di Giulio Savelli
Quale crisi?
Si parla spesso di crisi delle discipline umanistiche. Il termine indica uno stato di perturbazione, di squilibrio, di passaggio brusco verso una differente condizione. Se la sensibilità soggettiva di ciascuno conferma tale stato, i dati oggettivi a sostegno non sono univoci. Sicuramente c’è una riduzione delle risorse economiche destinate alle humanities nelle università, specialmente anglosassoni, ma se si guarda allo stato generale della cultura umanistica si vede anche altro, soprattutto se i confronti sono fatti su un arco temporale relativamente ampio. Un conto è guardare all’andamento negli ultimi dieci o vent’anni anni, un altro negli ultimi cento. Le discipline umanistiche si sono evolute e differenziate gradualmente e la loro fisionomia attuale risale circa a un secolo fa. Da allora si è assistito a uno sviluppo esplosivo, quali che siano i parametri di riferimento: numero di studenti universitari o di docenti, ampiezza e varietà dell’editoria accademica, della saggistica, della letteratura, delle traduzioni, numero dei visitatori dei musei, numero e dimensione delle biblioteche e così via. Il decremento in corso, rappresentato su un grafico, indicherebbe una tendenza significativa, marcata, ma non una vera e propria crisi. E anche guardandosi attorno: quando mai i classici della letteratura e della filosofia sono stati prima d’ora accessibili in edicola a prezzi modestissimi? Quando si erano mai visti festival di filosofia affollati e tutti questi premi letterari? A ciò va aggiunta quella che Jameson ha denominato l’”estetizzazione” della società: la diffusione di una sensibilità estetica sofisticata su una scala larghissima attraverso il design, la pubblicità, la moda. Viviamo in un mondo dove le creazioni intellettuali delle avanguardie storiche sono moneta corrente e appaiono sulle magliette e nei gadget diffusi ovunque. Un mondo dunque imbevuto, zuppo, di cultura umanistica.
Ci sarebbe da credere che la crisi esista quasi solo nelle menti di intellettuali e letterati – da sempre inclini, peraltro, a rimpiangere le virtù passate e deplorare la corruzione imperversante nella propria epoca. Tuttavia, se il disagio soggettivo è disagio oggettivo quando si parla di esseri umani, lo stesso forse vale per le discipline che hanno l’umanità quale proprio campo d’indagine.
Per comprendere la crisi occorre osservare la trasformazione della struttura dei sapere umanistici, al loro interno e rispetto al campo in cui si collocano, rappresentato dal sapere nella sua varietà e globalità.
La struttura dei saperi umanistici ha sempre fatto riferimento a una linea diacronica e – a partire dalla modernità, comunque intesa – consapevolmente storica. Il valore di una produzione si è basato o sulla ripresa di un canone – citato, reinterpretato, posto a fondamento del proprio paradigma – o sull’innovazione creativa rispetto al sapere dato. Dai medievali, nani sulle spalle di giganti, al rinascimento del sapere antico e alla sua proiezione nel presente, alla rivendicazione della superiorità dei moderni sugli antichi, alla libertà di pensiero illuminista contro ogni dogma, al progresso sistematico e per accumulo dei positivisti, alla rottura e al superamento della tradizione ricercati dalle avanguardie, il riferimento al passato è sempre stato cruciale nella legittimazione del pensiero. Quello storico è un vero e proprio codice che tuttora agisce nella validazione di un prodotto all’interno di un’area data – per esempio, quando si fa riferimento all’”originalità scientifica” o all’”originalità artistica”. Le discipline scientifiche in senso proprio – pur avendo una loro storia e dei paradigmi metodologici, che si evolvono nel tempo, a cui fare riferimento – trovano comunque una legittimazione al loro sapere nella falsificabilità dell’ipotesi e nella sua validazione sperimentale. Quelle umanistiche – anche quando hanno basi fattuali ineludibili, come tutte quelle di area storica e linguistica – si evolvono sulla base di riferimenti interni alla stessa disciplina. Sono quindi strutturalmente meno stabili e più dipendenti dalla memoria del sapere accumulato. Ogni contributo nuovo si colloca più o meno efficacemente nel suo contesto a partire dalla consapevolezza, da parte dell’autore, del codice storico entro cui è prodotto. Ogni creazione ha le sue radici nel passato. Tutto il sapere, umanistico quanto scientifico, riconosce comunque in sé – nei propri codici interni – l’origine e la base valoriale delle proprie acquisizioni.
