di Walter Siti
[Esce oggi il secondo numero dell'”Età del ferro“. Diretta da Giorgio Manacorda, Alfonso Berardinelli e Walter Siti, la rivista verrà presentata alle ore 17 presso la Sala Igea dell’Istituto della Enciclopedia Italiana, Piazza della Enciclopedia Italiana 4, Roma, e il 9 dicembre alle ore 15:00 presso Più libri più liberi – Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria (Sala Vega). Anticipiamo l’articolo che apre il volume, ringraziando l’editore Castelvecchi per la gentile concessione.]
1.
Se si vuol ragionare (a metà tra esperienza personale di chi ne vede molti e riflessione critica sulla formazione delle opinioni in Italia) di talk politici in televisione, credo che un buon modo per avvicinarsi sia considerarli un tipo particolare e inedito di spettacolo, con caratteristiche innovative e non facilmente enucleabili. Si tratta di spettacoli che negano di esserlo, protetti come sono dal grande ombrello dell’informazione: un sottogenere artistico che non osa dire il proprio nome. In questo somigliano ai talk ‘di costume’ (come il defunto Al posto tuo o l’ancora vivo Forum) in cui si pretende che siano vere anche storie palesemente tarocche e recitate da figuranti; ma in quelli la pressione informativa è meno forte, allo spettatore si chiede tutt’al più una blanda attenzione etica e/o sociologica, di solito in chiave di recriminazione («Ha visto al giorno d’oggi che succede, signora mia?»). I talk politici, invece, presumono di fare il punto sull’attualità e mettono sul piatto nientemeno che il comportamento degli spettatori nell’urna elettorale, dunque sono costretti a respingere qualunque sospetto di “montatura” (anche se ogni tanto qualche fuori-onda li smaschera) – sono, per dir così, spettacoli in buona fede, forse neppure voluti da chi li produce, li scaletta, li improvvisa e li recita; canovacci da commedia dell’arte ma senza Arlecchini o Brighella professionisti, con attori inconsapevoli o addirittura controvoglia. Che si possa parlare, al limite, di arte come risultato passivo, in analogia con quanto è accaduto e accade per certi villaggi appenninici o africani, per alcune pitture rupestri, per i ritmi sciamanici che inducono la trance?
Prima di tutto, certo, bisogna definire il sottogenere: che cosa si intende (che cosa intendo io in questo saggio, a essere onesti) per talk politico in tivù. Non l’intervista, né il faccia-a-faccia, né l’inchiesta; non la “tribuna politica” coi tempi contingentati, né la satira di Crozza o Gene Gnocchi, né il varietà intelligente di Zoro (con gli “spiegoni” di Da Milano). Perché vada in scena il talk politico in senso stretto occorrono almeno quattro o cinque partecipanti, un argomento controverso e un conduttore; i partecipanti possono essere politici o giornalisti o professori (più qualche “irregolare”, di cui si parlerà), meglio se misti. Poltrone contrapposte in scenografia, studio sobrio, qualche ospite in collegamento con problemi di “ritorno” o di “ritardo” audio – il conduttore di solito sta in piedi, più raramente seduto se invece delle poltrone contrapposte c’è un tavolo a ferro di cavallo. I collegamenti esterni possono anche essere con una “piazza”, dove un sub-conduttore sceglie di dare il microfono a questo o a quello. Essenziali per il sottogenere sono, come vedremo, gli stacchi pubblicitari. Ma l’aspetto forse più sorprendente è che si tratta di un genere “traforato”: dentro la durata della trasmissione (che può andare da 60 fino a 180 minuti) non tutto è spettacolo – vi compaiono elementi genuinamente informativi: statistiche, sondaggi, servizi giornalistici di indubbio interesse, osservazioni assennate e semplicemente referenziali. Oppure, ed è il caso opposto, all’interno della trasmissione sono previsti cammei satirici gestiti da professionisti del settore; senza contare altri inserti che possono essere fruiti come spettacolo (per esempio, nei talk politici de La7, le previsioni del tempo di Paolo Sottocorona, con foto che mostrano romantici tramonti e suggestive marine); o la sinergia che si crea tra gli argomenti discussi e le immagini più spettacolari di migranti a mare o dei fumogeni dei poliziotti contro i no-Tav, o perfino del conduttore Formigli con l’elmetto durante i suoi peraltro coraggiosi e impressionanti reportage da Kobane e dalla distrutta Mosul. Tra il grado zero e lo spettacolo al 100%, il nostro sottogenere potrebbe passare per un innocuo “programma contenitore”; ma sarebbe fargli un torto, trascurandone la forte carica emotiva e le costanti formali. Preferisco analizzarne la specificità di spettacolo carsico, che sguscia tra i discorsi referenziali e i vari approfondimenti come una biscia tra le canne di palude.
