospite ingrato” e “Sinistra in rete”) – su LPLC non l’ho potuto mai leggere né ho mai ricevuto motivazioni per il diniego.
Sì, questi nostri amici (ma da certi amici conta anche guardarsi…) tendono a «non esporsi abbastanza in termini politici». Purtroppo è un eufemismo. Specie in tempi come questi in cui c’è necessità di esporsi. O almeno spiegare perché non ci si può o non ci si debba esporre. Che sarebbe comunque operazione istruttiva e leale. Ma i limiti di LPLC ormai li conosco e non insisto più. Mi accontento di interloquire almeno con qualche redattore o commentatore di passaggio più “aperto” e inforno il mio pane altrove.
Come ho già detto a Mauro Piras è un peccato che intellettuali come lui (o come te) si frenino tanto nell’esporre il loro pensiero sulla vicenda della Libia. Che intellettuali si può essere se, appunto, non ci si espone su vicende simili?
Capisco (ma solo fino a un certo punto) che l’ideale – e non solo per dei provenienti dalla Normale (o da altre università) ma anche per me e per altri non normalisti – sia quello di «parlare con cognizione di causa» di un tema. Ma se poi quasi tutti gli intellettuali universitari hanno taciuto sulla Libia e lasciato straparlare indisturbato, ad es., un Omar Calabrese (cfr. “alfabeta 2”), a me viene il dubbio che a frenarli non sia solo la scarsità o contraddittorietà delle informazioni su quelle vicende. Che poi non sono state così scarse; e l’acume critico acquisito nel proprio campo di studi poteva ben essere applicato a quel tanto che circolava e smantellare almeno le vulgate più trionfalistiche e menzognere imposte da giornali e TV.
Non fecero questo lavoro minimo uno Sciascia o un Fortini, che so, sulle lettere di Moro dalla prigionia delle BR? Disponevano forse di informazioni meno inquinate su quella vicenda, “bollente” addirittura, di quelle che sono circolate ai nostri giorni sulla Libia? Non credo. Avevano però una volontà politica d’intervenire. Erano letterati sì, ma anche intellettuali disposti in partenza a beccarsi la loro dose di vituperi da nemici e falsi amici nel tentativo di stare addosso con le parole alle cose.
LPLC non ha preso posizione contro la guerra in Libia perché tra i redattori le idee erano (o sono) diverse e magari confuse? Ma si può uscire mai dalla confusione delle opinioni evitando di misurarsi con le questioni “scomode”?
A me pare che, confrontando passato e presente e comportamento degli intellettuali di ieri e di oggi, anche tu ti arrendi impotente davanti al *silenzio assenso* che c’è stato a favore della partecipazione dell’Italia anche a questa guerra. (*Silenzio assenso* che prosegue imperterrito: sul governo Monti, sulle vicende greche, ecc.). Potevi insistere sulle “eccezioni” ( Gino Strada e quelli dei “senza se e senza ma”) ma invece neppure ti soffermi. E anche tu non fai che appellarti a una difficoltà “oggettiva” di prendere posizione contro *questa* ultima guerra (in Libia). E così anche tu – ahimè! – infili nella collana del giustificazionismo una dopo l’altra le perle che oggi passano per “verità”: – ah, com’erano chiare le classiche guerre coloniali di una volta; – se non stiamo con il «prode Napolitano» ci confondiamo con la destra; – se protestiamo «in modo semplice e diretto» come faceva Fortini (per Grenada e non solo) finiamo per essere accusati di antiamericanismo; – « la teoria dell’imperialismo, e il marxismo anche eterodosso, non funzionano più come chiave di lettura del mondo»; – « è diventato sempre più difficile – in se stesso difficile – comprendere i torti e le ragioni».
Ecco demolire ciascuna di queste false evidenze (magari qui su LPLC) sarebbe un bel compito per degli auspicabili “nuovi intellettuali” (normalisti o meno).
Altrimenti “il destino dell’intellettuale” sarà uno solo: chiudersi in una tomba invece che nella classica torre d’avorio.