A partire dagli anni Settanta e Ottanta dello scorso secolo la legittimità di tale auto-fondazione si trova messa in discussione. Legittimità significa riconoscimento sociale, pubblico e condiviso, di un valore e di un ruolo. Il valore sociale di una pratica, quale che sia, è centrale sia per la vita di chi la esercita sia per lo sviluppo della pratica stessa, dato che dall’apprezzamento sociale dipendono tanto le risorse destinate al suo sviluppo quanto la posizione simbolica che detiene nell’ambito della comunità. Noi consideriamo il sapere come cosa sacra e intangibile, forse viziati dalle consuetudini culturali acquisite negli ultimi due secoli, ma nella storia umana i roghi di libri si sono ripetuti, a partire da quello in Cina nel 212 a.C., così come le persecuzioni, a partire dalla condanna di Socrate, verso studiosi, pensatori, scienziati, intellettuali. Di regola a promuovere la delegittimazione di un certo sapere, se non di tutto, è stata un’autorità politica o religiosa; e questo non è certo il caso delle nostre società. Tuttavia, la questione della legittimità del sapere non è né nuova né irrilevante. E non è detto che siano necessariamente i vertici politici o religiosi a porla, né che sia l’evoluzione stessa del sapere a estinguere intere discipline, come avvenuto con l’astrologia o l’alchimia.
Su cosa si fonda oggi la legittimità del sapere? Poiché le discipline umanistiche si prendono cura, fra le altre funzioni, della propria auto-rappresentazione, la questione delle proprie basi è stata sempre dibattuta. A partire dagli anni Settanta si è fatto strada un paradigma nuovo, che ha avuto una nuova parola quale vessillo: postmoderno. La parola, così come le poetiche che sosteneva, è presto invecchiata, ma non il nuovo principio di legittimazione che sottintendeva. Un piccolo e fortunato libro, La condizione postmoderna, un rapporto sul sapere nelle società più sviluppate scritto nel 1979 da Jean François Lyotard per il governo del Québec, lo descrive sommariamente ma con precisione. Il nuovo principio di legittimazione viene definito da Lyotard come «la legittimazione attraverso la potenza. (…) Essa legittima la scienza e il diritto attraverso la loro efficienza, e la seconda attraverso i primi»[1]. Così, per esempio, nell’ambito dell’istruzione, «la domanda più o meno esplicita che si pongono lo studente aspirante professionista, lo Stato o l’istituzione di insegnamento superiore, non è più: è vero? ma: a che cosa serve? Nel contesto della mercificazione del sapere, tale domanda significa nella maggior parte dei casi: si può vendere?»[2]. L’efficienza – “performatività” la chiama Lyotard – e il mercato sono gli strumenti della potenza, la legittimano e ne sono legittimati. Il sapere circola nello stesso circuito del denaro, e può essere misurato, venduto e comprato col denaro: il vero e il giusto in quanto tali non hanno, nella cultura contemporanea, uno statuto autonomo.
Ovviamente non si tratta di una proposta di Lyotard: non si tratta di una nuova estetica, di una nuova poetica, di una nuova maniera di fare letteratura o arte, né si tratta di una nuova epistemologia. Piuttosto, nel postmoderno, camuffata sotto le vesti consuete di un’avanguardia e di una riflessione filosofica, c’è il riconoscimento di un’evidenza che situa il cuore della legittimazione del sapere fuori del perimetro del sapere stesso. E ciò non per un atto d’imperio politico o religioso, ma attraverso l’azione di una “mano invisibile” – come a metà del Settecento è stata battezzata con una efficace metafora la provvidenza immanente che governa tanta parte della nostra vita. Il sapere ha la sua legittimazione attraverso il Mercato.