Il sottogenere, così definito, ha avuto in Italia una straordinaria fortuna tra gli anni Novanta del secolo scorso e gli anni Dieci di questo; a raccontare all’estero quanti fossero i talk politici in Italia si rischiava di non essere creduti, o tutto veniva messo a carico dell’anomalia-Berlusconi, mentre le ragioni principali erano economiche: nella gara al risparmio che si era ingaggiata tra Rai e Mediaset, dove trovarli altri tipi di programma che potessero contare su protagonisti gratis e location così poco onerose? Non è che i talk fossero molti perché la passione politica era alta: la passione politica sembrava alta perché i talk che su di essa si reggevano erano molti. (Uno strascico di quelle antiche motivazioni economiche si può rintracciare nell’addensarsi di talk politici su La7, frutto dell’oculatissima gestione di Urbano Cairo). A partire dal 2016 il crollo di ascolti è stato violento, in gran parte proprio per l’eccesso di offerta e per il discredito generale in cui la politica era caduta. Gli ascoltatori si erano stufati di quella frenesia immobile per cui tutti parlavano e non accadeva nulla, argomenti dati per fondamentali due settimane prima cadevano nel dimenticatoio due settimane dopo, personaggi in irresistibile e mistica ascesa sparivano senza quasi lasciar traccia. L’auditel segnala una lieve ripresa di ascolti in quest’ultimo anno, forse perché il pubblico annusa pericoli veri. Naturalmente, e sarà bene dirlo in questo paragrafo d’apertura, non tutti i talk politici sono uguali quanto a qualità e serietà: dipende dalle intenzioni della Rete, dall’autorevolezza dei conduttori e perfino dalla casualità delle “piazze”. Ma fare d’ogni erba un fascio certe volte è necessario, se si vuole misurare l’effetto cumulativo di un fenomeno, l’alone o la risonanza che ogni singola opera del sottogenere proietta sulle altre, insomma il mutamento che l’affermazione su larga scala di una certa forma di spettacolo provoca nell’orizzonte d’attesa e nella temperatura emotiva degli spettatori intesi come massa.
2.
12 giugno 2018. A L’aria che tira (edizione estiva condotta da Francesco Magnani e non dalla titolare Myrta Merlino) è scoppiata una lite furibonda tra Marco Furfaro (Leu o giù di lì) e un giornalista di destra; il tema è quello della sicurezza, della percezione e della paura indotta, la militarizzazione delle nostre città e il diritto ad armarsi da parte dei cittadini. Posizioni note ma l’impeto strapazza la logica, si va un po’ di palo in frasca fin che da parte di Furfaro arriva la battuta popolaresca, «ma che te sei bevuto?» – il povero Magnani ne approfitta per togliersi d’impaccio, «dobbiamo andare in pubblicità, voi vi bevete un bicchiere d’acqua, poi torniamo e chiudiamo la trasmissione». Al ritorno dopo quattordici spot il clima si è disteso, Furfaro dichiara «la sinistra vuole delle città dove tutti possano uscire tranquilli» e il giornalista risponde «anche la destra vuole questo» – poi però il giornalista accenna alla perdita del senso delle istituzioni e se la prende con Saviano che ha dato del “bandito” al Ministro dell’Interno; al che Furfaro ribatte «è lo stesso ministro che ha portato una bambola gonfiabile sul palco dicendo che era la Boldrini?»; ripete la frase tre volte mentre l’altro cerca di replicare ma non si capisce; il conduttore (sono passati solo quattro minuti quattro) risolve dicendo «mi fanno dei segnacci, devo andare in pubblicità, è tassativo» – e parte il tormentone musicale con cui si apre e si chiude ogni blocco della trasmissione: mamboo italiaaano!
