di Marco Nicastro
Nel suo bel libro Microcosmi (Garzanti, 1991), Claudio Magris parla della poesia come «testimonianza dell’assenza» e credo proprio che lo scrittore triestino sia riuscito a cogliere uno degli aspetti cruciali di questo genere letterario, uno degli aspetti insiti nella natura stessa della poesia.
Si può pensare all’assenza nei termini canonici di mancanza e, magari, di malinconia per quella mancanza. La poesia sarebbe quindi mossa da affetti intensi e la malinconia, intesa come reazione emotiva alla perdita di qualcosa di importante (la perdita può essere cosciente o meno) è certamente il principale tra questi. La poesia romantica o ermetica è piena di esempi significativi in tal senso.
Ma volendo si può pensare all’assenza anche in altri modi. Soffermandosi ad esempio sul rilievo degli spazi bianchi che in poesia servono a scandire meglio il ritmo o il senso delle parole e che costituiscono delle assenze ‘tipografiche’ nel foglio; agli enjambements, che spezzano la frase lasciando il lettore per un attimo sospeso alla ricerca di un appiglio sonoro o semantico; o alla brevità di alcuni componimenti (o alla loro oscurità), con cui il poeta tralascia di dire tutto, si concentra solo su qualcosa, ma sottintende anche altro. E forse proprio l’aspetto della non completezza del discorso poetico, del fatto che il lettore è spinto a interpretare e colmare parzialmente con la propria immaginazione quanto detto dal poeta, costituisce l’aspetto che più differenzia la poesia dalla prosa.
In poesia si spezza la logica sequenziale del dire – che descrive, che narra, che cerca di spiegare secondo una logica – e se ne impone un’altra che va per salti o per condensazione di immagini, un dettato evocativo che ha più a che fare con l’inconscio che col pensiero razionale (la cosiddetta ‘verticalità’ della poesia). Riprendendo a tal proposito un’argomentazione di Borges da L’invenzione della poesia (Mondadori, 2011), la poesia potrebbe essere paragonata a una fotografia che mette a fuoco solo un elemento del quadro trascurandone molti altri – che rimarranno sfuocati, sullo sfondo oppure nemmeno ripresi – i quali tuttavia potrebbero essere altrettanto importanti nel delineare il senso complessivo che l’autore dello scatto voleva dare all’immagine. Proprio per queste caratteristiche, in poesia si rendono necessari accorgimenti stilistici differenti rispetto al dire della prosa: le varie figure foniche e semantiche, una diversa strutturazione della sintassi, l’uso intensivo di metafore e analogie, un uso a volte soggettivo del lessico o della sintassi ecc.
Ovviamente, questa caratteristica evocativa del discorso poetico necessita di un lettore incline ad assumere una posizione più attiva nel corso della lettura; egli dovrà infatti partecipare non solo emotivamente – cosa che del resto può ben accadere anche nella lettura di una prosa, quando ad esempio ci si lascia avvincere dalla narrazione – ma anche rimanere aperto alle suggestioni più vaghe e ai movimenti veloci dell’immaginazione, spesso provocati dagli aspetti sonori del testo poetico e dalle analogie: per questo una poesia la si può apprezzare anche se non la si comprende affatto, anche se non dice assolutamente nulla e soltanto perché i versi reggono per la loro vaga bellezza, chiarisce sempre Borges nel libro citato.
Ma è possibile forse intendere la poesia anche come un tentativo, da parte del poeta, di superare quest’assenza che la muove; un tentativo di elaborare un significato sapendo che non è definitivo – «abbi soltanto cura di non presumere», recita l’ultimo verso de Un mestiere, una poesia di Primo Levi sull’arte dello scrivere versi. Il lavoro poetico inteso quindi come lavoro mentale per superare temporaneamente il vuoto, il disordine o l’impossibilità di giungere razionalmente ad una spiegazione accettabile della realtà interna ed esterna all’uomo. Un lavoro quindi che, se così inteso, non avrebbe solo un fine estetico ma anche etico e di valorizzazione della complessità dell’essere umano, inteso come un coacervo intricatissimo di razionalità e irrazionalità che devono integrarsi – o condensarsi, come appunto nelle analogie e nelle metafore – per generare qualcosa di ulteriore, di più soddisfacente e vitale per chi scrive. In sostanza di ridare – anche se per il breve giro di pochi versi – l’uomo a sé stesso, alla sua profondità.
[Immagine: Richard Serra, Santa Lucia Scuplture Park]