Post-
Il prefisso post- inaugurato dal postmoderno e ripreso con mille variazioni da una quantità di correnti filosofiche e artistiche rappresenta – entro la consapevolezza che di sé ha la cultura umanistica – uno scarto di lato e l’assunzione del presente come eternità. Non è più il passato il riferimento su cui orientarsi per il futuro, ma il presente e la sua proiezione in un futuro immaginato come “presente aumentato”, dove cioè alcuni aspetti caratteristici del presente – talvolta alcune tecnologie, talvolta alcuni elementi culturali – assumono una sorta di assolutezza. Rispetto al suffisso –ismo che segnava ogni avanguardia novecentesca in nome della rottura col passato, il prefisso post- segna una rottura già avvenuta, già nelle cose, che il futuro è incaricato di stabilizzare in una sorta di eternità immaginaria e radicalmente altra.
Una tale autorappresentazione va compresa. Si tratta di un atteggiamento realmente nuovo rispetto alla logica delle avanguardie, in quanto abbandona il riferimento critico al passato, ma allo stesso tempo rappresenta la costruzione di una meta-narrazione che è succedaneo ideologico delle pratiche di auto-fondazione caratteristiche delle discipline umanistiche. Le analisi che decostruiscono il presente, delocalizzandolo rispetto al passato, basano la loro stessa legittimità in tale atto. Che in ultima analisi è l’assunzione del presente stesso quale riferimento. Per esempio, quando Lyotard definisce la condizione postmoderna come contrassegnata dalla fine delle “grandi narrazioni” fondative – storicismo, marxismo, umanesimo, progresso scientifico ecc. – capaci di ordinare il mondo e il sapere, e in questa fine individua l’identità contemporanea, costruisce a sua volta una “piccola narrazione” fondazionale. Alla cui base evidenzia niente altro che lo stato delle cose: la potenza, la performatività, il mercato. In questa autorappresentazione, falsa se considerata in termini assoluti, si manifesta e si esprime la “verità” del contesto storico entro cui i vari post- si determinano. Il carattere di moda culturale, tanto evidente nei post-, e che li farebbe rientrare nell’effimero, è il tratto che indica la base della loro auto-legittimazione, ed è dunque cosa della massima serietà: è lo stesso motivo del loro imporsi e del loro auto-rappresentarsi, ed è assieme lo specchio indiretto della realtà. La legittimazione dei saperi umanistici non riposa più sull’autofondazione ma dipende dal mondo e dalle sue priorità.
Eppure tale condizione è solo una faccia, un lato, di tutta la questione della legittimazione. I post- riusano, citano, parodizzano (talora involontariamente) la tradizione che li precede e di fatto vi si inseriscono. Nell’arte ciò è particolarmente evidente, con opere paradossali che negano l’arte in quanto artistiche. Ma il paradosso è in agguato ovunque. Nasce dal fatto che la legittimazione è in realtà duplice. Sul lato della produzione rimane fatalmente il riferimento alla tradizione, alla storia della propria disciplina o arte, all’autofondazione del sapere, del valore e in definitiva della legittimità. Un artista è un artista, uno studioso uno studioso. Su quello della fruizione, del valore sociale, condiviso, pubblico il codice storico è invece irrilevante. La domanda a cui occorre rispondere – come dice Lyotard a proposito degli studi – è: “a che cosa serve? si può vendere?” L’opera d’arte che nega l’opera d’arte risponde contemporaneamente “no” e “sì” – da cui il paradosso, analogo a quello di Lyotard che fonda il postmoderno sulla narrazione della fine delle narrazione fondative.