Ho scelto volutamente un campione medio, e quasi casuale, per cominciare l’analisi dei caratteri stilistici più marcati e ricorrenti. Lo “scontro” (la “lite”, qualche volta addirittura la “rissa”) è certamente l’apice del tessuto narrativo: come il duetto tra tenore e soprano nell’opera lirica o la riunione in una stanza di tutti i sospettati nel giallo classico. Lo scontro si può scatenare tra due politici di partiti avversari, o tra un politico e un giornalista, o tra due giornalisti di testate rivali, o tra la ‘piazza’ e un politico in studio; più raramente, quasi mai, tra persone nella stessa piazza. L’atmosfera della lite non conosce le punte comiche toccate da Gemma Galgani e Tina Cipollari a Uomini e donne (capaci di chiudere con un allegro balletto di riconciliazione), né la disinvoltura da bar delle trasmissioni sul calcio (con digressioni e divagazioni alla Cioni Mario), né il friccico di curiosità morbosa dei talk sui delitti (più simili alle antiche veglie nella stalla); i politici hanno un nome (e una ditta) da difendere, provano a contenersi, le liti sono tutte di nervi e hanno il fascino di apparire un po’ intinte di vergogna – ma quando raggiungono il diapason ammiccano comunque al genere della farsa più che del dramma.
Esistono dei “virtuosi” della lite o della rissa, al punto che le loro performance più divertenti sono conservate e antologizzate; su YouTube si possono trovare video intitolati Le migliori risse di Vittorio Sgarbi o Le più belle liti di Alessandra Mussolini. Un vero must, per esempio, è la scena della Mussolini e della (allora) ministra delle pari opportunità Katia Belillo che vengono alle mani, e ai calci, nel salotto di Vespa, con l’ «oh santo cielo» orrificato del conduttore. Il «capra, capra» di Sgarbi ha ormai perso le sue valenze offensive per diventare un tormentone buffo, mentre conserva una sua ruspante efficacia il «checca isterica» indirizzato contro Gianni Barbacetto (che lo aveva accusato di «prendere uno stipendio senza lavorare»), con il conduttore Marco Columbro che per zittirli esplode in un toscanissimo «maremma maiala». Sgarbi pretende di rifarsi alla tradizione delle avanguardie novecentesche, da Jarry e Dada fino a Piero Manzoni, mentre la Mussolini non ambisce a pedigree culturali anzi rivendica un piglio plebeo e si offende solo fino a un certo punto quando (altre donne, la Meli, la Carfagna) le rivolgono l’appellativo di “vajassa”. Mostra il dito medio al blogger Daniele Martinelli, avverte provocatoria «io meno»; ma la borghese che è in lei non può non lasciar trasparire che la vocazione popolaresca è un vezzo, e che ne fa un ruolo di commedia. Perché i personaggi riescano bene, nello spettacolo-talk, bisogna che in essi sia riconoscibile un fondo di autenticità; Alessandra Mussolini è davvero una voce fuori dal coro in Forza Italia, davvero si indigna contro il rapper ghanese Bello Figo, che è perfettamente integrato e ha studiato qui ma fa la parodia del migrante nero coccolato dalla sinistra, cantando «io no pago afitto» (lei cade nella trappola gridandogli «torna al tuo Paese» e ricevendone un impeccabile «questo è il mio Paese»); Daniela Santanchè si sforza davvero di dire quello che pensa scartando dal tradizionale politichese, anche se gioca la propria eleganza vistosa e la propria immagine di “imprenditrice” nel personaggio della signora che tratta lo studio televisivo come se fosse casa sua, riservandosi il diritto di interrompere chiunque in qualunque momento, senza negarsi qualche replica più muscolare (alla Preziosi del «Manifesto», che le dice ironica «non mi va di alzare la voce, sono anziana», risponde conscia del siparietto «se non ha il fisico non venga»). Perfino Marco Travaglio, sul cui sorrisetto di sufficienza capace di innervosire una monaca buddhista si potrebbero scrivere volumi, lascia affiorare sotto il personaggio antipatico del primo della classe col ditino alzato una vera forza controcorrente, il coraggio del segugio di razza e una bella fedeltà alla lezione del suo maestro Montanelli.