Caro Ennio Abate,
ho tirato in ballo la componente “normalistica” di “Le parole e le cose” sia per cercare di spiegare una certa difficoltà nel “prendere posizione” (a Pisa, l’importante è diventare degli specialisti: poi, semmai, si prende una posizione politica a partire dalle cose che si sono studiate) sia per mostrare che, tuttavia, sono leggermente anomalo e qualche posizione la prendo, senza trincerarmi dietro il “non ne so abbastanza”. Ma io in modo semplice e diretto all’esperienza di un Fortini, che su qualsiasi problema aveva la risposta pronta, non posso riferirmi. Sto cercando di illustrarne i motivi nel discorso che vado facendo. Ti prego di seguirmi…
Caro Ennio Abate,
le rispondo un po’ tardi perché nel frattempo si è sviluppata la discussione sulla laicità, comunque eccomi qua.
Se ho capito bene, lei dice che le rivoluzioni nel mondo arabo non sono tali, ma semplici ribellioni senza prospettiva politica, e quindi non ci pongono il problema di sostenerle, come invece era evidente nel caso delle resistenze europee al fascismo o delle guerre coloniali. Questo è un punto che io contesto radicalmente: al di là della questione della guerra, non capisco perché le opinioni pubbliche europee di sinistra non possano mostrare un appoggio incondizionato al movimento anti Gheddafi in Libia o al movimento anti Assad in Siria, come hanno fatto per esempio nel sostegno alla rivolta algerina contro la Francia tra il 1954 e il 1962; non è un argomento quello del rischio di “derive islamiste” ecc., perché ce n’erano in abbondanza anche in quella guerra anticoloniale (consiglio di leggere il bellissimo diario di Mouloud Feraoun).
Poi, ovviamente, il problema della guerra è un altro: appoggiare politicamente quei movimenti non vuol dire che la guerra in loro aiuto sia la risposta. Potrebbe essere la risposta sbagliata.
Chiariamo intanto la questione del “noi”. Ho usato questo pronome in modo molto banale: per noi intendo i paesi occidentali che devono scegliere se intervenire in un conflitto. Quindi, noi l’Italia, e noi gli altri paesi chiamati ad accettare o rifiutare questa scelta (la Francia, l’Inghilterra, la Germania, gli Stati Uniti); e di conseguenza le opinioni pubbliche che prendono posizione pro o contro. Dico “noi” perché, in ogni caso, siamo interpellati: i ribelli in Libia ci chiedevano la no fly zone; lo stesso fanno adesso i ribelli in Siria. Ci chiedono una risposta. Dobbiamo rispondere, che sia sì o no.
Ora veniamo alla sostanza. Ho scritto “non parlo della guerra in Libia” per non allungare troppo la risposta, e anche perché ammetto onestamente di non essere così informato da poter dare un giudizio un minimo fondato. Io non sono un intellettuale “di professione”, quindi non ho avuto il tempo (né lo ho adesso) di farmi una idea chiara del conflitto. La mia impressione è che l’intervento fosse necessario, per evitare che quel movimento democratico fosse soffocato; e ho la stessa impressione anche per la Siria, dove però la situazione politica locale è molto più esplosiva. Ma è solo una impressione, con scarsa conoscenza dei fatti, quindi vale quello che vale.
Sull’Irak e probabilmente anche sull’Afghanistan sono invece più vicino alle sue posizioni: l’invasione americana dell’Irak è stata un’ignominia, e la guerra in Afghanistan una reazione fallimentare, in termini di sola politica di potenza, a un problema reale. Ma la Libia è completamente diversa, perché una parte della popolazione voleva l’intervento occidentale, e perché è sbagliato pensare che questo sia stato voluto soprattuto dagli Stati Uniti.
Caro Piras,
no, non sostengo che «ribellioni senza prospettiva politica» o eventualmente inquinate da “islamisti” non vadano sostenute o «non ci pongono il problema di sostenerle». Non sono neppure io un intellettuale ”di professione” e non arrivo a calcoli tanto cinici.
Il problema è che a correre in aiuto dei ribelli libici non è appunto il ‘noi’ che ho in mente io , ma il ‘noi’ rappresentato appunto dai paesi occidentali, gli stessi che alcuni mesi o giorni prima accoglievano Gheddafi come capo di Stato e poi lo vanno a bombardare, accorgendosi (d’un tratto?) che è cattivo e dittatore. È, cioè, il ‘noi’ della sinistra che *si è fatta Stato* ( ho scritto)
Lei mi pare che non abbia alcun problema a identificarsi con questi paesi (con gli Stati o potenze statali che – si dice – ci rappresentano; e con i loro eserciti professionali, funzionari, ecc.) o con questo ‘noi’. Io sì.