Occorre sciogliere il paradosso e assumere una postura meno contratta. Ci sono due criteri di legittimazione e di valore, che caso per caso possono essere in accordo o in conflitto. La situazione, di per sé, non è affatto nuova; è anzi antica e costitutiva della separazione del sapere (o dell’arte) dal senso comune e dalla vita corrente. Il problema è quello, sempre esistito, della omogeneità o meno dei valori fra produttore e fruitore, che si determina come problema quando il produttore non raggiunge il fruitore ovvero quando il fruitore non capisce o rifiuta il prodotto. La sintonia con i gusti e le esigenze delle élites dominanti, la celebrazione del potere e il patteggiamento con le esigenze di chi lo detiene è stata per secoli una strategia per mantenere al sapere uno spazio di autonomia creativa e intellettuale assieme alla legittimazione sociale. L’allargamento della platea dei fruitori ha da un lato accresciuto l’autonomia e il prestigio del sapere, dall’altro ha prodotto divergenze strutturali fra produzione e fruizione. Per esempio, in tempi relativamente recenti il conflitto fra i due diversi criteri di legittimazione del sapere si è posto con le avanguardie, e prima ancora si era determinato nell’evoluzione della scienza: con lo sviluppo del sapere in termini di complessità e di ampiezza del campo di competenze, il bacino dei fruitori potenzialmente interessati si è allargato, ma si è ristretto e si è frantumato quello dei fruitori idonei. In altri termini, con l’aumento delle dimensioni di scala nella produzione e nella fruizione cambiano le dinamiche e appaiono “proprietà emergenti”, caratteristiche nuove da un punto di vista strutturale. La comparsa del post- si può considerare sintomo di un cambiamento di egemonia nel rapporto fra produzione e fruizione. Qualcosa di analogo è stato osservato da Philip Kotler nell’evoluzione della società industriale, manifestandosi come il passaggio da un orientamento iniziale alla produzione a un successivo orientamento al prodotto, che si è evoluto in un orientamento alla vendita per approdare infine al marketing, in cui l’egemonia sul valore appartiene definitivamente alla fruizione. L’enorme sviluppo delle discipline umanistiche negli ultimi due secoli, e in particolare negli ultimi cinquant’anni, si è accompagnato ad una divaricazione fra il valore del prodotto secondo i criteri di legittimazione propri rispetto al valore riconosciuto dai criteri di legittimazione collettivi.
Ciò che uno sguardo dalla distanza coglie nel panorama è un nucleo luminoso di prodotti intellettuali e artistici ben visibili, dominanti, avvolto in un pulviscolo di altri prodotti singolarmente invisibili e irrilevanti. In apparenza si direbbe una gerarchia simile a quella, nota, che distingue i capolavori, i grandi autori, l’eccellenza, dagli epigoni, dalla mediocrità, dai “minori”. Uno sguardo ravvicinato coglie invece un’assenza di gerarchia: talvolta la merce esposta bene in vista è di pregio, altre volte mediocre, spesso è insignificante, e lo stesso può dirsi di ciò che costituisce l’irrilevante pulviscolo. Ciò accade perché i criteri di attribuzione del valore sono due e non sempre – solo casualmente – coincidono. Il valore del prodotto non corrisponde necessariamente al valore di mercato. In passato il mancato riconoscimento pubblico di un valore era un fenomeno sporadico, dovuto a circostanze fortuite, e ristretto a un autore o a un’opera o anche a una corrente artistica o di pensiero che si trovavano neglette per poi essere riconosciute. Ora si tratta di un fenomeno strutturale. È una proprietà emergente.
Se si considera più o meno stabile il codice storico di riconoscimento del valore entro una certa disciplina o arte, il criterio di attribuzione del valore stabilito dal mercato distribuisce infatti i prodotti in una curva che si può disegnare come un’iperbole. L’immagine che riproduco qui proviene da una voce di Wikipedia dal titolo “Coda lunga”.
La “coda lunga” è quella gialla, che si assottiglia rapidamente ma si allunga indefinitamente. Sull’asse delle ordinate sono situati gli apprezzamenti, le vendite, su quello delle ascisse sta la produzione. Poco viene stimato molto, molto viene stimato poco: fin qui tutto consueto, se non fosse che nella parte verde, quella descritta prima come un nucleo luminoso, si trova ciò che, se dai tanti è apprezzato, non è necessariamente il meglio. Mentre nella coda lunga si trova – se parliamo per esempio di libri – il testo che ha pochi o anche pochissimi lettori, di nicchia, forse perché è insignificante, forse perché è difficile, forse perché è particolare, forse perché richiede conoscenze che hanno in pochi, forse perché è molto innovativo. Insomma, sta tutto ciò che non vende, quale che sia il motivo. E maggiore è l’ampiezza del mercato, tanto più alta sarà la guglia verde della visibilità e tanto più lunga quella gialla dell’invisibilità.
Invisibilità
La polarizzazione fra visibilità e invisibilità determina una nuova struttura della sfera di produzione dei saperi umanistici.