Ci sono (e gli autori dei talk lo sanno) combinazioni pressoché sicure per ottenere uno scontro come si deve: se alla Borgonzoni (Lega) contrappongo la Morani (pasionaria Pd) e ricordo un tweet in cui quest’ultima giudica il volto di Salvini su basi lombrosiane, certo otterrò scintille; lo stesso se sull’economia interpello il direttore del «Giornale» Sallusti insieme all’inflessibile portavoce di Potere al popolo!, la pasdaran Viola Carofalo; o se chiedo a Francesco Borgonovo di discutere di migranti con Vauro, o mentre c’è Fratoianni in studio mi collego con una piazza dove si espone un cartello «entra in piedi in casa mia e ne uscirai sdraiato»; o se a parlare delle vicende giudiziarie di Formigoni chiamo Peter Gomez («oltre a essere un politico di dubbia moralità lei è anche un maleducato, la sua mamma non le ha insegnato l’educazione?»; «non parlare di mia mamma, okèy?»). Il guadagno in termini di conoscenza è nullo, ma lo spettacolo si arricchisce di intensità emotiva. Facendo un calcolo molto approssimativo, ad animare la ventina di talk politici attualmente in onda sulle reti generaliste (tra mattina pomeriggio e sera) sono circa 40 politici (su circa 1000 disponibili, tra parlamentari ed ex), circa 20 giornalisti e 20 “esperti”, più qualche intellettuale di altre provenienze. In tutto meno di cento persone che reggono sulle spalle oltre la metà di tutti i talk; più che una “compagnia di giro”, danno l’impressione di comporre il cast aperto (il turnover è assicurato dai rari terremoti elettorali) di una soap infinita: attori che non recitano sempre insieme ma si conoscono tutti e dietro le quinte si salutano con cordialità, dividendo le stesse pizzette e firmando le medesime liberatorie. («Ormai siamo abituati a scontrarci», dice l’avvocato Paniz sorridendo a Mario Giordano, che sorride di rimando – o gran bontà dei cavalieri antiqui!). Alcuni personaggi del cast sono più caratterizzati di altri: c’è il corsaro pirotecnico Di Battista, il tecnico aggressivo Borghi, il liberale pacato De Nicola, il saggio e scafato Pomicino, lo sferzante Marattini, l’appassionato Fiano, la solida Di Girolamo e il sarcastico D’Alema, le precisine Di Giorgi e Fusani, la berlusconide a diciotto carati Giammarco e via elencando. C’è il Bersani aforistico tra Gramsci e Altan («se ti vengono in testa idee che non condividi, vuol dire che qualcuno sta sviluppando egemonia»); c’è il giovane filosofo Fusaro che parla un po’ come il vecchio Marianini di Lascia o raddoppia? («sarò celerrimo»); c’è lo scienziato eccentrico Odifreddi e lo scrittore dei boschi Mauro Corona; ogni tanto, reduce da talk sui delitti o sul comportamento degli adolescenti, compare Crepet perché «qui c’è bisogno di uno psichiatra».
3.
Anche persone aliene dallo spettacolo e dalla banalità si ritrovano a compiere gesti che, catturati dai comici, danno luogo a imitazioni e scherzi (per esempio Cacciari che brontolando si alza e abbandona lo studio); ripeto, qui non si considera il vario valore dei singoli ma l’effetto spettacolare complessivo. Se le liti rappresentano il momento alto, a formare il tessuto connettivo sono invece le discussioni di tono medio e lì l’appeal per lo spettatore è soprattutto quel “piacere dell’uguale” che tanto affascina i bambini al tempo delle fiabe: chi si appresta a guardare un talk politico sa già più o meno che cosa aspettarsi da ciascuno dei partecipanti e potrebbe quasi anticiparne le battute (a questo servono le caratterizzazioni). Gli artifici retorici, e perfino i tic linguistici, sono iterati e costanti: si potrebbe farne un catalogo.