E il paragone con la sinistra che partecipò ai movimenti di resistenza antifascista o appoggiò la rivolta algerina contro la Francia tra ’54 e ’62 è improponibile: quella sinistra ancora non *si era fatta Stato*, aveva una sua autonomia e indipendenza di pensiero e di organizzazione, che quella di oggi non ha più ( e perciò stento a chiamarla ‘sinistra’).
Ecco perché se una parte dell’ opinione pubblica europea “di sinistra” ha sostenuto Sarkozy e Camerun e il Berlusconi tentennante e poi succube e accondiscendente all’”alleanza dei volenterosi” , ha lavorato consapevolmente o in malafede – dico io – per il re di Prussia (Sarkozy, Camerun, etc).
Lei scrive: « appoggiare politicamente quei movimenti non vuol dire che la guerra in loro aiuto sia la risposta. Potrebbe essere la risposta sbagliata.». Eppure quello è stato l’appoggio reale, quella è stata l’unica risposta che i paesi occidentali hanno dato, escludendo ogni mediazione (Chavez, Paesi africani, ecc.) pur tentata in quei mesi.
Quindi l’ignominia ha riguardato anche il caso della Libia e non solo i precedenti (Irak, Afghanistan).
Di buone intenzioni è lastricata la via dell’inferno. Sono i “diavoli occidentali” e non i “sinceri democratici”, mera base di sostegno acritico alla guerra ( e non all'”appoggio dei libici perseguitati” a portare gli “aiuti” (bombe in verità e caos, come oggi si vede).
Provi a leggere questa intervista al giovane storico Paolo Sensini:
http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=9913
Quanto agli Usa mi spiace che lei li tenga sempre fuori dal discorso .
Mi fa piacere che si sia aperto questo dibattito, bravo Genovese.
La faccio molto corta: non è vero che la guerra sia sempre immorale. Non esistono eserciti del Bene, ma esiste eccome il sacrosanto diritto dei popoli e delle nazioni a difendere con le armi la propria indipendenza e la propria sovranità.
Quanto alla Libia. L’Italia (che aveva collaborato attivamente a insediare Gheddafi e a deporre re Idris nel 1976, cooperando con gli USA in funzione antinglese) è riuscita nel capolavoro di firmare un solenne trattato di amicizia con lo Stato libico, per partecipare due all’aggressione internazionale che ha condotto al brutale assassinio di Gheddafi, all’attuale sanguinosa anarchia che si è imposta nel paese, e a un danno permanente agli interessi politici ed economici italiani in quest’area.
Il regista locale di quest’operazione, telecomandata da Washington, Londra e Parigi, è stato il presidente della repubblica Napolitano (il cui patriottismo USA è al di sopra di ogni dubbio). Il presidente del consiglio Berlusconi, (il cui patriottismo aziendale è al di sopra di ogni dubbio) confermandosi un vigliacco e un politico di quart’ordine, s’è lasciato zittire e usurpare i poteri che gli attribuisce la Costituzione, e si è accodato alla brutale invasione della Libia.
La sinistra italiana in blocco, salvo eccezioni che ci saranno state ma che non ho udito, hanno giustificato il capolavoro libico con il fatto che Gheddafi “è un dittatore”. La destra italiana in blocco, salvo eccezioni che ci saranno state ma che non ho udito, s’è zittita per paura di disturbare il manovratore.
Gli intellettuali italiani, quasi tutti, si sono dimostrati allineati e coperti come al solito. Bravi, spero che almeno qualcosa ci abbiano guadagnato.
E concludo: un esempio di *guerra morale* e *guerra giusta*, grosso come una casa di dodici piani, è proprio quello della guerra combattuta da Gheddafi e dall’esercito libico contro le forze soverchianti che li hanno sconfitti. E la scelta onorevole e coraggiosa di Gheddafi, di combattere fino alla morte in difesa del suo paese, potrebbe insegnare qualcosa anche agli intellettuali italiani: se non altro, ad avere meno paura; che non è poco.