Nell’area della visibilità, dove l’egemonia del valore di mercato è quasi completa, l’effetto più eclatante è la perdita di centralità del testo e dell’opera, del prodotto, e il trasferimento del valore sull’istituzione e sull’autore: su due brand, cioè due etichette. L’importante è l’autore, la sua notorietà, la sua biografia elementare, la sua fama, il suo aspetto. Il testo è cosa secondaria, più una emanazione dell’autore, da cui riceve visibilità e prestigio, che garanzia e certificazione del valore dell’autore stesso. Così anche per l’istituzione: un’università che ha forte visibilità e chiara fama garantisce del valore di un suo studioso assai più che l’opera dello stesso; una casa editrice blasonata può pubblicare qualunque cosa, infondendole un’aura prestigiosa che lo stesso identico testo non avrebbe se pubblicato altrove. La visibilità diventa la misura del valore perché è all’intersezione fra prodotto e mercato. La conseguenza è la competizione per la visibilità, a discapito del prodotto. Tale competizione si gioca essenzialmente sul piano del riconoscimento personale e determina la creazione di veri brand individuali, un “divismo culturale” assai più accentuato che nel passato (in cui era limitato al cinema e alla musica).
Analogamente, la competizione per la visibilità è fra le istituzioni ovvero fra le aziende. Le graduatorie comparative delle università ne sono un esempio, così come i vari festival e premi. Questa competizione ha assorbito in sé praticamente tutta l’attività che un tempo era della cosiddetta critica militante, tanto da svuotarla di quasi ogni credibilità e spessore. La competizione per la visibilità si è inoltre sviluppata all’interno dell’accademia, fra settori disciplinari contigui, fra dipartimenti, all’interno stesso di questi e di ogni specialismo. Ne sono un esempio le recenti riforme universitarie italiane e l’avvento dell’era bibliometrica, con tutti i suoi fantasiosi bizantinismi.
Un effetto molto generale è il consolidamento delle etichette, l’instaurarsi cioè di cartelli che hanno una sorta di semi-monopolio non sul sapere né sulla sua diffusione, bensì sulla sua legittimazione. C’è una sorta di sapere “di marca” e poi altro sapere, da discount, per così dire, non garantito da un marchio noto. Questa è l’area dell’invisibilità.
Un altro effetto generale, e che accomuna entrambe le aree, quella della visibilità come quella dell’invisibilità, è il tipo di dinamica che presiede al cambiamento. In passato si poteva delineare una tendenza generale, una evoluzione del gusto, delle preferenze intellettuali, una scelta delle questioni rilevanti e dei punti di vista più significativi, delle poetiche. Si poteva fare una storia, per esempio della letteratura, e considerare la propria stessa attività entro una dinamica storica. Il postmoderno è stata l’ultima poetica globale, dopo la quale la molteplicità dei movimenti, delle poetiche, degli stili si è allineata come i prodotti sugli scaffali di un supermercato. In apparenza manca un punto di vista egemone che possa ricondurre a sé la molteplicità o comunque ordinare le differenze; in effetti tale mancanza è la presenza egemone di un principio ordinatore di mercato: non un filo conduttore ma la concorrenza e la lotta per la visibilità, che produce un rigogliare di novità, qualche volta vitali, spesso inconsistenti. Tutte queste novità non dialogano, non si confrontano, non si fondono, ma cercano invece di distinguersi. Il principio ordinatore è appunto la distinzione nella molteplicità dell’offerta. Nell’area della visibilità l’offerta trova la sua organizzazione attraverso i marchi, fra loro concorrenti, che la legittimano. In quella dell’invisibilità il disordine regna sovrano.
Dare una descrizione ordinata del disordine è arduo. Molto sommariamente e secondo la logica che determina la coda lunga si può dire che nell’invisibilità convivono le produzioni residuali, vecchie e quasi senza più clienti con quelle appena nate, in cerca di nuovi fruitori, assieme a tutto ciò che – talvolta legittimo in virtù di un marchio, più spesso illegittimo – è però di nicchia, riservato a pochi o pochissimi. Nel disordine e nell’invisibilità non c’è vera concorrenza né ricerca di distinzione, perché non ci sono scaffali su cui allineare la merce. Di fatto la distinzione dei prodotti è più subita che cercata, è nella natura della coda lunga, che si può immaginare come una soffitta-laboratorio, dove c’è di tutto ma è assai difficile trovare qualcosa. Mentre nell’area della visibilità tutto è in iper-evidenza, nell’invisibilità il buio vale anche per i produttori. Ciascuno lavora per conto suo o con pochissimi a fianco per fruitori sporadici o interni al proprio stesso piccolo gruppo. Cosa ci sia proprio lì accanto non si sa.