La prima risorsa argomentativa è il rinfaccio: «e voi allora, che…», «ma lei è un rappresentante di quel partito che…» oppure «non accetto lezioni da chi…» – che è un ottimo modo per cambiare argomento e buttare la palla in tribuna. Il “salto di livello logico” è comunemente praticato: «Le sentenze bisogna rispettarle, ma posso dire che questa sentenza fa schifo?», «allora mettiamo in galera tutti i magistrati», «alcuni se lo meriterebbero», «faccia i nomi!»; come pure la reductio ad absurdum delle ragioni dell’avversario o mettere il dito nelle sue piaghe: «Studiare un poco non guasterebbe», «voi avete studiato tanto bene che il popolo italiano vi ha cacciato il 4 marzo». Un’altra risorsa è quella quantitativa, rivendicando una primazia: «Sono più garantista di tutti i garantisti messi insieme», «noi l’avevamo già fatto nel 2008», «sono contento che vi siate convertiti alle nostre idee»; si può volgere al bene un termine che di solito è percepito come negativo («se razzista vuol dire amare il mio Paese, allora sì, sono razzista»); si può ricorrere al principio d’autorità («non lo dice quell’ignorante di Morelli, lo dicono due premi Nobel») o viceversa si può snobbare l’autorità col mito della massa («pensare che il popolo non riesca a capire le cose significa dire al popolo che sono dei cretini»); si può esaltare l’oggettività («i numeri non hanno colore») o proclamare il diritto alla soggettività dolorante («vada a raccontarle alla signora Flora che ha perso il suo bambino, le sue statistiche del cazzo»).
Ma la maggior parte delle energie dialettiche viene spesa nella schermaglia immediata, nell’affermazione della presenza; un classico sono le lamentele sull’essere interrotti e sulle possibilità di far sentire la propria voce: «non mi interrompa», «ma lei non può dire cose false», “non le consento di affermare che io dico il falso», «lei può dire quello che vuole, basta che racconti le cose come stanno», «io le racconto se lei tace un attimo, può squittire dopo la pubblicità», «squittire lo dici a tua sorella», «io non interrompo, interloquisco». Per chi sta in collegamento la lagnanza tipica è «per me è più difficile, ho il ritardo in cuffia»; poi ci sono le proteste “di genere”: «tutti contro di me che guarda caso sono una donna» (o, più beffardo, «un maschietto solo tra le grinfie di quattro femminucce»). Si lavora ai fianchi l’interlocutore, si cerca di fargli perdere le staffe: «Capisco che lei sia nervoso», «io sono calmissimo», «deve rendere conto ai suoi padroni», «attento che parte la querela». La versione irenica, invece, quella che punta ad alleggerire i toni, è fatta di conflittualità amichevole: «Mi preoccupo, è già la seconda volta che sono d’accordo con Lei»; o è il conduttore che osserva compiaciuto «stiamo volando altissimo» appena si cita Kant, o De André, o un qualunque libro Adelphi. L’accordo arriva sui più stanchi luoghi comuni: «L’Italia è un grande Paese», «non esiste la bacchetta magica per risolvere i problemi», «viviamo ancora in democrazia», «il lavoro non si crea per decreto» e simili ovvietà. Quando qualcuno intuisce che sta per essere interrotto dice «un’ultima cosa e poi mi taccio» – credo che il verbo “tacersi” (“arcaismo volutamente esibito” secondo la Crusca) sia usato solo dai politici quando stanno in televisione. Buona creanza di cui ognuno fa sfoggio, e che serve da controcanto agli acuti delle liti; fermo restando che un’altra scena obbligata è quella in cui tutti gli ospiti parlano contemporaneamente, in una cacofonia che il conduttore cerca di placare con soddisfatta disperazione («non vi accavallate, che a casa non si capisce nulla») o con riferimenti meta-televisivi («volete proprio far felici Blob e Striscia la notizia? »).