Ciò determina due condizioni peculiari della produzione invisibile: dalla solitudine nascono infatti sia l’originalità sia la conservazione. Come la separazione geografica può produrre nell’evoluzione di una specie o di una lingua tanto la conservazione di caratteri arcaici quanto la divaricazione verso forme distanti da quelle di origine, così nella produzione culturale: la replica del sempre uguale per pochi estimatori come la più singolare e imprevedibile delle innovazioni. Ciascun produttore segue il suo filo, il suo dialogo storico con la propria tradizione culturale di riferimento, a suo modo. Nell’area dell’invisibilità l’egemonia del mercato non si fa sentire sul prodotto, che nasce a partire dalle logiche proprie dell’autolegittimazione – mentre si fa sentire, fortemente, nella condizione stessa di invisibilità.
A questo proposito bisogna almeno accennare alle due forme di organizzazione molecolare tipiche dell’invisibilità. Una è rappresentata dalla rete, con i suoi motori di ricerca e con i social network, sia aspecifici, come per esempio Facebook, sia dedicati come Academia; l’altra da associazioni come quelle che raccolgono i ricercatori indipendenti. In entrambi i casi si tratta di strumenti che permettono una qualche visibilità reciproca fra i produttori, ma che non offrono né legittimazione né una vera presenza di mercato.
La condizione più strettamente legata all’invisibilità è la povertà. Il lavoro svolto nella coda lunga non è remunerativo né (perlopiù) finanziato. La differenza da quello svolto nell’area di visibilità non potrebbe essere maggiore. Dal punto di vista dei prodotti, differenziarli, alla maniera tardo-moderna, fra quelli per la massa o popolari e quelli elitari o alti è ovviamente privo di ogni senso, ma neppure l’orientamento al mercato oppure verso una decisa auto-fondazione e autolegittimazione li distinguono appropriatamente, dato che molti prodotti emergenti ma non ancora emersi sono rivolti precipuamente al mercato. Quanto a originalità o conservazione, sono tratti tipici dei prodotti creati nell’invisibilità, ma possono appartenere anche a prodotti dell’area visibile. La discriminante più certa è quella data dalle risorse economiche: il denaro si distribuisce infallibilmente secondo il criterio di attribuzione del valore stabilito dal mercato. A visibile vs invisibile corrisponde ricco vs povero.
La struttura che ripartisce il sapere in due aree culturali, una emersa, visibile, ricca, contro una sommersa, invisibile, povera, ha qualche analogia con quella vigente nell’antica Cina. Qui per circa tredici secoli il sistema degli esami ha selezionato attraverso un rituale di prove erudite e letterarie il ristretto ceto dei funzionari, i mandarini, formando accanto a questi un vasto ceto di intellettuali esclusi e spesso frustrati, bacino sia di rivoltosi di talento sia di quei letterati innovativi e fuori dei canoni classici che lentamente hanno dato corpo alla letteratura cinese moderna. Le differenze dal sistema di strutturazione attraverso il valore di mercato sono enormi, tuttavia un paio di indicazioni dalla millenaria esperienza della Cina antica forse si possono azzardare. La prima riguarda la complementarità delle due aree. Il visibile ha bisogno dell’invisibile quale luogo di maturazione di ciò che si candida alla visibilità; l’invisibile ha bisogno del visibile come orizzonte di ricezione. In altri termini, senza esclusione non si dà inclusione e viceversa. Ciò evidentemente stabilizza la struttura bipartita e promette una sua lunga durata. La seconda indicazione è la possibilità, remota ma non poi così tanto remota, che il nuovo originato nell’invisibilità anziché dirigersi verso il denaro e la visibilità, come pure è naturale faccia, si sedimenti altrove, fuori dal nucleo luminoso, e dia lentamente vita a un’alternativa: che la scompaginata e illegittima auto-fondazione dei saperi umanistici si riorganizzi e trovi una forma propria e appropriata, differente da quella stabilita dal mercato e forse in conflitto aperto con questa.
Un conflitto aperto che oggi appare velleitario e che si manifesta piuttosto come una protesta.
Protesta
La protesta attualmente si leva dalla parte più curvata dell’iperbole, da quel piccolo segmento a cavallo fra la guglia e la coda lunga in cui passa la linea che divide visibile da invisibile. Lì si trovano le istituzioni, in particolare quelle accademiche, ma in generale tutte le organizzazioni e gli enti che hanno finora più solennemente legittimato il sapere umanistico. Protestano perché viene tolta loro la funzione di legittimazione, e con questa vengono a mancare le risorse economiche per sostenersi. Se la cultura umanistica, infatti, è strutturata al proprio interno dai valori di mercato, è il sapere nella sua interezza organizzato secondo la stessa struttura. Le discipline umanistiche, che faticano particolarmente a rispondere alla domanda circa la loro utilità pratica, economica, vanno così a situarsi fatalmente, tutte, nella coda lunga del sapere. L’ombra dell’invisibilità e della povertà si avvicina anche a campi di studio un tempo floridi e tradizionalmente importanti. L’irrilevanza è ormai prossima.
Il valore della protesta sta nel mettere in evidenza ciò che fino a pochi decenni fa era scontato, ossia che la cultura umanistica ha un ruolo essenziale e imprescindibile per la società nel suo complesso. Il limite sta nel fatto che questo ruolo non viene affatto contestato dalla legittimazione di mercato: è solo messo a lato, approvato a parole e non nei fatti, dimenticato, ignorato perché privo di utilità. Sebbene la protesta si sforzi di allargare il campo dell’utilità a un piano più ampio di quello economico non può essere altro che inappropriata e sfocata. E di questo sembra che i suoi promotori non si accorgano affatto.
Martha C. Nussbaum in un libro del 2010, intitolato Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, traccia per sommi capi una delle strategie di difesa e contrattacco maggiormente condivise. In sostanza propone di spostare la legittimazione dal piano del mercato a quello della politica. L’argomento centrale è che la cultura umanistica forma dei buoni cittadini e che la democrazia ha necessità di buoni cittadini. Si tratta – a mio parere – di un argomento debole e pericoloso. Debole perché per essere efficace ha necessità di una premessa: che il mercato abbia a sua volta bisogno della democrazia. Questa è una premessa falsa, come ciascuno può facilmente constatare. Si tratta inoltre di un argomento equivoco: tende a essere prescrittivo circa i contenuti e le forme della cultura, dato che non tutto ciò che è “cultura umanistica” è anche funzionale agli scopi assegnati da Nussbaum. In generale, subordinare il sapere e la sua diffusione a finalità politiche e sociali, per quanto nobili, implica una “correttezza” pericolosa per la natura stessa del sapere.
Una diversa – e simile – difesa del sapere umanistico, esemplare della protesta istituzionale, è quella pubblicata su “Il Mulino” nel 2013 a firma di Alberto Asor Rosa, Ernesto Galli della Loggia e Roberto Esposito, intitolata Un appello per le scienze umane. L’argomento principale è solido: la cultura umanistica serve all’identità individuale e collettiva in quanto fondata sulla storia e sulla lingua, sulla memoria, che a loro volta sono indispensabili a qualunque forma di vita sociale e a ogni tipo di sviluppo, incluso quello tecnologico ed economico. Se l’argomento è inoppugnabile, l’efficacia dell’argomentazione è però debolissima: la legittimazione di mercato semplicemente dà per scontata una qualsivoglia possibilità di comunicazione linguistica – Google Translate è un adeguato strumento per assicurarla universalmente – e una qualsivoglia memoria, privata e collettiva – ma è del tutto disinteressata alla loro qualità, veridicità, profondità, al loro spessore. Una lingua povera e una memoria a breve termine basata su informazioni approssimative sono assai più economiche e altrettanto utili di una lingua ricca e di una memoria storica complessa. E allora perché investire senza un utile atteso? Le scienze umane si possono limitare a minuscole nicchie dove competenze specialistiche vengono coltivate da pochissimi e, su una scala un po’ più ampia, essere considerate, al massimo, “beni di posizionamento”, competenze di lusso, cioè, che i ricchi, se vogliono, possono acquistare ed esibire. Non serve di più.