Il ruolo del conduttore è anch’esso (fatte salve le pur notevoli differenze individuali) un ruolo teatrale: più o meno quel che faceva Tadeusz Kantor ne La classe morta – un regista che però sta in scena, coordina, arbitra, dà i tempi e si mette in gioco per il senso generale dell’opera. Di solito ha un sacro rispetto per la “scaletta” ed è costretto ai salti mortali per infilare nella discussione i servizi già previsti («i nostri pensionati devono andare all’estero per valorizzare le loro pensioni, ma c’è chi invece deve valorizzarsi all’interno del proprio partito, ecco un servizio sull’assemblea del Pd»); se la cronaca incalza, non può permettersi di perdere un eventuale scooppino, per cui mette fretta a chi sta parlano («mi risponda in un tweet») per collegarsi col campo rom dove sta arrivando la macchina di Salvini (che non parlerà e farà il segno “dopo” con la mano). Però il vero idolo più sacro del sacro (“sacerrimo” direbbe Fusaro) è la pausa pubblicitaria: il conduttore la usa come spauracchio, come rifugio, come regola metrica – soprattutto come indiscutibile deus ex machina: di qualunque cosa si stia parlando, ogni urgenza di capire deve cedere di fronte alla necessità di “fare cassa”, e spesso dopo la pausa si parlerà di tutt’altro (con altri ospiti perché quelli di prima sono corsi in Parlamento a votare, o con qualcuno che resta nel blocco nuovo come certi personaggi in romanzi diversi di Balzac).
4.
La prima regola dei talk è che in trasmissione non si deve parlare male dei talk; appena qualcuno accenna ai danni che possono essere prodotti da una così prolungata e spettacolare esposizione della politica, subito il conduttore risponde «e certo, è sempre colpa nostra», con l’aria della vittima designata e il risentimento di chi non vede riconosciuti i propri meriti. Il discorso finisce lì, eppure varrebbe la pena di rifletterci con libertà di testa. Nel 2016, su Italia1, fu tentato un esperimento istruttivo: andò in onda la prima puntata di quello che fu definito un “talent-talk” o anche “il talk con il televoto” (si intitolava Maggioranza assoluta) – cinque politici o intellettuali dovevano sfidarsi a colpi di argomenti e alla fine era il pubblico da casa (appunto con il televoto) a decretare il più convincente, che si portava via un bel montepremi. Il programma fu chiuso dopo la seconda puntata, per share troppo basso e le troppe defezioni, ma è interessante chi furono i due vincitori: Andrea Pucci, comico interista, e Giampiero Mughini, intellettuale juventino – cioè due abituali frequentatori della trasmissione sportiva Tiki Taka, in onda sulla stessa Italia1 e condotta da Pierluigi Pardo che conduceva pure lo sfortunato talent-talk. Il calcio aveva stinto sulla politica, indebolendola e “calcizzandola”.
Tra i vari piaceri, più o meno perversi (sadismo, infantilismo, familiarità, istruzione, superiorità, partigianeria, riso), che il talk politico suscita, il più segreto è forse quello di avere una “classe politica” sempre a disposizione in video, e sempre a rischio di scivolate e brutte figure: come nel Grande Fratello delle origini. Una classe politica a cui magari affezionarsi ma senza il minimo rispetto. Non è un caso se i veri leader (un tempo Berlusconi, più tardi Renzi, ora Salvini e Di Maio ma anche uno scrittore di indubbio carisma spettacolare come Saviano) non si sognano nemmeno di partecipare a un talk; il talk è uno spettacolo ibrido, che non consente ai singoli personaggi di controllare fino in fondo la propria parte. È un po’ reality, un po’ soap, un po’ luna-park (anzi, tirassegno), un po’ improvvisazione e un po’ commedia; come in tutti i testi che danno importanza alla forma (e uno spettacolo non può non appartenere a questa categoria), i contenuti specifici valgono meno dell’effetto generale – nei talk spesso passano senza discussione affermazioni francamente discutibili («i piccoli imprenditori sono i veri precari», «bisogna creare un’internazionale dei sovranisti»), mentre ci si scanna su cose che sembrerebbero pacifiche («sono andato in pensione quando la legge me l’ha permesso»). L’emotività prevale sul raziocinio, come in qualunque opera d’arte, ma nessun autore ne ha calcolato la miscela e gli esiti, e se ne è assunto la responsabilità. Se vogliamo estrarre (come sarebbe doveroso) dai contenuti espliciti il contenuto implicito dovuto alla forma, questo è grosso modo quel che ci dice lo spettacolo collettivo dei talk politici: l’Italia è un grande Paese, un Paese in rovina dove si possono comprare molte cose, dove vivono molti disperati ma dove è giusto e possibile pensare positivo ed essere felici; un Paese democratico dove si può discutere di tutto ma niente può essere risolto, un Paese che nessuno è degno di guidare ma dove contano i valori, soprattutto salvare le donne incinte e i bambini. Paradossalmente, l’insieme dei talk politici è un esempio gigantesco (e inavvertito) di arte che influisce sulla realtà: cioè di arte impegnata.
Estratto da “Mambo italiano” di Walter Siti, in «L’età del ferro» 11/2018, Castelvecchi editore.
© 2018 Lit Edizioni Srl. Per gentile concessione.
“ Giovedì 21 aprile 2016 – Poi, quando accendo la tv, c’è la bionda che vuole persuadermi a leggere cioè a comprare il nuovo libro del suo amico, quel giornalista dall’aria un po’ furba – un’aria da giornalista, diciamo così – che va sempre da lei a talkeggiare etc. Io so benissimo che il libro di quel giornalista non lo leggerò nel senso che non lo comprerò mai, ma il punto, purtroppo, non è questo. Il punto è che, ahimè, qualsiasi cosa faccia, io, nel momento in cui ho acceso il fottutissimo piccolo schermo, ho già letto, ho già comprato: ho letto la bionda, ho comprato la bionda, il suo scaltrissimo amico, il suo fottutissimo libro, ammesso che sia un libro, ammesso che gli fotta qualcosa di esserlo – anche la bionda sono sicuro che non è bionda per niente… “.
Insomma un metodo qualsiasi per mantenerci ignoranti in un paese in stallo da decenni.
“ Martedì 7 settembre 2016 – « ” I dieci minuti di celebrità, come diceva Andy Warhol ” ” Quindici… ” » (Da un talk show) “.
il pezzo è molto bello, nella galleria dei ritratti e tic forse manca qualcuno tipo Scanzi, dissento però sulla frase finale
questa non è arte impegnata, è divertimento nel senso latino di dis-vertere, volgere altrove
” Sabato 11 ottobre 2008 – Mambo: « Museo di Arte Moderna di Bologna ». “.
“E ‘la vita bassa’, da noi, non diventerà una Metafora illuminante e dirigibile, nella pubblicistica ‘easy’, satura e beata di cose che sono sempre metafore di altre cose? Non solo il mercato e i mercatini, anche gli scarichi paiono ormai ingorgati eppure insaziabili di metafore del nostro tempo, del nostro paese, della nostra condizione, dell’esistenza umana, di Dio, dell’ermeneutica, di tutto.
Alberto Arbasino. La vita bassa, Milano, Adelphi, 2008. p.26
“I grandi malori italiani contemporanei derivano da quei due grandi flagelli che sono la sovrappopolazione selvaggia e il linguaggio alienato. Cioè, precisamente, un ‘discorso’ soltanto astratto che corrisponde a un ‘pensiero’ soltanto teorico […] dove i più non sanno mai cosa stanno dicendo, né come daranno da mangiare ai propri figli, e dove però ciascuno (benché smentito continuamente dai fatti) si ritiene eccezionalmente ‘dritto’, lui solo, ritenendo tutti gli altri eccezionalmente ‘coglioni’”.
Alberto Arbasino. La vita bassa. Milano, Adelphi, 2008. p. 11
Walter Siti ha scritto il manuale per il perfetto talk politico. Descrivendone gli ingredienti, ne ha dato la ricetta.