Se le proteste cercano argomenti efficaci non li troveranno. Il mondo del post- è affollato di argomenti e uno vale l’altro, ciò che conta sono i comportamenti concreti degli individui, la prassi. Più che la protesta conta la resistenza. Non mancano le “strategie di sopravvivenza” praticate dalle istituzioni. Mi pare siano essenzialmente tre. La prima è il catenaccio burocratico-politico: ogni istituzione dispone di risorse di potere consolidate nel tempo con cui opporsi all’erosione dei privilegi tradizionali. Una seconda strategia preferisce l’accordo di facciata con i valori egemoni uniformandosi sul piano pratico per preservare la propria essenza: la tattica consiste nella ricerca di visibilità e nella raccolta di un numero di studenti-clienti tale da giustificare la propria esistenza. Una terza, più ambiziosa, consiste nella ricerca di fantasiosi modi per piegare le competenze umanistiche a una qualche profittevole attività, che di regola si riduce, in ultima analisi, a turismo, marketing e web-economy. Ciò stravolge la natura, il nucleo stesso della propria auto-legittimazione, ma può forse salvare ruoli, carriere, istituzioni.
Vorrei però concentrare l’attenzione sulla resistenza non istituzionale. È quella presente soprattutto nell’invisibilità. Qui infatti il mercato ha poca forza perché la produzione è gratuita. La resistenza si configura come un rapporto diretto, del singolo individuo, in interiore homine, con la propria verità esistenziale, che esige un rapporto personale con la creazione e la tradizione. Se infatti le istituzioni non offrono più uno spazio praticabile, al loro posto subentrano le comunità e soprattutto il rapporto diretto con il testo. Le radici culturali di questo atteggiamento si possono far risalire a Lutero e alla sua protesta, e da lì indietro fino ad Agostino. Ma questa protesta e vera resistenza trascende la dimensione religiosa e collettiva. Quando Machiavelli in esilio racconta a Vettori lo squallore della sua vita quotidiana, l’ingaglioffirsi con i compagni d’osteria, e il ritorno a casa la sera, l’ideale rivestirsi di panni reali e curiali, e il suo dialogo privato, interiore, con gli antichi – «mi pasco di quel cibo, che solum è mio, et che io nacqui per lui»[3] – dice tutto ciò che c’è da dire sulla forza nascosta nell’invisibilità. Poco importa quale sia il libro aperto. «Io nacqui per lui». In questa irriducibilità passa la linea di resistenza delle discipline umanistiche e della cultura umanistica tutta.
Probabilmente nel il brulicante caos dell’area invisibile l’atteggiamento irriducibile non è maggioritario. Probabilmente è presente, minoritario, anche nell’area visibile, nell’interiorità di chi anche non pagato continuerebbe comunque a fare ciò che fa. Conoscere quanto sia diffuso questo atteggiamento, quanto lo sarà, non è possibile. Sapere in anticipo se troverà i modi per darsi una forma organizzata neppure. Però la resistenza passa per gli individui e per la loro realtà umana. La crisi delle discipline umanistiche ha il suo campo di conflitto decisivo nella soggettività di ciascuno, in cui si affrontano i problemi oggettivi posti dallo stato delle cose. La legittimità stessa dei saperi umanistici si fonda in interiore homine. Quanto gli esseri umani hanno davvero bisogno di qualcosa di così superfluo come la cultura umanistica? E quanti sono coloro che ne hanno assoluta, intima necessità? Che prezzo è disposto a pagare ogni singolo individuo, nella propria concreta esistenza, per la libertà di dedicarsi all’illegittima cura di un pensiero inutile? Sono questi in definitiva gli interrogativi la cui risposta è oggi in questione.
[1] J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna, Milano, Feltrinelli, 1981, 1985, p. 86.
[2] J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna. cit., p. 94.
[3] N. Machiavelli, lettera a F. Vettori, 10 dicembre 1513, in Lettere a Francesco Vettori e a Francesco Guicciardini (1513-1527), a cura di G. Inglese, Milano, Rizzoli, 1989, p. 195.
[Immagine: Anish Kapoor, Descent into Limbo].
La cosa più interessante, intelligente, approfondita e pacata che abbia mai letto sull’argomento. Molto bello. Grazie.
“ 1 aprile 1995 – Ecco la lettrice giovanetta che si chiama « Isolina ». Come la nonna del babbo. Voilà il postmoderno. “.